La società postumana

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copertinaDavanti alle venti casse automatiche dell’Ikea di Berlino, sorvegliate da pochi umani, ho capito che Massimo Gaggi ha ragione.

All’Ikea sono arrivato con Melanie, una BMW presa con DriveNow. È consolante sapere che Melanie ha ancora bisogno di una guida umana, cioè la mia, che a sua volta si fa guidare dalla voce metallica di GoogleMap fra le vie di Berlino. Constato che ci ho messo mezz’ora ad avviare Melanie, non possedendo il PIN, per il quale ho dovuto telefonare all’Help Center, che dopo avermi chiesto come si chiama mia mamma da nubile e di fotografare la mia patente insieme alla mia faccia e inoltrarla via mail mi ha dato il PIN. Rilevo anche che non mi piace usare le casse automatiche, passare il lettore sui codici a barre, imbustare la merce. Mi deprimo se lo scontrino si accartoccia nel dispositivo rifiutandosi di uscire, e sono costretto a chiamare l’addetto, che non sa che pesci prendere perché non c’è modo di ristamparlo. Mi irrito quando l’addetto junior chiama l’addetto senior che si arrovella inutilmente a sua volta intorno al computer, scuote la testa e alla fine accetta entusiasticamente la mia proposta di fare a meno dello scontrino perché a me lo scontrino non serve. Non sono un nativo digitale ma dopo tutto sono un italiano.

Non sono un Homo premium, forse nemmeno sapiens, e apprezzo sempre di più il libro di Massimo Gaggi (Homo premium. Come la tecnologia ci divide, Editori Laterza, 2018) e il suo ritratto della società postumana che ci attende. Homo premium è quell’umano che ha implementato l’encefalo di sapiens con almeno una ventina di app su uno smartphone. La superintelligenza è tutta lì. Saperle usare fa la differenza, ti mette su un gradino superiore della scala delle competenze, ti facilita la vita.

Il set minimo per la sopravvivenza nel mio caso è composto da Expedia, Booking, Airbnb per il turismo, DriveNow per l’auto, Amazon per acquistare quasi tutto, fra poco anche alimenti, Netflix per le serie, Google per mappe, mail e ricerche, Facebook, Twitter e Instagram per avere la dose quotidiana di like dopaminergici, Strava se corri o vai in bici, Nexi per tracciare i pagamenti Visa, e un paio di home banking.

Si dirà, cosa c’è di male, sono piccoli aiuti che ti evitano code, telefonate, enciclopedie, scarpinate per agenzie e negozi.

casse automatiche

Casse automatiche dell’Ikea Tempelhof, Berlino. Foto di Luca Carra.

Nel libro in realtà Gaggi enumera molte altre app, che praticamente sostituiscono qualsiasi lavoro umano. Si dice che – tramontati o quasi i cassieri e i bancari – solo alcune professioni resisteranno alla efficiente insipienza dell’intelligenza artificiale, soprattutto quelle che implicano l’uso di empatia, come medici, infermieri, sacerdoti. Ma Gaggi ci informa che è nata la app Confession per sostituire il confessionale, mentre il programma Watson insidia la precisione delle diagnosi mediche, e via elencando.

L’amazonizzazione del mondo – e il connesso declassamento da cittadino a consumatore – è cosa praticamente fatta. E fin qui niente di nuovo. Ma ciò che rende il libro di Gaggi un utile viatico per i prossimi anni è l’aver riportato in 150 pagine il dibattito su dove andrà il mondo con le nuove tecnologie e quale sarà il ruolo della politica.

Il dibattito è nato proprio là dove tutto ha avuto inizio, nella Silicon Valley. Inviato da 15 anni negli States, il giornalista del Corriere della Sera ha infatti consultato un cospicuo numero di opinionisti, futurologi e imprenditori del digitale fra San Francisco, New York e Seattle. Gente che fino a ieri fa osannava il «nuovo mondo» mentre oggi si mostra preoccupata per il calo dell’occupazione, le disuguaglianze e l’automazione della vita portate dalla gig economy.

Il lavoro che cambia occupa la parte saliente del libro, e l’unica cosa certa che si può dire dopo la lettura è che sostanzialmente nessuno è in grado di prevedere come cambierà il lavoro a distanza di 5-10 anni. Quasi sicuramente ci sarà una ulteriore, drammatica perdita di posti di lavoro nel prossimo decennio, considerando per esempio che ogni robot porta via sei posti di lavoro umani. Uno sconquasso al quale bisognerà far fronte con forme di assistenza come il reddito di cittadinanza. Che non è una invenzione dei 5 Stelle ma è già erogato da alcune grandi aziende statunitensi sotto forma di Universal Basic Income per non far esplodere le tensioni sociali che stanno covando in certe zone degli Stati Uniti.

Se esaminiamo le attuali big five (Apple, Facebook, Alphabet, Amazon, Microsoft), alcune sembrano in realtà creare lavoro (come Amazon) altre invece sembrano farne quasi totalmente a meno, come Facebook, che con un valore in Borsa di 520 miliardi di dollari impiega 21.000 dipendenti. Poca cosa rispetto al milione e centomila impiegati di General Electric, IBM, Ford e AT&T, che insieme valgono quanto la società di Zuckerberg.

Nel mondo iperconnesso le disuguaglianze paiono aumentare. La tecnologia divide inesorabilmente chi sa da chi non sa. Condanna chi la abbraccia con troppo entusiasmo alla solitudine digitale, talvolta alla dipendenza. Ti dà solenni fregature rivestite dalla retorica postlibertaria (in realtà superliberista) della sharing economy. Ti traccia e ti profila in ogni momento della vita.

Soprattutto crea una élite di super-ricchi (Homo premium) che ha saputo mettere a profitto la sua start-up e che compra casa a San Francisco a cifre folli, mentre la ex classe media emigra nei suburbi, perde il lavoro, si arrangia con lavoretti precari che danno l’illusione della piena occupazione negli Stati Uniti.

Nei suoi zig-zag la storia potrebbe avere anche una fine diversa, sembra qua e là suggerire Gaggi. Alcuni Tycoon del digitale come Evan Williams, fondatore di Twitter, si sono accorti che la rete non libera ma imprigiona, e ora assumono non più solo computer scientist (che resta il mestiere più pagato) ma anche umanisti, sociologi, psicologi, eticisti. Bill Gates magari paga poche tasse ma ha avviato con la sua fondazione imponenti programmi di aiuto nei paesi in via di sviluppo. Elon Musk, mentre lavora alla sua Tesla automatica, progetta voli spaziali. Brian Chesky propone di trasformare Airbnb in una «piattaforma esperienzale» che va ben oltre l’affitto di case. Jeff Bezos promette di creare la nuova sede di Amazon con 50mila impiegati, e 238 città si sono già candidate a ospitarla.

L’enigmatico Zuckerberg, dopo gli incidenti dell’elezione di Trump probabilmente manipolata dai russi via Facebook e l’affaire Cambridge Analytica, sembra considerare una possibile carriera politica, che nel suo caso significherebbe una candidatura alla Casa Bianca. Forse per disinnescare il rischio che un domani la destra o la sinistra radicale americana liquidino i monopolisti della rete trasformandoli in public utilities. O forse per sperimentare una nuova politica che controbilanci le fughe in avanti del forsennato neotaylorismo digitale che lui stesso ha contribuito a creare.

Chi lo sa? Tutto è in movimento, l’orizzonte è oscuro, il futuro incerto. Si prospettano tempi interessanti, ma molto complicati.

La recensione è apparsa sul sito web Scienza in rete il 19 luglio 2018.

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