Le 7 parole di Gesù in croce

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Le 7 parole di Gesù in croce

L’enciclopedico cardinale esegeta offre in questo volume un ennesimo saggio delle sue profonde conoscenze non solo bibliche, ma estese a molti campi della scienze, della letteratura e della musica in primis. Seguendo l’ordine delle sette parole pronunciate in croce da Gesù secondo le varie testimonianze evangeliche così come state codificate dal monaco certosino Leopoldo di Sassonia – con la leggera modifica di anticipare la parola alla madre e al Discepolo Amato rispetto a quello detta al ladrone pentito –, Ravasi ripercorre gli ultimi istanti della vita di Gesù vissuti all’insegna sia del dolore atroce ma anche della grande fede e dell’affidamento fiduciale al Padre.

L’autore premette alle sue riflessioni sulle ultime sette parole di Gesù in croce un capitolo dedicato all’antefatto intercorso nella notte tra il giovedì e il venerdì. Rielaborando un articolo scritto per l’Osservatore Romano del 28 marzo 2010, Ravasi ripercorre le vicende dell’arresto di Gesù e degli interrogatori svoltisi nella notte e al mattino presto sia in sede giudaica che romana.

Nel suo percorso esplicativo, molto sintetico e ricco di informazioni, Ravasi non accenna alla possibilità che Gesù abbia compiuto la cena di addio o un pasto solenne la sera del martedì (secondo il calendario esseno), lasciando in tal modo maggior spazio per l’accadimento dei vari eventi.

Dopo aver descritto la complessa figura di Pilato quale si evince dai vangeli e nella tradizione successiva, l’autore conclude il suo percorso con Gesù che giunge, torturato e vilipeso, sulla collina del Golgota.

Ravasi ricorda più volte che le narrazioni evangeliche non sono resoconti cronachistici ma, come tutte le storie, sono una storia interpretata, questa volta alla luce della fede, per far intuire il significato profondo, teologico, scritturistico delle persone e degli eventi in scena.

Tipici di Ravasi in questo volume sono la frequente citazione di biblisti, letterati, musicisti, santi e mistici e, nel campo biblico, l’ampio spazio dato agli apporti degli scritti apocrifi, preziosi per le loro informazioni che riflettono l’atmosfera spirituale dei primi due secoli della comunità cristiana.

Tutta la vicenda di Gesù in croce è vissuta da Gesù e interpretata dai vangeli alla luce della fede biblica, in specie quella espressa nei salmi. Sulla croce Gesù non cerca vendetta, ma il perdono. Di esso Ravasi scruta il risvolto non solo biblico, ma anche psicologico, terapeutico ed economico.

Al perdono segue l’affidamento della madre al discepolo e, viceversa, del Discepolo Amato alla madre. Sotto la croce sboccia il fiore della Chiesa.

Gesù promette il paradiso, cioè la vita con lui, al ladrone buono. Gli apocrifi daranno ai ladroni i nomi di Tito e Dumaco, o Disma/Edma (buono) e Cista/Gesta (cattivo); nelle traduzioni successive essi assumeranno i nomi più strani: Joathas/Zathanm (buono) e Camma//Cappatas (cattivo)…

Gesù non muore disperato, ma nel dolore atroce, fisico, morale e spirituale; egli avverte umanamente la solitudine anche spirituale, ma, pregando con l’inizio del Sal 22, lo prega tutto. Muore non da di-sperato, a-teo, ma pregando il suo Dio, con abbandono fiducioso all’esito felice che il salmo prevede al suo termine.

Gesù rifiuta la mirra/fiele citato nel salmo, che gli impedirebbe il dono di sé in piena coscienza, mentre assaggerà l’oxos, il vinello aspro e acidulo dei soldati.

Il suo grido sarà scambiato come l’invocazione di Elia, patrono dei morenti. Solitudine drammatica, ma non disperazione atea.

Al termine delle sue sofferenze Gesù alza il grido della sete, che anche Ravasi sembra interpretare come culmine della storia della salvezza (ho sete di redimere gli uomini). Io preferisco leggere il versetto nel senso che, sapendo Gesù che tutto era stato compiuto perché fosse compiuta la Scrittura, allora disse “ho sete”. Grido intenso, certo, molto significativo e simbolico, ma (con De La Potterie) non sembra che dire “ho sete” rappresenti il compimento delle Scritture… Delicata la posizione delle virgole, da interpretare bene se vengono mantenute entrambe, mentre l’interpretazione è facilitata se si toglie la prima (dopo “compiuto”).

La drammaticità della morte di Gesù, ma la sua non fine disperata, è ben espressa da una parola che solo Luca ricorda. Egli riporta la frase con la quale Gesù esprime il pieno affidamento della propria vita al Padre, come lo farà ogni buon ebreo nei secoli successivi al termine della giornata (e così i cristiani dalle liturgia della Compieta). Gesù ridona al Padre/Donatore il proprio principio vitale, ma anche tutta la propria vita e la propria storia corroborata dalla presenza dello Spirito Santo dal battesimo, alle tentazioni e alla preghiera di lode al Padre.

Dopo il capitolo introduttivo (pp. 15-52) e concluse le meditazioni sulle sette parole dette da Gesù in croce (pp. 54-186), nel c. 9 (pp. 187-220) Ravasi indaga gli eventi successivi alla morte di Gesù, delineando le figure di Giuseppe di Arimatea, di Nicodemo, delle donne, di Pietro e Giovanni, di Maria Maddalena, meditando sul mistero della risurrezione che, pur avendo le radici nella storia, ha la sua profondità di senso, il suo “fiorire”, a livello trascendentale, “divino”. Per questo le cristofanie (temine da Ravasi mai usato, ma frequente negli autori) sono di due tipi: di riconoscimento e di invio in missione. Risurrezione non è evidentemente lo stesso che rianimazione.

Il c. 10 (pp. 221-244) è dedicato a una riflessione circa lo scandalo della croce, segno di morte infame, ma simbolo anche di redenzione, di amore solidale e redentore, perno portante della teologia cristiana, scandalo e gloria, sapienza paradossale di cui non vergognarsi mai. «La croce per noi, la risurrezione avanti a noi» (J. Moltmann). Per crucem ad lucem dirà il detto medievale.

Non poteva mancare un capitolo dedicato alla ritrascrizione artistica delle sette parole di Gesù in croce: parole, musica, immagini. Il volume si chiede con un commento all’opera di Heinrich Schütz e al capolavoro di Franz Joseph Haydn.

Alcune osservazioni minori: a p. 25, prima di Caifa ci fu il sommo sacerdote Simeone, figlio di Kamit (17-18 d.C.); Ravasi preferisce l’identificazione della sede del prefetto quando saliva a Gerusalemme nella caserma della Fortezza Antonia, ma molti la identificano invece con il palazzo degli Erodi situato nella città alta; Pilato è prefetto, più che procuratore (pp. 31, 34, 37, 198; cf. l’iscrizione lapidea di Cesarea Marittima); a p. 229s Gesù non “fu trattato da peccato” ma “fatto peccato”; seguendo le indicazioni di Vanhoye, in riferimento a Gal 3,13 è meglio mantenere la metafora per cui Gesù divenne “maledizione” e non “maledetto” (rende più tragica la definizione: “Fu la maledizione in persona!” e separa maggiormente la metafora dalla persona: Gesù non fu personalmente maledetto. Va bene accennare alla teoria sostituzionista e di giustizia forense elaborata da Anselmo di Aosta, ma riprendere alcune espressione come «le giuste esigenze della giustizia» suona davvero fuori luogo (p. 230; così anche a p. 239, dove pure c’è un tentavo di migliorare la comprensione; meglio lasciar perdere del tutto tale elaborazione, che ha già fatto danni per un millennio intero). A p. 238 l’ultimo degli autori della Teologia contemporanea è U. Perone e non V. Perone.

Come sempre il dettato di Ravasi è limpido, affascinante, documentato (anche troppo!) e con le sue contestualizzazioni bibliche, storico-critiche e culturali in genere fornisce un ottimo strumento per vivere con intensità la Settimana Santa.

 

Gianfranco Ravasi, Le sette parole di Gesù in croce, (Meditazioni 243), Queriniana, Brescia 2019, pp. 288, € 20,00, ISBN 978-88-399-2843-6

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