La Lettera ai Colossesi: un commentario

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L’autore di questo commentario, Leonardo Giuliano, è docente di Esegesi del NT, di Introduzione generale alla sacra Scrittura e di Lingua Greca e Latina presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Fides et Ratio” de L’Aquila.

Dopo una lunga Sezione introduttiva (pp. 15-100), segue la traduzione personale e il commento suddiviso in alcuni grandi blocchi epistolari (pp. 101-374): L’introduzione alla lettera (1,1-23); Prima esposizione. L’ethos dell’apostolo: a servizio del vangelo (1,24–2,5); Seconda esposizione. Saldi e fedeli al vangelo contro ogni inganno (2,6-23); Terza esposizione. L’ethos dei credenti: santi, immacolati e irreprensibili in Cristo; La perorazione finale (4,2-6); il Poscritto (4,7-18). Un lungo excursus arricchisce questa parte: “Autorialità, background e funzione argomentativa di Col 1,15-20” (pp. 161-181).

Segue l’esposizione del messaggio teologico (pp. 375-390). I motivi teologici di Colossesi analizzati sono: 1) Cristo e il Padre; 2) Cristo capo del corpo, cioè della Chiesa; 3) Cristo, principio e modello dell’ethos credente; 4) Cristo, speranza della gloria.

Si analizza quindi la Lettera ai Colossesi nel canone delle Scritture e nella storia dell’interpretazione. Segue il lessico biblico-teologico di Colossesi, la bibliografia (ragionata e generale) e gli indici (autori, citazioni bibliche ed extrabibliche, filologico, generale).

Stile e contenuto teologico

La Lettera ai Colossesi è al centro di discussione fra autorialità o protoepistolografia paolina. Tra i sostenitori della paternità paolina (autorialità, autenticità), la lettera viene datata fra il 60 e il 63 d.C., avendo come luogo di provenienza la prigionia (Cesarea, Roma, Efeso). La maggioranza degli studiosi opta per la non autorialità e la datano fra il 70 e l’80 d.C., dopo la morte dell’apostolo.

Numerosi sono gli argomenti addotti a difesa della non autorialità paolina. Il vocabolario riporta vari termini mai usati prima da Paolo e mancano termini e concetti rilevanti nell’epistolario paolino (peccato, legge, giustificare/giustificazione, credere, libertà/liberare, salvezza/salvare, figliolanza ecc.).

C’è chi pensa a un segretario o a un amanuense. Lo stile è molto diverso dalle lettere autentiche. Il linguaggio è sovraccarico, ridondante, ampolloso (si pensi al ringraziamento-esordio che si estende per 20 versetti: 1,3-23).

La presenza e la formulazione della partitio in 1,21-23 (esposizione dei punti da trattare) è un elemento di discontinuità con il Paolo autoriale. Manca vivacità comunicativa e immediatezza, proprie di uno stile dialogico e familiare. Lo stile è attento e a volte ricercato. Una novità è espressa anche con il codice domestico di Col 3,18–,1, che rivela un tempo successivo a quello propriamente paolino.

Novità sono presenti anche a livello teologico. Riguardano la cristologia, l’ecclesiologia e l’escatologia. Non si può pensare a uno sviluppo del pensiero paolino in pochi anni rispetto alla Lettera ai Galati. L’agiografo scrive una lettera reale, per quanto la “situazione” epistolare riflessa (mittente/prigionia) sia fittizia.

La cristologia vede la sottolineatura di Cristo presentato come avente la supremazia totale rispetto alla creazione, alla redenzione e alla riconciliazione. È una cristologia cosmica. Vengono attribuiti a Cristo titoli e attività prima attribuiti al Padre, in sovrapposizione e coordinamento di attività. Paolo rispettava molto il monoteismo ebraico, mentre qui si presenta con forza la mediazione di Cristo nella creazione, nella redenzione e nella salvezza finale. Cristo è il fine del creato.

Con questo ruolo salvifico universale dovuto al suo essere risorto e glorioso, Cristo è presentato come capo della Chiesa tutta, di cui ora non è più un membro (cf. 1Cor 12,21). L’ecclesiologia vede la presenza di un’immagine di Chiesa universale prima assente. Se non sono assenti riferimenti a una comunità locale, la Chiesa è vista nella sua universalità. Diversa è anche la partecipazione dei credenti tramite il battesimo. Fin d’ora questi condividono non solo la morte di Cristo Gesù, in quanto morti e sepolti con lui, ma anche la sua risurrezione (cf. 2,12-13; 2,20–3,1). Un elemento nuovo rispetto alla fase precedente dell’epistolario paolino e a quello della tradizione.

L’escatologia, anche se non interamente realizzata, vede la partecipazione alla vita nuova dei credenti non tramite lo Spirito (cf. Rm 6,4-5) ma la risurrezione, che nel Paolo autoriale è invece sempre posta al futuro. Già ora i credenti sono trasferiti nel regno del Figlio dell’amore del Padre. In Col 3,4 c’è però espressa una tensione in avanti: «Quando Cristo, (che è) la vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria». Con le dovute eccezioni, la parousia in Colossesi cede il passo a una speranza che è ormai parte dei credenti: «Cristo in voi, speranza della gloria».

Pseudepigrafia o protoepistolografia

Le osservazioni in merito al lessico, all’usus scribendi e alle tematiche teologiche portano Giuliano a sostenere che Paolo non è l’autore della missiva. Siamo al “confine” tra l’epistolario paolino e quello che si rifà alla sua tradizione. La poca distanza fra i due sarebbe stata colmata da un discepolo che conosceva la situazione contingente della comunità frigia della valle del Lico e che ha ancora viva la memoria dell’apostolo e del suo vangelo. Questo spiegherebbe i punti di continuità a ogni livello, un vangelo che viene attualizzato in un tempo successivo a quello di Paolo, e spiegherebbe gli elementi di novità che non sono però in contrapposizione o in alternativa a quelli riflessi nelle lettere autografe. Il discepolo apparterebbe all’ambito della «scuola paolina», forse membro della comunità romana oppure di quella colossese, o comunque originario dell’Asia Minore.

Altri pensano più decisamente alla pseudepigrafia o pseudonimia. Le due ipotesi sono sullo stesso piano, poiché la redazione sarebbe opera di un’altra persona, dopo la morte dell’apostolo e la lettera sarebbe inviata o dalla comunità romana oppure da una città vicina a Colosse o dalla stessa comunità, responsabile in prima persona della tradizione paolina in virtù di quel vangelo accolto grazie all’opera missionaria di Epafra, collaboratore di Paolo.

La pseudepigrafial/pseudonimia era una prassi diffusa nell’antichità con la quale si intestava a un personaggio famoso la paternità letteraria di un’opera per facilitarne la diffusione e la circolarità.

Oggi molti non apprezzano la terminologia «pseudepigrafia/pseudonimia», che può far pensare a una falsificazione, e parlano di «allonimia» o «allografia», termini più generici. Inoltre, si preferisce parlare di tradizione paolina, più che di «scuola». Lo scopo è quello di attualizzare Paolo in nuove situazioni vitali per affermare la perenne validità della sua persona e del suo insegnamento.

Nella letteratura pseudepigrafica, la memoria dell’apostolo, nella sua funzione fondativa/originaria, non solo sopravvive, quanto piuttosto rivive nelle diverse situazioni ecclesiali, benché queste ultime siano distanti nel tempo dal Paolo storico. Si tratta di ritrovare le radici della propria identità in un mutato contesto ecclesiale e culturale e, insieme, di richiamarsi a un’«autorità comune», o, meglio, all’autorità di chi è all’origine della tradizione domestica.

L’autore del commentario precisa la propria posizione. Pur restando nell’alveo dell’espressione più generale di «tradizione paolina», preferisce caratterizzare maggiormente questa letteratura definendola “protoepigrafica» o, meglio, trattandosi di lettere, «protoepistolografica» (dall’aggettivo prōtos nella sua accezione di «originario/primo»): lettera attribuita a colui che è all’origine della tradizione e non, invece, a un autore «diverso da quello vero» (pseudepigrafia) o, più genericamente a un «altro («allografia»). Nel caso di Colossesi, dunque, ci troveremmo di fronte a uno scritto protoepistolografico: un agiografo, di area paolina, probabilmente un discepolo (o un collaboratore) dell’apostolo e membro di una delle comunità domestiche presenti a Roma, avrebbe redatto la missiva dopo la morte di Paolo, intorno al 70, attualizzando il vangelo paolino in una situazione ecclesiale distante non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Per far rivivere la memoria Pauli, appellandosi alla sua autorità apostolica, l’autore avrebbe ricreato una «situazione» epistolare nella quale chi scrive è Paolo, in qualità di apostolo e in catene, sempre attento alle problematiche dei credenti» (p. 29).

La comunità di Colosse

Giuliano presenta a lungo la storia della città di Colosse, posta presso il corso del fiume Lico, nella Frigia sud-occidentale. Vicino ad essa esistevano anche le città di Laodicea e di Gerapoli. L’autore di Col chiede che la missiva indirizzata a Colosse sia letta a Laodicea e viceversa. La circolarità delle lettere sarà più chiara in Efesini.

La città viveva di agricoltura, di allevamento, di produzione tessile (capi in lana) e in pelle. Secondo Strabone, esisteva una famosa «tintura/tinta colossese». Vi erano agricoltori, pastori, commercianti, artigiani (conciatori), appartenenti a ceti medio-bassi, oltre che schiavi (Epafra?, Onesimo) e, probabilmente, liberti.

Nel 60-62 avvenne un disastroso terremoto, che investì anche Gerapoli e Apamea. In Colossesi non si accenna a tale evento. Gli abitanti parlavano greco, il latino in ambienti militari e un «greco-frigio». Oltre la koiné esistevano forse forme linguistiche proprie.

A Colosse esisteva una comunità giudaica, impiegata come soldati, zelanti e fedeli a Dio. Colosse non fu evangelizzata da Paolo che però ebbe contatti con persone della comunità: Filemone, Aristarco, Epafra, Onesimo. L’evangelizzazione avvenne probabilmente nel secondo viaggio, durante il soggiorno a Efeso (cf. At 16,19; 19,1). L’evangelizzatore fu Epafra (cf. Col 1,17; 4,12), che lavorò anche a Laodicea, dove i credenti erano riuniti nella casa di Ninfa (cf. 4,15: una donna) e a Gerapoli.

Colossesi non menziona Filemone e Appia. Probabilmente Filemone era già morto. Colossesi sembra rimandare a un passato per lo più pagano dei suoi destinatari. La presenza dei giudei è testimoniata dalla metafora etnico-religiosa della circoncisione, non spiegata. Si parla di «siede alla destra di Dio», «ira di Dio», «figli della disobbedienza». Si allude a un contesto veterotestamentario e giudaico più in generale. L’«errore» denunciato come presente nella comunità sembra provenga da una parte minoritaria del giudaismo di stampo mistico-apocalittico. Non si esclude, quindi, la presenza di giudeocristiani nella comunità. Probabilmente i falsi «dottori» disapprovavano anche i credenti giudeo-cristiani. La comunità mista era a maggioranza di origine gentile.

Il mondo religioso vedeva culti autoctoni compresenti con quelli introdotti prima dai greci e poi dai romani: culto di Zeus (presente anche sulle monete) e di Apollo. A partire da Augusto, gli imperatori vennero considerati divinità e invocati come signori e salvatori.

Il contesto è multiculturale e multireligioso, con reciproche influenze fra i diversi gruppi filosofici e/o religiosi. Di fonte a quelli «che sono fuori», i credenti dovranno camminare/comportarsi «con saggezza», cogliendo ogni occasione per annunciare il vangelo e dare così prova di essere di Cristo.

Dinamismi ecclesiali

La configurazione e le dinamiche ecclesiali della comunità rispecchiano il contesto della casa-famiglia (cf. il «codice domestico»), ma anche dinamiche che trascendono la dimensione propriamente familiare, perché riflettono la comune elezione-vocazione e la rigenerazione nella fede, condivisa dall’apostolo, dai suoi collaboratori e dai colossesi.

I fratelli, santi e fedeli in Cristo, sono passati dall’estraneità da Dio a un presente di riconciliazione (Col 1,21-22) con il battesimo. Essi sono in Cristo, Cristo è in loro; si sono spogliati dell’uomo vecchio e si sono rivestiti del «nuovo» «secondo l’immagine» di Dio (cf. 3,9-10), conforme all’immagine di Dio per eccellenza che è Cristo (cf. 1,15).

La comunità si distingueva dagli altri gruppi, mentre era in stretta relazione con la grande famiglia di Dio che comprendeva anche la comunità di Laodicea (cf. 4,15) e probabilmente anche Gerapoli (cf. 4,13). La maggioranza era costituita da etno-cristiani, caratterizzati da una «circoncisione non fatta da mani d’uomo» (2,11) e sepolti e risorti insieme a Cristo, appartenenti a una fraternità che oltrepassa i confini della propria comunità domestica.

Nel ringraziamento inziale (1,3-23) Paolo esprime gratitudine a Dio e sottolinea la fede dei colossesi, legata al vangelo, e prega per la loro perseveranza. La vita comunitaria si intreccia con quella domestica (Col 3,1–4,1). Ogni realtà “abitata” dai credenti risente, e dovrà esserlo sempre di più, del loro essere di/in Cristo Gesù (cf. 3,17).

Le attività della comunità abbracciano la preghiera, la correzione fraterna, il servizio reciproco in qualche forma di ministero, la premura vicendevole (tratti comuni con altri gruppi religiosi e filosofici). L’amicizia, la philia, doveva tenere insieme i membri della comunità in un clima familiare.

Nella comunità si esercitava un “insegnamento/istruzione” connesso con la predicazione. Il suo scopo era in rapporto alla perseveranza e al consolidamento della fede e a una conoscenza piena del mistero/Cristo. L’insegnamento e l’ammonizione devono essere conformi a quest’ultimo, e non agli uomini e ai loro precetti e insegnamenti (2,22). L’insegnamento è rivolto a tutti, alla diversità delle scuole filosofiche. Occorre guardarsi da un insegnamento diverso dal «vangelo-Cristo» e coltivare la concordia e la tenuta del corpo ecclesiale nell’amore vicendevole quale «vincolo della perfezione».

L’errore/eresia di Colosse

L’«inganno», i «discorsi seducenti» (cf. 2,4), la «filosofia» presi di mira da Paolo sono difficilmente circoscrivibili nei loro contorni e nei suoi destinatari. Gli autori ipotizzano: gnostici o giudeo-gnostici con una particolare propensione verso gli «elementi del mondo»; rappresentanti del giudaismo mistico, segnato dal culto/venerazione degli angeli; membri provenienti dal pitagorismo con i loro culti misterici; esponenti del medioplatonismo; cinici; gruppi di esseni dell’area di Qumran; seguaci di un movimento sincretistico con elementi autoctoni (Lidia e Frigia), giudaici e gentili; membri giudeocristiani della comunità; circoli apocalittici che si richiamavano alla tradizione delle comunità giovannee presenti nell’area.

La pithanaloghia («discorso persuasivo») citata in 2,4 in sé rimanda all’uso e/o all’arte del servirsi di parole o di ragionamenti probabili, con lo scopo di persuadere. Il carattere insidioso appare quando è associata al verbo paraloghizesthai («ingannare, imbrogliare»), in cui l’inganno/imbroglio scaturisce dal «ragionare in modo falso» o dal «fare un ragionamento sbagliato».

In 2,8 si mette in guardia da chi inganna (ho sylagōgōn, «colui che rende preda/porta via come preda», «inganna») con la «filosofia». Sono ragionamenti, una «filosofia» conforme agli uomini, hanno a che fare con un modello umano, seguono gli «elementi del mondo» piuttosto che Cristo. «Filosofia» sembra qui assumere il significato di «dottrina/insegnamento» nella sua accezione peggiorativa, a motivo dell’espressione che segue, «vuoto inganno». Un gruppo tenta di strappare i credenti a Cristo sviandoli dal fondamento sicuro e conducendoli verso qualcosa che non ha consistenza.

L’espressione «elementi del mondo» (2,20) può rimandare a: «principi fondamentali, rudimenti»; «potenze trascendenti, spirito» che hanno influsso sul mondo; elementi primi del mondo; singoli principi o personalità o divinità e, di conseguenza, oggetto di culto e di venerazione.

Cristo ha una primazia non solo nella creazione ma anche nella riconciliazione. Il soggetto primo resta il Padre, ma il Figlio è unico nell’opera di mediazione. Nulla sembra frapporsi tra Dio e gli esseri umani. Non sono ammessi concorrenti. Non è più importante fare riferimento a feste, noviluni, cibi, bevande, regredendo (= schiavitù) alla realtà della terra e degli astri come se la salvezza dipendesse da queste ultime.

Morti in/con Cristo, gli uomini e le donne sono liberi e non più schiavi. Il credente è ormai estraneo alle realtà degli «elementi del mondo» (cf. 2,20). È inutile imporre tradizioni e/o forme rituali – a quanto pare espressione di una parte del giudaismo – ai credenti, perché per tutti ora c’è Cristo.

Nel I sec. d.C. in Asia Minore è sotteso un contesto di eccessiva religiosità che tendeva a svalutare il mondo materiale e a cercare forme di unione con le varie divinità con una molteplicità di culti. Lo si faceva attraverso pratiche religiose legate al calendario rituale (riti, feste, pasti sacri), restrizioni alimentari, espressioni ascetico-estatiche, che implicavano a quanto pare «una sorta di dissociazione esistenziale, per cui, da una parte, si trova il credo e, dall’altra, la vita, il che poteva interessare parte del giudaismo e il mondo gentile. In altri termini, gli adepti erano come orientati a unirsi con il divino o a porsi al suo livello disdegnando la materialità del vivere quotidiano» (p. 49).

In Col 2,18 i famigerati oppositori squalificano i credenti trovando piacere «nell’umiliazione e nel culto degli angeli». Pare si alluda a forme ascetico-mistiche di mortificazione (come il digiuno, ma non solo), pratiche ritenute, a quanto pare, necessarie e propedeutiche in vista dell’ammissione alla corte celeste.

Il culto degli angeli

Giuliano, che esprime la coscienza di essere in minoranza, intende il costrutto genitivale «culto degli angeli» in senso soggettivo e non oggettivo. Non si tratterebbe di (eccessiva) venerazione degli angeli ma della venerazione che gli angeli riservano a Dio, da cui il culto dei credenti «come quello degli angeli». «Ammessi fra gli esseri celesti, gli esseri umani si sarebbero sentiti “come” quegli angeli che sono alla presenza di Dio e di Cristo e che, secondo questa “filosofia” o insegnamento, in forza di questa prossimità, sono nelle condizioni di conoscere in pienezza e integralmente il piano salvifico divino» (p. 51).

Secondo Giuliano, non sembra che nella diaspora giudaica vi fossero simili atti di venerazione degli angeli, quasi da considerarli alla stregua di Dio. In una parte del giudaismo questa partecipazione alla corte celeste si realizzerebbe per i credenti durante la vita e non dopo la morte: l’anima ascendeva al cielo per farvi ritorno dopo aver compiuto il suo “viaggio” fra le schiere celesti. Si pensava che il rigore ascetico conducesse a esaltate esperienze di adorazione alla stregua di quelle degli angeli, come se si trattasse di entrare nei cieli, dove forse si aveva una rivelazione.

Alcuni esponenti giudaici di stampo mistico-visionario rinfacciano ai colossesi alcune pratiche propriamente giudaiche (cf. 2,16, il «sabato»). Prassi che i gentili non cessano di denigrare e che, anche nella componente giudeocristiana, poteva apparire come non necessaria, in quanto espressione solo di una parte (minoritaria) del giudaismo.

Non è possibile – secondo Giuliano – affermare o negare con certezza che si tratti di «attacchi» che provengono dall’esterno, da parte di questi gruppi di giudei osservanti della Legge, sensibili all’ascetismo e/o misticismo, o da giudeocristiani, parte integrante della comunità credente. Di sicuro, i colossesi sono «sotto scacco», perché incapaci, a quanto pare, di vivere simili esperienze estatiche (cf. Col 2,21-23). Si parla di «precetti» e di «insegnamenti» che rimandano a prescrizioni levitiche di purità, sineddoche per la Legge, oggetto di osservanza da parte dei giudei mistici.

Queste forme ascetiche sembrano allontanare e sviare i colossesi (etno- e giudeocristiani) dalla loro appartenenza a Cristo Gesù. Per questi sedicenti oppositori o «dottori», esse rappresentavano il contesto privilegiato attraverso il quale i credenti potevano raggiungere in pienezza la conoscenza della volontà divina in termini di riconciliazione/salvezza. Queste forme di religiosità idolatrica (non in senso esclusivo) vengono descritte come «rudimenti» (stoicheia) dinanzi all’opera di riconciliazione cosmica realizzata in Cristo Gesù, il solo che, con la sua morte e risurrezione, è al di sopra e prima di tutti questi «corpi/(esseri spirituali».

L’agiografo mette in discussione (vituperatio) e svuota dal di dentro le concezioni che erano alla base del loro (falso) insegnamento. Mentre avrebbero dovuto umiliare la carne, queste concezioni finivano per «gonfiarla fino all’orgoglio», mettendo in pericolo la tenuta e l’unità del corpo ecclesiale. Gli angeli sono visti come impegnati a far eseguire scrupolosamente le pratiche e punire i recalcitranti. I credenti in Cristo non sono tenuti a passare attraverso questi riti, che sono solo «ombra» (cf. 2,17) e nulla possono di fronte a Cristo, nel quale, invece, «sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza» (2,3).

Giuliano riassume il tema in questi termini: «La raccomandazione paolina, pertanto, sembra tesa a riportare i credenti a una giusta misura di sé, il che potrebbe essere assunto nei termini di un invito a non cedere a forme/pratiche religiose, sterili e inconsistenti, disincarnate e individualistiche, che dissociano la fede dalla vita. La fede in Cristo, infatti, non può comprendersi come mera associazione o aspirazione al divino, che estrania dal mondo e dalla comunità perché incentra su un’appropriazione privatistica della divinità, ma come partecipazione alla vittoria di Cristo Gesù per mezzo sì di un rito e di un pasto, ma profondamente diversi. I riti, infatti, attualizzano nella vita dei credenti il loro essere di/in Cristo Gesù, in quanto illuminati dal logos della «parola di verità» (Col 1,5), dal vangelo della morte e della risurrezione che aprono all’accoglienza e all’unità del corpo ecclesiale» (p. 55).

Retorica ed epistolografia

Da tempo, lo studio della retorica si è imposta nel campo degli studi biblici. Giuliano dedica un lungo paragrafo al rapporto tra retorica ed epistolografia (pp. 55-95). Pare utile soffermarsi sulle informazioni date, in quanto possono risultare utili anche nello studio di altre lettere paoline.

La lettera è una missiva tra mittente e destinatario separati nel tempo e nello spazio e possiede un intento comunicativo e persuasivo. Motivi dell’oralità restano nello scritto di Colossesi, di cui vengono studiati l’inventio, l’elocutio e la dispositio.

All’inventio si rifanno tutte le formulae e/o i motivi epistolari (epistolaria) che definiscono più da vicino il testo in termini epistolografici. Tra i modelli epistolari, l’autore menziona il canovaccio e i motivi epistolari. Lo schema è tripartito: prescritto o formula di apertura (mittente, destinatario, saluti iniziali), il corpo della lettera e le formule di saluto e/o congedo. C’è una sezione di ringraziamento, l’ingiunzione a leggere ad alta voce lo scritto, la segnalazione di notizie di natura personale, il motivo dell’assenza/presenza, una sezione conclusiva con esortazioni, benedizione finale, augurio di pace, saluti ecc. L’autore poteva indicare anche i vari temi che intendeva svolgere (partitio). Egli voleva non solo comunicare alla mente (logos) ma anche toccare l’animo (pathos).

La dispositio retorico-epistolare di Colossesi individuata da Giuliano è la seguente:

Prescritto (1,1-2): v. 1: superscriptio (mittente e co-mittente); v. 2a: adscriptio (destinatario); v. 2b: salutatio (augurio di grazie e di pace);

Ringraziamento-esordio (1,3-23); Partitio (1,21-23): a) vv. 21-22 (ethos credente); b) v. 23a (logos della fede); c) v. 23b (ethos apostolico);

Corpo epistolare (1,24–4,6). Prima esposizione (1,24 -2,5); Seconda esposizione (transitio [2,6-7] + argumentatio [2,8-23]; Terza esposizione (transitio [3,1-4] + argumentatio [3,5 – 4,1];

Postscritto (4,7-18): vv. 7-9 Raccomandazioni e notizie interpersonali; vv. 10-17 saluti finali; v. 18: autenticazione e augurio finale.

L’elocutio comporta la messa in parole di tutti gli argomenti trovati e ripartiti, il che chiede, da una parte, la scelta delle parole e, dall’altra, la disposizione delle stesse, producendo sintagmi e frasi, in modo da formare un tutto armonico. È la parte della retorica in cui il discorso si riveste dell’abito verbale: tropi, «figure di parole», riguardanti l’enunciazione linguistica dei singoli lessemi o dei sintagmi, o «figure di pensiero», quelle che più da vicino hanno a che fare con lo sviluppo concettuale dell’enunciato. In Colossesi non sono esornative e contribuiscono a caratterizzare come ampolloso il suo stile. Nello stesso tempo, si può costatare come lo scritto sia ben strutturato e curato a livello compositivo.

Le figure

La suddivisione classica delle figure (presenti anche in Colossesi) è la seguente: figure per addizione; per sottrazione; per spostamento; per sostituzione. Nel testo, Giordano indica i passi in cui esse ricorrono.

Le figure per addizione comprendono:

a) la ripetizione che dà piacevolezza e forza;

b) il polisendeto (ripetizione di congiunzioni coordinanti: copulative, disgiuntive, avversative, concessive, causali);

c) l’anafora (ripetizione della stessa parola o di uno stesso sintagma all’inizio di frasi che si susseguono;

d) repetitio o epanalessi (ripetizione di una stessa parola o di un medesimo sintagma dopo un inciso);

e) figura etimologica (accostamento del verbo e del sostantivo = accusativo dell’oggetto interno);

f) poliptoto/polittoto (i lessemi ripetuti – verbi, aggettivi, pronomi – appartengono alla medesima categoria verbale, variando nella flessione);

g) nella diaforà o antanaclasi la variazione investe, nella maggior parte dei casi, il significato delle parole. La ripresa del termine trasmette un significato diverso;

h) la paronomasia è l’accostamento di parole dal suono affine ma con significato diverso;

i) il chiasmo è la figura di parola in cui due parti si corrispondono specularmente; sono semplici o composti. L’accento può cadere sugli elementi esterni o su quelli interni. Se gli elementi sono dispari si è in presenza di un chiasmo concentrico. La reversio, invece rientra tra le figure di pensiero;

l) l’ossimoro è l’accostamento di due o più termini che sono fra loro contrastanti. È una particolare forma di antitesi che produce espressioni paradossali. L’effetto ottenuto è quello di straniamento. In Paolo ce ne sono di tipo antropologico, autobiografico, teologico o cristologico;

m) l’amplificazione è assunta come esplicitazione, progressione, crescita o intensificazione; caso di intensificazione è l’iperbole: si porta all’estremo (= esagerazione), per difetto o per eccesso, un concetto o un’espressione, minimizzandoli o ingigantendoli;

n) l’endiadi è un’amplificazione a livello orizzontale, con l’aumento dei numeri degli elementi dell’enunciato: due termini, posti in relazione fra loro, costituiscono un unico concetto;

o) l’enumerazione (enumeratio) è un accrescimento orizzontale costituito da una sorta di elenco/lista di elementi che sono riconducibili a un insieme o a una totalità omogenei, collegati per polisindeto o per asindeto. A livello di dispositio l’enumerazione ricorre nella partitio (1,21-23);

p) il merismo riporta invece esplicitamente l’unità che viene ripartita, producendo solitamente una grande significativa utilità.

Le figure per sottrazione possono riguardare le parole o il campo semantico e concettuale. Si ottiene la brevitas e l’efficacia. L’asindeto è una figura di parola in cui avviene l’eliminazione di qualsiasi forma di collegamenti coordinativi. Insieme all’anafora e all’anadiplosi, l’asindeto è proprio del linguaggio colloquiale (colloquialismo). L’asindeto è impiegato spesso nelle enumerazioni e nella climax.

Le figure per spostamento riguardano l’ordine naturale delle parole in una frase. Sono:

a) l’iperbato: si antepone o si pospone due o più elementi lessicali della frase che sono strettamente collegati fra loro sintatticamente, interponendo, ad esempio, fra gli stessi, un inciso e, altri termini, attirando maggiormente l’attenzione;

b) l’hysteron proteron è un’inversione a livello logico-temporale degli eventi e/o degli stati d’animo. Si pone per primo ciò che viene dopo. Si anticipa l’elemento al quale si vuole dare un particolare rilievo.

Le figure per sostituzione possono riguardare uno o più elementi del periodo, il che può verificarsi o eliminandoli o rimpiazzandoli con altri. Hanno per lo più una funzione di straniamento, con l’intento di mostrare aspetti inediti e nuovi. Sono funzionali all’amplificazione di senso, sollecitando maggiormente l’ethos e il pathos dei destinatari, piuttosto che il logos. Più che informato, l’uditorio preferisce sentirsi rassicurato e affascinato da esempi. Esempi sono:

a) la litote che afferma negando il suo contrario. Si ottiene un’attenuazione formale del concetto;

b) la metonimia si ha quando si vuole sostituire una parola con un’altra, con la quale c’è una relazione di contiguità semantica e/o di dipendenza concettuale (la causa al posto dell’effetto e viceversa, l’autore al posto dell’opera e viceversa, la materia al posto dell’oggetto e viceversa, l’astratto al posto del concreto e viceversa);

c) la sineddoche prevede il rimpiazzo di un termine con un altro, con la differenza però che fra questi ultimi il rapporto è di quantità: la parte per il tutto o viceversa; il singolare per il plurale o viceversa;

d) il solecismo, errore o anomalia può denotare rozzezza di cultura oppure essere voluto; comporta un cambio della funzione sintattica tanto da determinare un’irregolarità o assenza di concordanza logica fra alcuni elementi dell’enunciato.

La metafora

Fra le più importanti figure per sostituzione a livello semantico o, meglio, tropi, è compresa la metafora. Consiste nella sostituzione di un lessema proprio con un altro che ha con il primo una qualche relazione analogica, benché nel contesto in cui è trasferita ingeneri un effetto di straniamento. Il meccanismo di sostituzione è creativo, in quanto i due termini implicati sono compresenti e creano qualcosa di nuovo. Ha varie funzioni: supplisce alla mancanza di un termine proprio, arricchisce il concetto con una pluralità e varietà di elementi diversi fra loro; vivacizza lo stile; sintetizza diversi aspetti caratteristici in uno (concisione); sminuisce o amplifica; abbellisce conferendo maggiore efficacia ed eleganza.

In Colossesi sono presenti:

a) la metafora agonistico-sportiva (cf. nella sezione autobiografica 1,24–2,5);

b) la metafora agraria nella sezione del Ringraziamento è applicata alla «parola della verità del vangelo» e ai credenti (= capacità di portare frutto);

c) la metafora del cammino è espressa dal verbo peripatein nell’accezione traslata di «comportarsi, vivere» seguito o dall’avverbio «degnamente» o da preposizioni locative. Il retroterra è rappresentato dal mondo anticotestamentario;

d) la metafora economica è espressa ad esempio nel riferimento al «sostentamento» economico concesso ai coreuti (2,19);

e) la metafora dell’edificio/edificare che, nell’epistolario autoriale, ricorre per lo più per descrivere le comunità cristiane, in Colossesi viene riferito alla fede e all’ethos credente più in generale, che trovano il proprio fondamento e/o continuano a fondarsi e a restare saldi in Cristo Gesù. L’adesione di fede e la condotta di vita sono strettamente collegate fra loro: la prima è all’origine della seconda e quest’ultima dà prova dell’autenticità dell’altra;

f) la metafora etnica (cf. 2,11) ricorre dove il termine peritomē (circoncisione) è trasferito dal suo senso ordinario di rito giudaico per rinviare all’immersione battesimale attraverso la quale i colossesi partecipano di Cristo e della vita nuova.

Ricorrono inoltre:

a) la metafora militare (2,5b; 2,15);

b) la metafora forense (2,14);

c) la metafora politica (2,15, parrhēsia, dove rimanda a una condotta/azione libera da pregiudizi e attraverso la quale esprime il suo «potere» nel senso di ciò che è nelle sue prerogative);

d) la metafora sociale (2,14 apolytrotrōsin = redenzione) appartiene al vocabolario sociale, che qui viene trasferito al contesto religioso-cultuale esplicitato come remissione dei peccati;

e) la metafora somatologica (cf. 1,18a; 1,24a; 2,19ab; 3,15: Cristo è il capo del corpo ecclesiale. Il «capo» indica qui la rilevanza e la superiorità della mediazione cristologica);

f) la metafora svestirsi/vestirsi rimanda allo status nuovo che si è ingenerato nei credenti a partire dalla loro relazione con Cristo Gesù. La metafora è da comprendersi nell’alveo della mimesi: rivestirsi di Cristo significa ripresentare/riprodurre quest’ultimo con originalità nella propria esperienza battesimale. In ultima istanza, è la vita stessa di Cristo a riprodursi in quella dei credenti.

Genere retorico di Colossesi

I tria genera (giudiziario, epidittico, deliberativo) sono trattati singolarmente nella manualistica retorica, ma sono pur sempre in relazione fra loro. Se «si vuole ammettere una qualche relazione fra il genere epidittico e quello deliberativo, si dovrà dire che in Colossesi quest’ultimo è subordinato al primo: cambiando la modalità espressiva, la funzione è la stessa» (p. 89).

La partitio (1,21-23b) ha una disposizione concentrica (a. vv. 21-22 ethos credente; b. v. 23a logos fondamento dell’essere in Cristo; a’. v. 23b ethos apostolico) e le due esposizioni cosiddette ethiche (Col 1,24–2,5; 3,1–4,1) ruotano intorno all’essere in Cristo (2,6-23), origine dello status nuovo che si è realizzato in virtù della «parola della verità del vangelo» ricevuto e accolto.

L’interesse dell’agiografo è teso a rilevare maggiormente la superiorità del mistero-Cristo, colta nella sua funzione di mediazione in relazione alla salvezza dei colossesi. «L’argomentazione, pertanto, ruota sul motivo ultimo (Cristo) che ha reso e rende continuamente possibile ciò che si è, piuttosto su ciò che i credenti dovrebbero essere, benché quest’ultimo divenga manifestativo del primo» (p. 90).

Nonostante ci siano motivi di persuasione e di dissuasione, di consiglio di ciò che è utile e di ammonimento a evitare ciò che è dannoso (genere deliberativo), il genere che dà ragione alla trama discorsiva è epidittico: l’argomentazione si caratterizza maggiormente per la sua natura dimostrativa, comprese quelle parti più propriamente esortative. I singoli punti che formano la partitio e che sono oggetto di esposizione hanno a che fare con ciò che riguarda più da vicino l’essere dei credenti, il loro passaggio da uno status di estraneità alla vita nuova presente, quella che è determinata alla luce del vangelo o, meglio, con il motivo di fondo che genera questa nuova condizione di credenti.

La stessa sezione cosiddetta paracletica (Col 3,1–4,1) svolge pur sempre una funzione espositiva, benché espressa attraverso un linguaggio morale-esortativo: essa rappresenta un’altra modalità di espressione della relazione mistero/Cristo-credenti. Col 3,5-17 ha la funzione di dimostrare la propositio di 1,21-22 che richiamava all’inizio quel cambio di rotta realizzatosi nei credenti. L’impiego dei tre imperativi aoristi «è in funzione di questa natura esplicativa, e questo perché conservano quell’aspetto ingressivo attraverso il quale si vuole esprimere “la realizzazione di una condotta in opposizione a quella che durava fino a quel momento”» (p. 88, con cit. di BDB 337,1).

Tipo epistolare e scopo

Colossesi si presenta come una lettera ufficiale destinata alla comunità di Colosse ma anche alla Chiesa di Laodicea. I destinatari sono «fratelli» e il mittente è «apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio».

Nel corpo epistolare il contenuto contempla, da una parte, una serie di avvertenze/messe in guardia contro chi cerca di far deviare i credenti dalla loro adesione al mistero-Cristo, insistendo però sulla relazione che quest’ultimo ha con i credenti e, dall’altra, una serie di forme tipiche dello stile parenetico, come le liste di vizi e di virtù (3,5-17) e il codice domestico di 3,18–4,1. La sottoscrizione di 4,18 concorre a definire la lettera come ufficiale e non meramente personale o familiare.

Il «carattere» epistolare o il «tipo» dipende dall’individuazione dello scopo. Il registro esortativo è dominante, soprattutto in 3,1–4,1, per cui non sembra improprio attribuire lo scritto al tipo symbouletikos (Pseudo-Demetrio), con il quale si incoraggia qualcuno a fare una determinata cosa o lo si scoraggia dal compierla. Si esortano i destinatari a seguire qualcosa oppure ad astenersene (esortazione e dissuasione). Si registra anche il proprio parere.

Colossesi potrebbe essere una lettera del tipo parainetikē e paraklētikē secondo la classificazione dello Pseudo-Libanio. Si vorrebbe spronare qualcuno a fare qualcosa.

In 1,28 e 3,16 si usa il verbo nouthetein e didaskalein, per cui si potrebbe pensare a una lettera di tipo epistolare nouthetētikos (ammonitorio) attraverso il quale si vuole “indurre alla ragione” colui che si vuole esortare e ammaestrare su quello che va fatto o non va fatto.

Potrebbe essere una lettera di tipo epistolare didaskalikē con cui si vuole istruire qualcuno su un determinato argomento, ma non pare il caso. I due verbi al participio esplicitano le modalità della predicazione e dell’inabitazione della «parola di Cristo» fra i credenti, e non tanto la finalità dello scritto che, evidentemente, va oltre la mera ammonizione e istruzione.

Nella parenesi epistolare del tempo l’esortazione costituiva una parte nella quale si davano istruzioni precise su come rimanere in quel determinato status di vita precedentemente assunto. Il contesto delle scuole filosofiche del tempo non è però lo stesso che si trova nella Lettera ai Colossesi. Il rapporto tra l’agiografo e una o più comunità di credenti (Colosse e Laodicea) non è tanto quello tra un maestro e un discepolo. Il contenuto non è limitato a qualche virtù, ma è indirizzato a continuare a restare fermi e saldi in Cristo Gesù. La natura delle ingiunzioni è generica ed esplicativa più che consequenziale rispetto al logos. In Colossesi manca il verbo parakalein (esortare). Nell’epistolografia, come per un discorso retorico, può verificarsi la compresenza di due o più tipi epistolari e/o che ricorrano a uno o più elementi che appartengono a modelli differenti.

In Colossesi l’agiografo non dà alcuna indicazione esplicita in merito alla definizione del genere epistolare. Il logos è per lo più incentrato sull’essere dei credenti in Cristo con tutto quello che ciò comporta e, in particolar modo, sull’essere di Cristo nei credenti. Qui, il fondamento dell’ethos credente.

Alla luce e a causa di ciò, afferma Giordano, «è possibile comprendere l’ethos apostolico di Paolo (1,24–2,5) e quello dei credenti (3,1–4,1). Nell’uno e nell’altro caso, dunque, il comportamento di ciascuno è la risposta positiva che scaturisce dalla relazione di entrambi con Cristo Gesù. Non si tratta semplicemente di esortare i credenti a perseverare in questa relazione, ma di metterli di fronte a una realtà che è parte già della loro fede e che l’Apostolo presenta all’attenzione dei credenti perché, come si è verificato per il primo (cfr 1,24–2,5), così essi ripresentino nella loro condotta/esistenza il loro personale essere di/in Cristo Gesù» (p. 95).

Lo Pseudo-Demetrio descrive 21 tipi di lettere, che però non sono sistemate secondo la dispositio retorica. Una simile presentazione di tipi o di caratteri epistolari ha a che fare comunque con il lessico retorico, e quindi questi ultimi possono riferirsi ai tria genera della retorica (giudiziario, epidittico, deliberativo), afferma Giordano (cf. p. 95).

Una lettera esortativa o di incoraggiamento, come quelle filosofico-morali, trova più facilmente una corrispondenza con il genere deliberativo. L’intreccio argomentativo, invece, presente nella Lettera ai Colossesi, è principalmente epidittico, ma a questo genere non sono ascrivibili tipi o caratteri epistolari dei trattati che vi corrispondano alla perfezione.

La deliberazione, più che rappresentare un vero e proprio genere retorico in Colossesi, costituisce una modalità di espressione dominante differente rispetto a quella che caratterizza la missiva per lo più in Col 1–2 e comunque subordinata al genere prevalente della trama discorsiva, tutta tesa a fissare l’attenzione dei credenti allo status di vita nuovo, nel quale già operano. In tal caso, conclude l’autore, «è possibile che l’epistola ai Colossesi appartenga a quel carattere epistolare che lo Pseudo-Demetrio definisce miktē (misto), nel quale confluiscono elementi appartenenti a modelli epistolari differenti» (ivi).

Il volume si presenta come un commentario scientifico di alto livello a una lettera dell’epistolario paolino di non facile interpretazione ed entra a buon diritto nella prestigiosa collana «I Libri Biblici. Nuovo Testamento». È un testo tecnico scritto per studiosi, docenti, studenti e appassionati del testo biblico con una buona preparazione linguistica e teologica di base. Sarà utile anche per il predicatore in vista di una consultazione puntuale su un passaggio particolare. Ringraziamo l’autore per l’impegno profuso nell’opera, che si pone come un punto di riferimento prestigioso dell’esegesi italiana.

 

Lettera ai Colossesi. Nuova versione, introduzione e commento di Leonardo Giuliano (I Libri Biblici – Nuovo Testamento 12), Paoline Edizioni Libri, Milano 2022, pp. 480, € 52,00.

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