I patriarchi: tra geografia e teologia

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L’autore, Michelangelo Priotto, è docente a Fossano (CN) e professore invitato allo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme. Egli si domanda come il redattore finale del Pentateuco abbia delineato l’itinerario geografico dei patriarchi come un itinerario esistenziale di fede. Essi condividono con tutti gli uomini i limiti e i valori della natura umana e quindi possono essere anche modelli per il nostro cammino di fede.

Priotto esamina, in successione, l’itinerario geografico-teologico di Abramo (Gen 11,27–25,11) (pp. 13-128), quindi analizza la figura di Giacobbe, un ebreo errante alla ricerca di Dio (Gen 25,19–35,29) (pp. 129-240), per concludere con lo studio di Giuseppe in Egitto: una testimonianza di inculturazione? (pp. 241-380). Di fatto lo studioso analizza in tal modo a livello letterario e geografico-teologico tutto il blocco letterario di Gen 12–50.

Il Pentateuco e la storicità

Nell’Introduzione, Priotto si sofferma sulla formazione del Pentateuco e sulla questione storica. Nel periodo esilico e postesilico la tradizione sacerdotale e postsacerdotale rielaborò e integrò in un racconto unico le varie tradizioni preesiliche antiche già esistenti in modo autonomo. Tutta la Torah viene trasmessa a Mosè e tramite lui a Israele fuori del paese di Canaan, per cui il possesso della terra diventa secondario rispetto alla Legge e ad essa subordinata. Il Pentateuco raggiunse la sua forma finale in epoca asmonea, saldando insieme la tradizione della Torah di Mosè con il tempio e le sue ordinanze.

Con P. Ricoeur e J.-L. Ska, Priotto ricorda i tre livelli nella scrittura della storia:

– la storia documentaria offre un tipo di verità basato sui documenti vagliati criticamente;

– quella esplicativa concerne la ricerca e la spiegazione delle cause che hanno provocato gli avvenimenti, per cui la verità storica dipenderà dalla corrispondenza o meno fra gli eventi analizzati e le ipotesi interpretative che li hanno causati;

– la storia letteraria o poetica è quella delle grandi composizioni nelle quali un gruppo o una nazione si autocomprende, esprime cioè la sua identità. Si tratta di racconti fondatori, dove i criteri di verità sono ancora diversi rispetto ai primi due. La condivisione o meno della proposta dello storico dipende dalla sua capacità di convincere o no il lettore e dalla disponibilità di quest’ultimo a lasciarsi interpellare positivamente o meno. In quest’ultimo livello la qualità della verità tocca molto la sfera esistenziale (cf. p. 11).

Abramo (e Isacco)

Data l’esiguità dei testi su Isacco, Priotto li esamina assieme a quelli riguardanti Abramo (Gen 11,27–25,11). Le questioni storiche e letterarie circa la tradizione su Abramo vedono l’oscillazione fra l’ipotesi massimalista, che inquadra il patriarca nel mondo dell’inizio del II millennio a.C. e quella minimalista che la considera una pura finzione letteraria, di origina postesilica. La scelta di Abramo (nome che non è legato ad alcuna tribù) fa orientare verso l’opinione della difficoltà di negarne l’esistenza.

Priotto esamina a livello letterario e geografico-teologico i vari blocchi narrativi del ciclo di Abramo. Il quadro geografico del ciclo mostra un percorso da Ur dei Caldei fino all’Arabia e all’Egitto. Il ciclo sembra continuare l’orizzonte geografico della tradizione della geografia paradisiaca e, nello stesso tempo, collegarsi con la successiva storia di Israele, prefigurandola nella discesa in Egitto e nel ritorno nella terra della promessa.

Il ciclo si articola attorno a Mamre e poi nel Negheb. Lo schema-esodo subisce modifiche con la presentazione positiva del faraone e l’assenza di un passaggio del mare. Abramo è l’uomo della fede e del cammino, alla ricerca di se stesso grazie a una terra e a una discendenza.

La migrazione di Abramo diventa metafora di un camino interiore, segnato dall’incontro con un Dio che cammina con lui, aprendo Abramo a un incontro profondo con Sara che porterà alla nascita di Isacco. Abramo riconosce l’alterità.

Abramo è un nomade perennemente in cerca di pascoli e di discendenza, ma il filo rosso della narrazione è la presenza di YHWH che intesse una relazione sempre più profonda con lui, il cui peregrinare diventa un cammino di fede. Ad Abramo YHWH ordina e parla; a volte YHWH tace ma interviene per non compromettere l’esito della promessa con l’uccisione di Isacco. La chiamata e il legamento di Isacco sono due momenti di intervento drastico e improvviso di YHWH.

In sostanza, Abramo si mostra uomo di fede, pur con le sue debolezze e i condizionamenti della sua creaturalità. Egli è un modello di cammino di fede e diventa il padre dei credenti.

Giacobbe

Giacobbe (Gen 25,19–35,29) si presenta come un ebreo errante alla ricerca di Dio. Il racconto incentrato su di lui è una leggenda genealogica che offre una storia completa delle origini di Israele. Os 12 mostra di conoscere gli episodi, messi forse per iscritto dopo la caduta del regno del Nord nel 720 a.C. Nell’epoca esilica, la storia di Giacobbe, rivista, entra nel Pentateuco.

Ad Abramo, figura primaria e originaria di Israele, vengono aggiunti Isacco e Giacobbe. L’itinerario di quest’ultimo, con la sua uscita da Canaan e il suo successivo ritorno, corrisponde all’esperienza degli esuli. Nella rilettura sacerdotale l’itinerario non è guidato da motivi umani, ma da Dio (di qui le teofanie), per cui anche l’esilio e il ritorno da Babilonia rivestono un carattere teologico.

Il rilievo di Giacobbe non è legato a una particolare sacralità di Betel, ma alle numerose promesse che qui YHWH aveva fatto. Giacobbe diventa l’antesignano degli spostamenti dei suoi discendenti.

La struttura patriarcale delineata dalla tradizione sacerdotale alla sua storia rimarrà un dato acquisito: la vocazione di Israele è anzitutto di natura sacerdotale.

Quali sono i valori rappresentati dalle storie di Abramo e di Giacobbe? Abramo diventa il patriarca prediletto dei proseliti giudei, come lo sarà dei primi cristiani e dell’islam. Ha una vocazione “ecumenica”.

Il percorso di Giacobbe nella storia delle recezione è meno lineare. Dopo essere stato rigettato dalla tradizione profetica e deuteronomistica, Giacobbe conoscerà nell’epoca ellenistica una riabilitazione completa, sia nazionalista che religiosa e sapienziale, accompagnata da una svalutazione di Esaù. «Giacobbe, come Saul e Davide, diventa un eroe letterario di una reale densità, un personaggio complesso, suggestivo ma anche irritante, contemporaneamente eroe e anti-eroe, ma soprattutto un personaggio che ha segnato la storia. In questo libro della Genesi, che rappresenta il prologo del Pentateuco, le storie di Abramo e di Giacobbe ci offrono due voci distinte e particolari, quella del “patriarca di tutti gli uomini”, promotore di una umanità riconciliata, e quella dell’antenato tribale, ostinatamente ancorato alla realtà. Diversi, ma complementari!» (p. 132).

Il ciclo di Giacobbe comprende due grandi parti e un intermezzo. La prima parte va dalla nascita di Giacobbe fino alla partenza da Canaan, articolata in quattro episodi (25,19–28,22); l’intermezzo (29,1–32,1) è rappresentato dal soggiorno a Carran, con sei episodi; la seconda parte vede il ritorno e l’insediamento a Canaan, con cinque episodi (32,2–35,29).

Uno sguardo simbolico

Uno sguardo simbolico alla storia di Giacobbe (cf. pp. 238-239) mostra come egli incarni maggiormente la relazione con lo spazio. Nei suoi spostamenti Giacobbe tocca o fonda dei santuari grazie ai quali egli traccia la frontiera tra il divino e l’umano. In particolare i santuari sono tre: Betel, con l’esperienza del sogno; lo Iabboq, con l’esperienza della lotta con l’essere misterioso; fra i due Macanàim, dove il patriarca incontra i messaggeri di Dio. Negli incontri col divino sperimentati due volte nella notte, Giacobbe prova un sentimento di terrore (a Betel) e un segno fisico (allo Iabboq). Si tratta dell’esperienza del divino, quasi un’iniziazione.

Il linguaggio simbolico gioca – secondo Priotto – un triplice ruolo. Permette di leggere il nostro destino attuale e collettivo: l’erranza di Giacobbe diventa il prototipo dell’erranza dei suoi discendenti. La lotta fratricida con Esaù richiama e spiega i difficili rapporti di Israele con i popoli fratelli. La griglia simbolica conduce, infine, la teologia verso nuove espressioni che toccano la relazione con Dio; l’elezione e le promesse fatte a Giacobbe diventano la posta fra Israele e Dio.

Nel ciclo di Giacobbe, la simbolica dello spazio costituisce – secondo Priotto – il “mortaio” delle tradizioni ivi riunite. In questa simbolica di limite fra due mondi, si vede come essa spinga l’uomo a oltrepassare le frontiere oltre le quali egli può intravedere la forma definitiva del suo destino. Giacobbe scopre la porta del cielo e lotta con l’essere divino prima di separarsi dal suo gemello Esaù e l’installarsi.

Giacobbe, in cerca di se stesso e confrontato con Dio, costituisce una griglia che gli autori del ciclo hanno stabilito per interpretare la storia di Israele e darle la sua legittimità. Le relazioni Giacobbe-Labano situano Israele di fronte al potere babilonese. Le vicissitudini di Giacobbe con Esaù costituiscono un paradigma per le relazioni Israele-Edom.

Il modello di Giacobbe «diventa significativo per Israele: YHWH incontra Israele sul suo cammino; le promesse divine rimangono valide di generazione in generazione, ma si realizzano a loro modo per ciascuna generazione; il suolo di Israele è un suolo, ma l’essenziale rimane l’incontro non il suolo; infine, Israele, come il patriarca, rimane marcato fisicamente e spiritualmente dall’incontro con Dio. Esso porta in sé come un marchio e una ferita che lo rendono unico per il suo Dio» (p. 238).

La lettura simbolica non cancella altre letture possibili. Il testo appare in ogni caso non semplicemente una memoria archeologica delle origini, ma la sua qualità teologica lo presenta come una lettura religiosa della storia grazie soprattutto alla sua spinta profetica. Il simbolo diventa così il punto di passaggio dell’universo dalla semplice investigazione alla recezione del senso dell’avvenimento.

Il ciclo di Giacobbe «non ha solo lo scopo di illustrare la riconciliazione di due fratelli, ma spinge la riflessione verso la trasmutazione dell’essere affrontato ai propri limiti e lanciato verso la frontiera tra il divino e l’umano» (p. 239). «Sul piano strettamente umano e personale, la figura di Giacobbe non ha nulla di eccezionale; non è un eroe, ma un beduino, che nei limiti di un carattere “difficile” arriva a incontrare Dio. L’iniziativa non è sua, ma soltanto di un Dio che gli assicura non solo una presenza protettrice, ma la sua benedizione concreta nel segno di una discendenza numerosa e di un terra. Egli diventa così il testimone della gratuità del dono divino offerto prima all’israelita e poi a ogni uomo senza pregiudiziale alcuna. È per questo – continua Priotto – che nella figura di Giacobbe vediamo noi stessi, da un lato, i limiti della nostra condizione umana, ma, dall’altro, soprattutto, l’amore gratuito di un Dio che ama la sua creatura anche e nonostante la sua “debolezza”» (ivi).

La storia di Giuseppe in Egitto pare aggiunta dalla tradizione postsacerdotale al ciclo dei patriarchi. La narrazione della discesa della famiglia di Giacobbe in Egitto, senza alcuna menzione di Giuseppe, assicura tranquillamente la transizione tra i patriarchi e l’esodo.

L’identità del credente e l’inculturazione

Ci si domanda se la storia di Giuseppe non sia una testimonianza di inculturazione. A differenza delle peregrinazioni di Abramo e di Giacobbe, l’itinerario di Giuseppe mira all’Egitto, dove egli emigra in modo stabile con la sua famiglia. Là scendono anche Giacobbe, i fratelli di Giuseppe e le loro famiglie. Vi vivono in modo stabile. Lì viene seppellito Giacobbe, anche se in seguito le sue ossa saranno portate a Mamre in Israele, come quelle di Giuseppe.

Secondo Priotto, la storia di Giuseppe pone ancora una volta il problema dell’identità del credente. La comunità esilica e immediatamente postesilica trova in Abramo e nel primo Giacobbe, entrambi in cammino verso la terra di Canaan, il modello della sua identità israelitica e l’impegno a partire da Babilonia. Cosa significa la pagina della Torah come quella di Giuseppe che si stabilisce in Egitto? È una parentesi temporanea, sebbene molto lunga, in attesa dell’epopea dell’Esodo?

La domanda da porsi è se il significato della terra promessa attenga solo al piano fisico-geografico oppure se sia possibile essere un buon ebreo anche nella diaspora. Secondo Priotto, si tratta di un problema importante per le Chiese. Come possono gestire le proprie identità in un contesto di mondializzazione e di dissoluzione delle culture? Devono appellarsi al mito di una purezza religiosa, ritenuta al di sopra delle culture e da loro immune?

Nella Bibbia la costruzione dell’identità si opera in una interazione rimarchevole tra identità differenziate; basti pensare al rapporto tra giudeo-cristianesimo e cristianesimo gentile. La formazione stessa del Pentateuco riflette il problema della ricerca di una identità fondamentale, che non sopprima le identità particolari.

La storia di Giuseppe è una narrazione unitaria, pur essendo il materiale vario. La teologia è diversa rispetto alle altre storie patriarcali: Giuseppe non entra mai in dialogo diretto con YHWH. È una teologia più universale, diversa dalla prospettiva etnica della teologia deuteronomica/deuteronomistica, anche se non in senso assoluto. Tutto ciò indirizza verosimilmente la redazione del testo verso un periodo tardivo. Se le datazioni proposte vanno dal periodo salomonico a quello seleucide, tutto porta ragionevolmente verso una data recente.

La storia di Giuseppe sarebbe una novella della diaspora, concepita per legittimare la possibilità di una vita fuori della terra promessa. Ci sono paralleli strutturali con le storie di Ester e Dn 2–6.

Fra Persia ed Egitto

La storia di Giuseppe sembra far rilevare un problema più generale, quello di un giudaismo politico-teologico. Nella sua storia, Israele si è trovato sempre posto fra la Persia e l’Egitto. Se la prima è il luogo da cui ritornare dall’esilio e potenza dominatrice nel postesilio, essa è stata anche il grembo provvidenziale per la rielaborazione e una prima fissazione delle tradizioni di Israele già esistenti.

Da parte sua, l’Egitto ha oscillato invece sempre tra la figura dell’alleato potenziale per eccellenza di fronte alla Mesopotamia, luogo di rifugio e di fornitura del cibo per sopravvivere e luogo di installazione. Nello stesso tempo, esso è stato l’ambiente dell’oppressione e della schiavitù da cui uscire nella liberazione dell’Esodo.

L’Egitto non è capace di offrire una vera salvezza e riduce gli ospiti in schiavitù. È specialmente al tempo babilonese e persiano che l’immagine dell’Egitto è dipinta come “casa di schiavitù”. L’affermazione teologica dell’uscita dall’Egitto come fondamento della nascita di Israele vieta ogni simpatia per l’Egitto.

Per contro, la Persia non viene mai direttamente criticata. I re persiani sono visti come strumenti di YHWH. Il pogrom di Ester è dovuto a macchinazioni sconosciute anche al re. La diaspora babilonese viene valorizzata, ma non quella egiziana. La tradizione antiegiziana risale alla polemica profetica contro la politica proegiziana dei re israeliti.

Le comunità della diaspora egiziana hanno avuto un ruolo molto importante nell’epoca ellenistica, con la presenza di uno yahwismo distinto da quello giudaico, sebbene non eterodosso; esso è testimone di uno yahwismo cultuale, ma anche sociale, materiale, letterario ed etico. Importanti furono però anche le comunità della diaspora babilonese postesilica.

«La storia di Giuseppe – afferma Priotto – riflette dunque delle tensioni e dei dibattiti teologici tra un giudaismo che ritiene la terra un elemento identitario e un giudaismo che prospetta la propria esistenza anche nella diaspora. In un medesimo racconto troviamo il contro-esodo della famiglia di Giacobbe che trova la salvezza in Egitto e la difesa di un legame indissolubile con la terra di Canaan tramite la sepoltura di Giacobbe e la promessa del trasferimento della ossa di Giuseppe colà» (p. 249).

La complessità della storia, che tradisce un dibattito sull’identità di Israele, appare anche nella presentazione dei suoi personaggi principali. Giuseppe viene sottolineato sia nella sua appartenenza alla diaspora (cf. 41,45), sia nel suo legame geografico con l’Israele del Nord (cf. la benedizione di Efraim e Manasse al c. 48). Giuda appare come colui che salva la vita di Giuseppe, ma è anche il personaggio debole e indegno di fiducia nel c. 38. Alla debolezza di Giuda con Tamar si oppone la fedeltà di Giuseppe nell’affare della moglie di Potifàr. Al contrario, la benedizione di 49,8-12 attribuisce un ruolo eminente a Giuda e alla sua tribù.

Le tensioni e le polemiche presenti nel testo necessitarono di una composizione letteraria, specialmente all’inizio e alla fine della storia di Giuseppe. Questa integrazione letterario-teologica «si può interpretare in due modi: separando il ciclo di Giacobbe da quello dell’Esodo, la storia di Giuseppe mostra – a differenza di quanto dirà l’Esodo – che è possibile e legittimo un giudaismo nella diaspora, fuori della terra di Israele; collocando la storia di Giuseppe nel suo posto attuale, se ne fa una parentesi: il soggiorno in Egitto non può essere definitivo, perché il destino comune del popolo di Israele sarà quello di lasciare l’Egitto e di entrare nella terra promessa» (p. 250). Il racconto biblico lascia spazio, commenta Priotto. E viene permessa la sussistenza di “contrasti”: terra e discendenza, da un lato (cf. Gen 12-35), e appello profetico e salvezza, dall’altro (cf. Esodo).

Legittimazione della vita giudaica in diaspora

La storia di Giuseppe può essere ragionevolmente considerata – afferma Priotto – come una novella scritta da un membro della diaspora giudaica in Egitto durante il periodo persiano e successivamente integrata da un redattore post-sacerdotale nel racconto della Genesi per legittimare la vita giudaica nella diaspora. A livello di lettura sincronica si può dire che non si tratta di due approcci incompatibili. La formazione letteraria della storia di Giuseppe non è solo una questione letteraria ma teologica. «Infatti, è la vita della comunità credente che nelle varie situazioni storiche che si susseguono è invitata a rispondere ai nuovi problemi che si pongono, nella consapevolezza che la rivelazione divina è sempre più ampia rispetto alla nostra percezione. La verità non sta in un unico modello, ma nella comune accettazione di più modelli; è il loro insieme che costituisce la verità» (p. 251).

Il tema della terra di Canaan fa da inclusione all’intero ciclo narrativo (37,1 // 50,24-26) ma l’abitare di Giacobbe è ancora provvisorio. Con la storia di Giuseppe viene narrato come Canaan viene abbandonata e come l’Egitto diventerà la terra di Giacobbe e dei suoi figli (cf. 47,27); ma l’Egitto non sarà la meta definitiva. Giacobbe riposerà definitivamente a Macpela e Giuseppe fa promettere ai suoi di trasportare le proprie ossa in Canaan nel sepolcro dei padri. Questo apre la prospettiva sul futuro esodo degli israeliti dall’Egitto. Per lasciare l’Egitto e installarsi stabilmente in Canaan occorrerà però un’azione liberatrice da parte di YHWH.

Ambivalenza di Giuseppe

L’articolazione della storia di Giuseppe è basata soprattutto sul contenuto e – secondo Priotto – contiene almeno tre trame narrative: l’ascesa di Giuseppe (cf. cc. 39-41); il conflitto tra Giuseppe e i suoi fratelli che si apre al c. 37, continua nelle peripezie subite da lui in Egitto e si conclude con la progressiva riconciliazione; l’installazione di Giacobbe nel territorio egiziano di Gosen (cc. 47-50) implica, infine, l’esistenza di una storia patriarcale inglobante le tre generazioni dei padri. La sottolineatura della tomba di famiglia a Macpela segna la necessità “teologica” del ritorno in Canaan e con ciò prefigura la narrazione di Esodo. Sono tre tematiche distinte, ma che si intersecano nell’ultima redazione.

In conclusione si può affermare – scrive l’autore – che in Gen 37–50 sembra emergere una ambivalenza della figura di Giuseppe. Molti tratti illustrano una sua egizianizzazione, ma la rilettura postsacerdotale evidenzia che non solo Giacobbe ma anche Giuseppe verrà sepolto in Canaan.

Giuseppe scende in Egitto contro la sua volontà. Soffre e raggiunge il successo. Si rade la barba, sembra interpretare i sogni del faraone senza l’aiuto divino. Ci sono tratti che mostrano Giuseppe che rimane ebreo (rifiuta le avances della moglie di Potifàr, riunisce la famiglia in Egitto) e tratti dove si comporta da egiziano (sposa un’egiziana e rimane diciassette anni senza vedere il padre). Il nome di Manasse è ebraico ma rimanda a una radice nśh che significa “dimenticare”. Due identità si sovrappongono: dimenticare il passato ebraico? Ma ogni volta che Giuseppe menziona il nome, non può non risuonare in lui ciò che dovrebbe essere dimenticato. Nel banchetto di Gen 43,31-34 Giuseppe mangia a parte.

Chi è Giuseppe? Ebreo con gli ebrei (50,15-21) ed egiziano con gli egiziani (47,13-26)? «È Giuseppe modello di un ebreo che in diaspora permane fedele e testimonia la fede di Israele? Oppure un ebreo che cede alle lusinghe straniere? Quale interpretazione del racconto biblico? Non è il passato – scrive Priotto – che determina il presente, ma il contrario, come fin dall’inizio dell’Esodo, dove il taglio con l’esperienza precedente è netto! Ma la nuova lettura di Esodo può vanificare la precedente lettura di Genesi?» (p. 379).

Universalismo o identità particolare?

Priotto fa notare come l’ultimo termine di Genesi è «in Egitto» (Gen 50,26); l’ultimo termine del Pentateuco è «tutto Israele» (Dt 34,12); l’ultimo termine della Bibbia ebraica è «salire» (2Cr 36,23). Le ossa di Giuseppe vengono «fatte salire» in Canaan (Es 13,19). Chi rimane nel contesto di Genesi rimane in Egitto; chi rimane nel contesto di Gen 50,25; Es 13,19; Gs 24,32 emigra in Israele; chi rimane nel contesto di tutta la Bibbia, sale a Gerusalemme.

«Assimilazione versus separazione? – si domanda Priotto in conclusione della sua fatica –. Il giudaismo contiene sia l’universale che il particolare, la separazione e l’apertura. Si tratta di un dato che caratterizza il giudaismo fino ai nostri giorni. Separazione o identità? Tradizione o modernità? Ecumenismo o ortoprassi? Giuseppe Flavio ha due nomi, uno ebraico e l’altro romano. Deve prevalere il particolarismo di Esdra-Neemia o l’universalismo di Rut? Universalismo o identità particolare? Religione o religioni? Da questo punto di vista la storia di Giuseppe è affascinante» (p. 380).

Concludono l’opera la Bibliografia (pp. 381-390), l’Indice degli autori (pp. 391-394) e l’elenco di citazioni bibliche scelte (pp. 395-400).

Il volume è un testo scientifico di studio e di consultazione e costituisce quasi un commentario sintetico di Gen 12–50. Esso pone speciale attenzione all’analisi letteraria del testo e al significato geografico-teologico che le figure dei patriarchi e delle loro peregrinazioni offrono al lettore.

L’approccio credente di Priotto tende a far entrare chi lo segue ad assumere un atteggiamento di assimilazione esistenziale e attualizzante del testo.

Michelangelo Priotto, L’itinerario geografico-teologico dei patriarchi di Israele (Gen 11–50), Edizioni Terra Santa, Milano 2021, pp. 416, € 44,00.

 

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Un commento

  1. Bregolin Adriano 12 novembre 2021

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