Piegare i santi

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Rendere omaggio ai boss della mafia o ai loro familiari facendo inchinare le statue dei santi durante le processioni è un aspetto della più ampia religiosità diffusa in molte aree del Mezzogiorno, ma anche in alcune realtà del nord Italia. Liquidata come pratica rituale pagana di comunità premoderne, essa in realtà richiede una lettura in grado di comprendere la complessa macchina rituale della festa, che ha al suo interno una dimensione ludica, un potenziale aggressivo e meccanismi cerimoniali che possono produrre violenza. Di questo si occupa il libro di Berardino Palumbo, docente di Antropologia sociale all’Università di Messina, Piegare i santi. Inchini rituali e pratiche mafiose, pubblicato da Marietti 1820 e in libreria dal 21 maggio (176 pagine, 13 euro). Le famiglie mafiose controllano i tempi e i ritmi delle processioni religiose decidendo il movimento delle statue e delle immagini, gestiscono i tempi, i luoghi e le modalità dello sparo dei fuochi d’artificio (masculiate), occupano una precisa posizione sotto le vare, spogliano i bambini in onore di un santo, ostentano un’idea del “maschile” e rappresentano pubblicamente lo status sociale e i rapporti di forza tra uomini. Questi esperti manipolatori dello spazio pubblico operano all’interno di economie morali diverse, a volte contrastanti, in cui convivono spirito imprenditoriale, feticismo delle merci e un’etica teatrale barocca dell’apparenza esteriore e della rappresentazione pubblica. Guidano auto di grossa cilindrata, maneggiano armi e droga e investono in complesse operazioni finanziarie; non sono dunque gli attori di una società arcaica, ma esponenti del cosiddetto casinò capitalism. Dal libro Piegare i santi proponiamo le prime pagine dell’introduzione.

copertina

Alcuni anni fa la rivista Il Mulino mi chiese un intervento sui cosiddetti inchini, ossia sui numerosi casi in cui, nel corso di processioni cattoliche, i portatori rendono omaggio, facendo appunto inchinare le statue, a esponenti della criminalità organizzata e/o a loro familiari. Accettai con piacere la proposta e quell’articolo, sia nella versione online sia in quella cartacea, ebbe un qualche riscontro. Immagino che la richiesta di quel contributo fosse legata alle ricerche da me svolte nel decennio precedente in un’area della Sicilia Sud-orientale e ai vari contributi che da tale esperienza sono man mano maturati.

In questo libro provo ad approfondire quell’intervento, ponendomi un duplice obiettivo: in primo luogo esplicitare alcune delle importanti poste conoscitive, intellettuali e politiche in gioco quando si prova a riflettere con attenzione critica intorno al tema degli inchini e più in generale sui rapporti tra devozione, religione e mafie; quindi mostrare l’utilità del far circolare all’interno del campo degli studi sulle mafie e, più in generale, nello spazio della discussione pubblica, degli approcci etnografici e una prospettiva antropologica, teoricamente aggiornata. Questo perché mi pare che nelle reazioni dell’opinione pubblica colta, sia laica sia cattolica, sempre più spesso provocata a pronunciarsi su simili fenomeni sociali, si addensino molti assunti ideologici, vari presupposti impliciti e alcuni atteggiamenti inconsapevolmente etnocentrici.

Rispetto a questo agglutinarsi di significati impliciti e alla tendenza a reiterare quelli che a me paiono stereotipi e attitudini abitudinarie, chiamare in causa una lettura di taglio antropologico mi sembra una scelta utile, non tanto perché chi scrive fa di mestiere l’antropologo, quanto piuttosto perché la disciplina che pratico implica necessariamente un duplice scarto conoscitivo: da un lato, passando per l’esperienza etnografica (vivere a lungo la vita sociale di donne e di uomini che sperimentano forme di vita diverse, anche radicalmente, dalla propria) lo sguardo antropologico presuppone uno straniamento dal proprio universo di pratiche e dal proprio orizzonte categoriale. Dall’altro, tale straniamento con il connesso tentativo di assumere «il punto di vista del nativo» deve condurre – nel momento stesso in cui si attua nell’esperienza incorporata del ricercatore – a una critica epistemologica e genealogica delle sue (dell’etnografo) categorie, dei modi in cui queste organizzano la sua esperienza del mondo e, quindi, dei suoi stessi presupposti culturali. Solo al termine di un simile percorso il progetto di comprensione dell’altro può avere una qualche speranza di plausibilità e di successo.

Nel caso dei problemi trattati in questo libro, chiedersi cosa gli inchini delle statue significhino per gli attori sociali che li mettono in atto e per noi che li osserviamo da uno specifico posizionamento socio-intellettuale non può prescindere dall’aver acquisito un’intimità etnografica con i contesti in cui queste pratiche vengono messe in atto e, quindi, dalla capacità di contestualizzarle all’interno dei più ampi scenari sociali in cui quelle e noi stessi agiamo.

Nello stesso tempo una simile volontà di comprensione deve passare non tanto dalla semplice, relativistica, sospensione del giudizio (morale, estetico, politico, culturale) che esprimiamo sulla base del nostro essere parte di un certo orizzonte culturale, quanto piuttosto da un’interrogazione critica sulla genealogia di quel giudizio. Prendiamo, ad esempio, pratiche rituali ancora oggi comuni in alcuni dei contesti in cui assistiamo agli inchini e che implicano l’esercizio di forme di violenza sui corpi dei devoti (pratiche penitenziali come la flagellazione, o atti di costrizione, come il lingere terram, ossia il leccare camminando carponi il pavimento di un edificio sacro dall’ingresso all’altare, o lo sfregare la fronte su un muro di una chiesa fino a lasciarvi impressa una croce di sangue) o su quelli degli animali (per esempio le corse di cavalli che, presenti in tutte le grandi feste patronali siciliane fino agli inizi del XX secolo, sono gradualmente scomparse per finire sempre più spesso in spazi di clandestinità e illegalità, controllati a volte dalla criminalità organizzata). Dove si colloca e come si è costruita la cesura estetico-morale, teologico-pastorale e politico-culturale che al nostro attuale senso comune le fa apparire espressioni di una economia morale inaccettabile e di modi di essere e di agire anacronistici?

Quando nella scena pubblica nazionale si qualifica la pratica degli inchini processionali come un residuo di paganesimo o come un’indebita appropriazione da parte di uomini di mafia di rituali che, al massimo, riteniamo tollerabili, quanti presupposti culturali, quante cesure epistemiche diamo per scontati – e dunque sottraiamo all’analisi – con i nostri giudizi? Rispondere a simili questioni è parte integrante di un progetto conoscitivo di taglio antropologico.

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