Terrorismo, guerra, mass media: la violenza come spettacolo

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Mondzain, L'immagine che uccideUn’immagine può uccidere? Può rendere assassini? Può essere considerata responsabile di crimini e di delitti? Dall’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 alle stragi del Daesh il terrorismo si è impossessato dello spazio mediatico. La morte distribuita ciecamente e l’esibizione dei gesti più selvaggi vengono proposti, come in una performance, non solo ai governi e ai vertici militari, ma anche al pubblico inorridito e affascinato che guarda la televisione e naviga su YouTube. Le battaglie che si svolgono sugli schermi orientano i cittadini a pensare il visibile e l’invisibile come legami determinanti nell’analisi politica. Per questo è necessario prendere sul serio la formazione degli sguardi, comprendere che cos’è un’immagine, quali rapporti intrattiene con la violenza e quali possibilità le restano di offrire libertà a una comunità non criminale. La filosofa francese, di origini algerine, Marie-José Mondzain esamina la questione nel saggio pubblicato dalle EDB, «L’immagine che uccide» (qui la scheda del volume) di cui pubblichiamo di seguito un brano. Della Mondzain, studiosa dell’uso culturale e politico dell’immagine, sono tradotti anche Il commercio degli sguardi (Medusa) e Immagine, icona, economia (Jaca Book).

Porre la questione dei rapporti tra una situazione di guerra e una situazione di performance suona alquanto provocatorio, poiché possiamo intendervi un avvicinamento, persino un’identificazione, tra gesti conflittuali che si verificano in una realtà portatrice di morte e rappresentazioni finzionali che hanno pretese artistiche, sia che si tratti dell’ambito teatrale o plastico e spesso nella loro combinazione. È evidente come la questione della performance abbia invaso il campo della creazione, dal mondo artistico al mondo sportivo e commerciale, per giungere al campo della comunicazione nella sua interezza. La performance non è solamente il termine per mezzo del quale si valutano i rapporti di mercato e di concorrenza, non è solamente il termine che serve a selezionare le persone e le forme, ma è sotto questo segno che il campo della cultura e delle produzioni simboliche si trova a essere investito nel modo più violento.

È proprio a partire dal terreno reale delle guerre, in particolare delle guerre che si svolgono in Medio Oriente, che è nato e si è manifestato un regime specifico della performance che ha come fuso in uno stampo unico e confusionale ciò che fa parte dell’ambito reale e ciò che fa parte dello spettacolo. La «cultura dell’entertainment» si è sviluppata nello spazio dell’informazione e della comunicazione attraverso flussi visuali globali. L’arte della rappresentazione è ormai praticata dai combattenti stessi con un virtuosismo che deve tutto alle tecniche d’informazione e comunicazione. A partire dall’11 settembre, il mondo dell’arte e specialmente quello del teatro prendono atto di questo: il mondo politico, militare e terrorista si è impossessato di tutto lo spazio mediatico in cui si trova il reale e in cui è interpretato massicciamente come performance. Si può evidentemente riconoscere che la coscienza di questa transizione del reale nello spettacolo è stata indicata con talento premonitore da Guy Debord.

Tuttavia negli anni Sessanta la sua condanna del capitalismo spettacolare prendeva di mira essenzialmente il consumo ideologico dei programmi che sostenevano e persino promuovevano il neoliberalismo nascente a scapito della vita politica, della creazione e, più in generale, della libertà. Il trionfo del mercato sulla cultura è diventato senza ombra di dubbio un topos della critica attuale del neoliberalismo. Ebbene, bisogna fare un passo in avanti quando oggi si analizzano la guerra e la performance.

I videogiochi hanno poco a poco banalizzato e derealizzato l’uso selvaggio e omicida dei droni, occhi elettronici che osservano i dati e che sparano alla cieca. D’altra parte, lo spettacolo mediatico dei gesti omicidi diffusi da Daesh non si indirizza solo ai poteri dominanti, ai governi o ai capi militari, ma anche alla comunità mondiale degli spettatori televisivi e degli utenti quotidiani di YouTube e Dailymotion. La rete sommerge e supera la televisione perché agisce in tempo reale. Il maggiore attentato all’essenza creativa ed emancipatrice della performance è proprio quello diretto al tempo stesso. È la temporalità dei flussi che rompe con la necessaria dilatazione del tempo in un processo simbolico. La precipitazione è connessa alla decapitazione in tutti i sensi del termine.

Davanti a un’esecuzione su YouTube anche lo spettatore è decapitato simbolicamente, in quanto il pensiero è privato in maniera radicale del ritmo scandito dalla pazienza dello sguardo e dalla respirazione della parola. La decapitazione di un giornalista americano su YouTube non ha più niente a che vedere con la decapitazione dell’imam Hussein nel Ta’zieh (avvenuto nel VII secolo e ricordato in un particolare genere teatrale religioso diffuso in Iran, ndr), bensì ha molto in comune con i filmini girati ad Abu Ghraib nelle prigioni militari americane. Daesh o Al Qaida hanno imparato la lingua spettacolare della performance spaventosa o ammonitrice nella scuola della televisione americana. La guerra delle immagini, come la chiamiamo oggi, si svolge tra questi partecipanti. Sono loro gli artefici del gioco in cui si distribuiscono gli shock emozionali, le passioni omicide, i ricatti torturatori.

Tra Guantanamo e Daesh, tra i video di YouTube e i droni assassini teleguidati, c’è una lingua comune, quella della rappresentazione criminale, della morte assegnata ciecamente e dell’esibizione e la diffusione senza limiti dei gesti più selvaggi di fronte a un pubblico contemporaneamente inorridito e irretito. Purtroppo c’è un’erotizzazione del peggio. Il terrore è divenuto una performance e il terrorista un performer perverso che non deve niente alla lettura dei vangeli, né alla Bibbia né al Corano. È proprio per questa ragione che i grandi visionari degli anni Sessanta hanno anticipato le performance barbare del nostro mondo: si chiamavano Guy Debord, John Cage e Nam June Paik. Il primo denunciava quello che definiva un sistema e voleva sbarazzarsi dei suoi agenti globalizzati, i secondi si sono fatti performers della deregolamentazione sistematica del sistema stesso servendosi degli operatori e delle operazioni di questo nuovo mondo.

Oggi sono sempre di più coloro che vorrebbero evitare «la scomparsa delle lucciole», che Pasolini ha constatato e deplorato. Molti cercano di far capire che si può usare la forza operativa delle immagini per aprire il campo dei possibili e della libertà. Allora preferisco pensare che fino a quando esisteranno gli artisti ci sarà la speranza che alcuni gesti coraggiosi e creativi diano all’informe la sua nuova forma, lontano dall’assoggettamento e dal terrore. «Performare» potrebbe voler dire dare la potenza vivente e trasformatrice alle energie omicide, ovvero dare forma all’informe rispettando l’indeterminazione e l’imprevedibilità dei possibili al servizio della vita, quella dei corpi e quella del loro pensiero.


Marie-José Mondzain

Marie-José Mondzain

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