Un joli petit livre

di:
Giuliano Zanchi

Don Giuliano Zanchi

Ho appena terminato un joli petit livre (a volte il francese è perfetto per definire qualcosa che noi chiameremmo solo «carino»…) che s’intona con il periodo liturgico, essendo appena trascorsa la solennità del Sacro Cuore. S’intitola Le migrazioni del cuore (EDB e l’ha scritto don Giuliano Zanchi, teologo ed esperto di arte. Il sottotitolo «Variazioni di un’immagine tra devozione e street art» chiarisce che si tratta di un excursus sulle immagini del Sacro Cuore da santa Margherita Maria Alacoque (1673) agli stilisti contemporanei (in effetti mi ha stupito non poco l’abbondanza di ricorsi espliciti a tale iconografia sacra da parte della moda moderna), e già questo è interessante; ma mi limiterei a segnalare qui alcune osservazioni che don Zanchi desume dalla sua analisi storico-artistica.

Il Sacro Cuore rappresenta inizialmente la rivincita della mistica e del sentimento contro una teologia che stava diventando troppo cerebrale. Ma nel frattempo avanzavano spinte razionalistiche anche in altri settori della cultura e della società: la scienza sperimentale di Galileo (che metteva in crisi le spiegazioni bibliche della natura), la Riforma luterana, più oltre l’illuminismo e la Rivoluzione francese… Non è un caso dunque se i vandeani, acerrimi resistenti contro le persecuzioni anticlericali dei giacobini, sulla loro bandiera stampano un rosso cuore sormontato da una croce.

«Il Sacro Cuore – scrive Zanchi – divenne un’icona del risentimento credente nei confronti della civiltà laica e secolare che, con i suoi nuovi saperi, stava conquistando il dominio del vecchio mondo spirituale e cristiano e contro la quale il cattolicesimo tardo moderno sentiva il dovere di combattere con tutte le forze… Ancora fra Ottocento e Novecento l’immagine del Sacro Cuore identificava quella miscela di umori che nel cattolicesimo infondeva l’ansia di una resistenza politica e culturale nei confronti del mondo moderno».

L’approccio del cattolico verso la modernità è quello della «riparazione», ben significato dalle espressioni: «riparare» i «sacrilegi» dell’agnosticismo (ma anche delle altre confessioni cristiane); «riparare» le ideologie che contestano la tradizionale unione di trono ed altare e vorrebbero più eguaglianza tra le classi sociali (il Sacro Cuore diventa infatti emblema per la restaurazione della monarchia); anche «riparare» guasti e miserie della rivoluzione industriale attraverso la carità – vedi i santi sociali dell’Ottocento.

Insomma, con la sua triste dolcezza («Sguardo supplice e inclinato, gesto di disarmante e totale consegna») il Sacro Cuore esprime nel suo fondo la «radicata resistenza con cui il cattolicesimo avrebbe accompagnato i processi evolutivi della cultura moderna… Il Cristo della dolcezza implorante, in cui traspare un amoroso e infinito rimprovero, offrirà dunque le sue perfette sembianze a un cattolicesimo che guarda in faccia la propria epoca, ribelle e irriconoscente, con lo stesso addolorato sconcerto». Di più: «L’iconografia del Sacro Cuore, attivata già di per se stessa sotto la stella di un intento riparatorio e resistente, ha finito per congelare le proprie vibrazioni spirituali attorno a un certo atteggiamento di rancore nei confronti di ogni attualità». Quanta ideologia, dietro a una statua di gesso colorato e un po’ “retrò”.

Riprendiamo la recensione firmata da Roberto Beretta al volume di Giuliano Zanchi, Le migrazioni del cuore (EDB, 2017), apparsa sul blog Vino Nuovo il 26 giugno 2017.

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