Vivere “online” senza smarrire l’umano

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Viganò, Connessi e solitariViviamo in Rete, ma in modo umano e sostenibile. Trovare nelle nostre conversazioni su web o mobile una «zona verde» che permetta l’ascolto, il dialogo e il confronto, è la vera sfida della comunicazione 2.0. Se infatti è bello postare una faccina sorridente sui social, guai tuttavia dimenticare di guardarci negli occhi. A rimarcare l’importanza di una comunicazione personale e responsabile anche nell’epoca dei Big Data è monsignor Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede, nel suo nuovo libro dal titolo Connessi e solitari. Di cosa ci priva la vita online (EDB, Bologna 2017, pp. 72, euro 8).

In queste pagine Viganò – definito con un sorriso «ministro della comunicazione del Vaticano», ma soprattutto nella realtà persona concreta, esperto di umanità, prima che di cinema e di giornalismo – spiega come e perché la nostra vita non possa ridursi a un continuo selfie dai postare ma occorra invece attualizzare nel nuovo corso del mondo la più piccola e importante delle categorie aristoteliche: la relazione. Perché anche le «strade digitali» allunghino il campo all’umanità dei vissuti.

È sempre vero che sei fai scendere le persone alle scale dei comportamenti, scopri dei mondi. Internet come specchio ci abitua spesso al graduale affievolirsi della conversazione faccia a faccia: mandiamo messaggi tutto il tempo, postiamo foto, troviamo il modo di eludere domande e di toglierci le bende calando lo sguardo sullo smartphone, nascondendoci pur essendo connessi.

«I media – scrive Viganò – hanno conquistato la nostra esistenza quotidiana. Sono i custodi delle chiavi dei nostri spazi e del nostro tempo», ma in questa condizione postmediale occorre ritrovare il senso della comunicazione, che è l’incontro. L’altro è una storia personale prima che un cloud e una nuvola di parole e smile. Nella «cultura del provvisorio» di cui parla Papa Bergoglio, ci auguriamo di essere seguiti e di avere molti follower, ma dovremo riscoprirci abitatori del tempo prima che della moderna «mediapolis».

Nella circolarità sistemica tra tecnologia e società, emerge il ruolo della mediazione, della riflessione e dello sguardo più lungo oltre la corrente di onde emozionali che porta e cercare la soddisfazione del repentino. Significa capire la bellezza di un sorriso o il dolore di una lacrima quando l’orizzonte si presenta piovoso, «affinché l’emergente antropologia mediale possa esprimersi sempre più in termini di piena umanità».

Perché le emozioni, anche quelle digitali, sono un grande campo che deve essere coltivato. Occorre aderenza alla realtà – oggi si parla tanto di resilienza – magari scomodando le lezioni di quel grande saggio di Paul Watzlawick e la sua pragmatica delle comunicazioni umane. Fa bene Viganò a richiamare una riflessione di Sherry Turkle, in La conversazione necessaria (Einaudi): «Gli studi mostrano che la semplice presenza di un telefono su un tavolo (anche un telefono spento) muta qualitativamente l’argomento di cui le persone stanno parlando. Se pensiamo di poter essere interrotti in qualsiasi momento, tendiamo a mantenere la conversazione su argomenti banali o su tematiche che non suscitano polemiche né hanno particolare rilievo. Perfino un telefono silenzioso riesce a separarci». Ecco anche il motivo per cui «non basta chiedere ai figli di mettere via i loro telefoni. Dobbiamo offrire un chiaro modello comportamentale e mettere via noi per primi il cellulare».

Occorre uno sforzo per recuperare la comunicazione vis-à-vis, ritrovare un modo per essere amici, per vivere quella prossimità che porta a scoprire l’incontro vero: «La rete digitale può essere un luogo ricco di umanità, non una rete di fili ma di persone umane», ha rimarcato Papa Francesco nel Messaggio per la XLVIII Giornata mondiale delle comunicazioni sociali.

Il valore delle relazioni e dell’interazione vuole dire anche vivere in modo responsabile quella «casa comune, che è il mondo intero», dice il papa gesuita. Stare con gli altri comporta il coraggio dell’identità, reciprocità, gratuità. «Questa – rimarca Viganò – non è una dinamica per solipsisti, ma per persone aperte alla pluralità, disponibili alla verifica della comunicazione, della comprensione dei termini e del significato attribuito alle azioni e ai risultati raggiunti».

Occorre prendere una strada diversa: «Senza demonizzare la rete come luogo distruttivo, ma per scoprire nuovi modi di stare con gli altri, senza rinunciare ai rapporti diretti, personali, con presenze reali e non esclusivamente virtuali».

La tecnologia serva anzitutto a connettere persone, facendo del digitale un nuovo narrativo che serve a contattare le emozioni dell’altro, facendoci uscire dalla prima curva che imbocchiamo. Senza judo psicologico, ma con quello che in PNL si definisce gesto ecologico, ciò che può essere fatto nel contesto in cui mi trovo, senza che questo rallenti nelle emozioni il mio desiderio di vissuti.

Occhio allora a quella che papa Francesco chiama «orfanezza spirituale», che ci fa perdere la memoria del valore. L’altro è ur-worte, parola primordiale, anche se lo vedo immerso in un mare di cavi. «Il pensiero va sentito, altrimenti è puro calcolo», insegna Aldo Masullo, il filosofo della paticità. Perché – ancora parole dell’autore de Il tempo e la grazia – «occorre scoprire che con-versare significa versare insieme. Cercare l’unione non l’unità, come diceva Giordano Bruno, per il quale ogni punto è centro, ogni uomo è un mondo».

Sempre Sherry Turkle, in La conversazione necessaria metteva in guardia da un rischio, quello di trovarsi «eternamente altrove. Nel dizionario inglese – faceva anche notare – è entrato il nuovo termine phubbing, vale a dire mantenere il contatto visivo con gli altri mentre si scrive un messaggio di testo».

A volte occorrerebbe usare gli occhi anche per ascoltare. Ripensare le nostre abitudini significa rimettere al centro la relazione, «perché – come annota ancora la Turkle, l’antropologa del cyberspazio –, la sola cura per le connessioni fallimentari del nostro mondo digitale è parlare».

Da l’indicazione profonda di Viganò: «La vita on line e quella off line chiedono una profonda integrazione anche perché l’una rende autentica l’altra e di fatto, oggi, non si ha più una separazione netta tra l’essere in rete o l’esserne fuori». Potremmo parlare della necessità di una ecologia delle rete e dell’ambiente digitale, che ha cura dell’altro, rispetto per le persone ma anche aperta a una dimensione trascendente dell’esistenza. Si tratta di cogliere, insieme, relazioni da costruire e sfide da affrontare.

Certo è più difficile – perciò è anche più sfidante – giocare le proprie idee parlandone con l’altro che si accosta e cammina con noi. In fondo è accaduto a Emmaus tanti anni fa. E lì, invece dei telefonini, c’era qualcuno che ha spezzato il pane con i suoi amici.

Riprendiamo la recensione al volume di Dario Edoardo Viganò, Connessi e solitari, EDB, Bologna 2017, firmata dalla redazione di Nuova Agenzia Radicale, pubblicata lo scorso 18 agosto.

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