4. Testo biblico e meravigliosa complicatezza

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Come abbiamo già rilevato nel n. 2 di questa rubrica, le conseguenze di AL si fanno sentire anche sul piano di una rinnovata “ermeneutica giuridica” dell’amore e del matrimonio. Abbiamo bisogno di “mutare sguardo” anche nel modo con cui la tradizione legge se stessa, con le dovute priorità. Il rispetto da portare per il testo biblico, nel ricostruire la tradizione, diviene un punto qualificante della “rilettura” che qualifica AL e che fa discendere da essa conseguenze nella concezione della dottrina e nelle forme della disciplina. In uno articolo importante, Adriàn Taranzano, biblista argentino, studia il testo paolino che è alla base di documenti dottrinali e giuridici dove viene fondata nella tradizione la “persistenza ostinata nel peccato grave”, come motivo di scomunica sacramentale stabilita dal can. 915. Si tratta di una lettura molto utile, che chiarisce in modo competente e profondo, come dovrà orientarsi la applicazione pastorale e giuridica alla luce di AL. Qui di seguito una sintesi dello studio, curata dallo stesso autore, che ringrazio di cuore.

Un testo “fuori del suo contesto”: 1Cor 11, 17-34 di Adriàn Taranzano

Nella recente Esortazione Apostolica Amoris lætitia papa Francesco fa un’affermazione quasi en passant: «…è opportuno prendere molto sul serio un testo biblico che si è soliti interpretare fuori del suo contesto, o in una maniera molto generale, per cui si può disattendere il suo significato più immediato e diretto, che è marcatamente sociale. Si tratta di 1 Cor 11,17-34, dove san Paolo affronta una situazione vergognosa della comunità» (AL 185).

Si tratta di un testo che merita un’analisi approfondita. Di fatto, è il testo fondamentale che ispira la disciplina vigente riguardo all’accesso o meno ai sacramenti. Il Pontificio consiglio per i testi legislativi lo palesa nella Dichiarazione circa l’ammissibilità alla santa comunione dei divorziati risposati del 24 giugno 2000, 1: «La proibizione fatta nel citato canone (= 915), per sua natura, deriva dalla legge divina e trascende l’ambito delle leggi ecclesiastiche positive: queste non possono indurre cambiamenti legislativi che si oppongano alla dottrina della Chiesa. Il testo scritturistico cui si rifà sempre la tradizione ecclesiale è quello di San Paolo: “Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1Cor 11, 27-29)».

Facendo un paragone col canone 712 del Codice dei canoni delle Chiese Orientali che parla di escludere gli “indegni” dall’eucaristia, la dichiarazione descrive i gravi danni che si seguirebbero da una prassi diversa da quella in vigore: «In effetti, ricevere il corpo di Cristo essendo pubblicamente indegno costituisce un danno oggettivo per la comunione ecclesiale; è un comportamento che attenta ai diritti della Chiesa e di tutti i fedeli a vivere in coerenza con le esigenze di quella comunione. Nel caso concreto dell’ammissione alla sacra comunione dei fedeli divorziati risposati, lo scandalo, inteso quale azione che muove gli altri verso il male, riguarda nel contempo il sacramento dell’eucaristia e l’indissolubilità del matrimonio».

Il testo paolino è interpretato qui in maniera insufficiente, senza un’analisi critica e storica. Qui mi limito soltanto a offrire alcune considerazioni sul testo e rimando a commenti scientifici per uno studio accurato (p.e. D. Fee, The First Epistle to the Corinthians (NICNT), Grand Rapids, Michigan, Eerdmans, 1987; W. Schrage, Der erste Brief an die Korinther. VII/ 3: 1 Kor 11,17-14,40 (EKK), Neunkirchen-Vluyn, Neukirchener Verlag, 1999, 5-107; A. Thiselton, The First Epistle to the Corinthians (NIGTG), Grand Rapids, Michigan – Cambridge, U.K., Eerdmans, 2000, 848-899).

Mangiare e bere la propria “condanna”?

Il punto di partenza del rimprovero paolino sono le divisioni della comunità (cf. 1Cor 11,18). L’insistenza su questo problema suggerisce che queste divisioni sono piuttosto atteggiamenti comunitari, legati a questioni di status (M. Theobald, Die Eucharistie als Quelle sozialen Handelns. Eine biblisch-frühchristliche Besinnung, Neukirchen-Vluyn 2012, 7; Schrage, Korinther, 20; P. Lampe, “Das korinthische Herrenmahl im Schnittpunkt hellenistisch-römischer Mahlpraxis und paulinischer Theologia Crucis (1 Ko 11,17-34)”, ZNW 82/3-4 (1991), 183-213, 192). Paolo denuncia con chiarezza questi abusi (1 Co 8-14) in un marcato contesto eclesiologico (Schrage, Korinther, 20).

Nel nostro passo, l’apostolo costata che l’assemblea riunita non corrisponde con la “cena del Signore” (cf. 1Cor 11,20). Nella stessa assemblea convive l’eccesso di alcuni col bisogno degli altri. Qui è rimproverata la mancata comunione e l’attenzione ai bisognosi (Schrage, Korinther, 26). L’apostolo accenna al motivo dello scandalo: mentre uno è ubriaco, l’altro ha fame (cf. 1Cor 11,21). Non si percepisce la differenza tra la cena del Signore e il cibo normale mangiato nelle loro case. Tutto ciò implica disprezzare (kataphronéo) la Chiesa di Dio e umiliare (kataisjýno) quelli che non hanno nulla (toús mè éjontas). Quest’atteggiamento spensierato contraddice la verità più profonda dell’assemblea eucaristica, perché la sua identità è la commemorazione della cena del Signore in quella notte in cui fu tradito (cf. 1Cor 11,23-25). Ogni volta che si mangia il pane e si beve al calice, si annunzia la sua morte finché egli verrà (1 Co 11,26).

In questo contesto, Paolo afferma che «chiunque mangia di questo pane o beve del calice del Signore indegnamente, sarà colpevole del corpo e del sangue del Signore» (1Cor 11,27). L’avverbio usato è anaxíos. D. Fee sostiene che qui non si fa riferimento a una disposizione personale – a uno stato – bensì alla maniera di partecipare alla cena (The First Epistle to the Corinthians, 560). L’unico altro passo biblico in cui compare l’avverbio è 2Mac 14,42 dove si parla di Razis, chi preferisce «morire nobilmente piuttosto che cadere nelle mani di quegli scellerati ed essere oltraggiato in modo indegno (anaxíos) della sua nobiltà». Anche Schrage considera che l’atteggiamento sbagliato nel passo è quello di pensare al proprio pasto (ídion deīpnon), il disprezzo verso la comunità e gli emarginati (vv. 21-22). Non si può slegare l’avverbio dalla situazione presentata dall’apostolo (cf. 1Cor 11,17-22).

L’espressione “essere colpevole del corpo e del sangue del Signore” si riferisce al corpo e sangue del Signore, consegnato alla croce. Non s’intende qui un “sacrilegio” contri i segni del pane e del vino, bensì contro il Signore stesso (cf. Thiselton, 890; Schrage, Korinther, 49). L’idea è analoga a quella di 1Cor 8, 12 dove la colpa contro il fratello suppone un peccato contro Cristo. Dato che non si tratta di una cena qualsiasi, ma del memoriale della morte del Signore, gli abusi contro quelli che non hanno niente sono una mancanza contro il Signore crocifisso.

Paolo non esorta ad astenersi dal banchetto eucaristico, bensì a esaminare se stessi per poi mangiare e bere (cf. 1Cor 11,28). C’è una nuova ragione: chi mangia e beve senza discernere il corpo (mè diakrínōn tò sōma), mangia e beve un giudizio (kríma) su di sé (1Cor 11,29). Discernere il “corpo” può avere un significato cristologico oppure ecclesiologico, come suggerisce piuttosto il v. 31, ma non si riferisce al segno sacramentale, come p.e., distinguere il pane comune da quello sacramentale (Schrage, Korinther, 51; Theobald, Eucharistie, 77).

Il mangiare e bere il kríma s’interpreta di solito come un riferimento alla condanna, in senso escatologico. Un’attenzione però al contesto esclude quest’interpretazione. Paolo spiega la sua affermazione con riferimento a fatti concreti: e per questo (dià toūto) che tra i corinzi ci sono degli infermi, malati e molti muoiono (1Cor 11,30). Questo è il giudizio o punizione che si mangia o beve ogni volta che non si discerne il corpo e il sangue, rendendosi colpevoli verso il corpo e del sangue del Signore. A quanto pare, l’apostolo fa riferimento a una vicenda conosciuta nella comunità, interpretata come punizione divina. Nella lettera è presente quest’idea tramite gli esempi dalla storia di Israele (1Cor 10,1-10; cf. Lv 25,1-9). Per Paolo, i corinzi sono di fatto puniti. Se invece, i corinzi esaminassero se stessi (ei dè heautoùs diekrínomen), come si dice nel v. 29, allora non sarebbero puniti (ouk àn ekrinómetha). Paolo parla di giudizio o punizione, non di condanna. Inoltre, questo guidizio ha un senso pedagogico (paideuómetha: 1Cor 11,32). La punizione pedagogica ha come scoppo la salvezza: affinché non siano condannati col mondo (hína mè syn tō kósmō katakrithõmen).

In poche parole

Mangiare e bere il pane e il vino indegnamente, cioè, senza discernere il corpo, implica il pericolo di una punizione. I fatti lo dimostrano. Tuttavia, lo scopo è evitare la condanna! Un’interpretazione accurata del testo consente di superare un’applicazione anacronistica del passo. A mio avviso, una tale lettura è responsabili di posizioni intransigenti e rigide. F. Moloney lamenta che non di rado il testo sia stato malinteso (A Body broken for a broken People. Eucharist in the NewTestament, Grand Rapids, Michigan 2010, 165-166). È stato usato come un dictum probans di una tesi a priori. La necessaria attualizzazione del testo non può prescindere dal suo senso originale. L’amore per la verità implica la purificazioni di interpretazioni, anche tradizionali (cf. CCC 83).

Paolo non pensa qui a uno stato di peccato mortale, ma chiede senz’altro una vita coerente col mistero della croce del Signore. Partecipare alla cena implica l’apertura della propria esistenza al mistero di un Cristo consegnato per la salvezza di tutti. Pensare alle condizioni concrete è compito del discernimento della Chiesa.


Estratto da Adrián Taranzano, «¿Se disuelve la indisolubilidad matrimonial? Consideraciones acerca del debate en torno al próximo Sínodo», in: Teología 115 (2014), 185-213, qui: 201-208.

Pubblicato il 15 aprile 2016 nel blog: Come se non

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