Cantare la Pasqua

di:

Ah! La morte tolta alla morte, tolti i sigilli dalle tenebre,

e tutta la terra nel mattino di menta e d’arancio;

La pietra spezzata, c’è ora un Dio nel mondo,

come un cedro bianco, e con lui il potere esatto di vivere!

 

O fiume! La terra è verde di ogni spirituale verzura –

e la carità la trasmuta.

E io dico che un corpo, nella Pentecoste,

può essere al presente la forza che l’instaura e la fertilizza;

E che un corpo è là, che raduna le sue ossa,

e che può crescere per santificarla, se cessa di preferire l’inverno.

E che una città di gioia attende nelle città:

il seme e l’esplosione della gioia nella materia stessa del mondo;

E nell’avvicinarsi delle stelle e nel granito e l’acciaio

e nelle grandi annate umane la grandezza possibile della gioia!

Una speranza unica, così come al riposo delle ruote sulla pista

l’avvenimento delle cose nuove e il loro pegno

si è proposto all’uomo perché non esiti più;

E conosca nell’amore e ami nella conoscenza;

E non rifiuti più se stesso rifiutandole;

Ma proceda verso la sua età, nella sua vocazione,

senza altro miracolo che quello di aver preso senso;

E si occupi di diventare l’Uomo – per ricevere tutto in sovrappiù –

come sulle colline ancora fredde

questi boschi di mimose in fiore

che preannunciano già la primavera! (Jean-Claude Renard, 1922-2002)

 

La poesia della liturgia

Ricordo che nella mia adolescenza, quando cercavo strumenti per entrare nella liturgia che già da allora mi appassionava, uno dei primi libri che acquistai e lessi con avidità era Jacques Leclercq, dal titolo Poesia dell’anno liturgico. Non era la prima volta, e neanche l’ultima che compravo un libro affascinato dal titolo. Erano tempi, e forse certe ricadute ci sono ancora, in cui c’era chi pensava che “poesia” fosse sinonimo di “futilità” e “vapore acqueo”.

La liturgia, a quei tempi, era lo studio delle rubriche, del tipo quante candele si dovevano accendere sull’altare nelle feste di prima o seconda classe, et similia! Il seminarista sacrista disponeva di un dettagliatissimo “zibaldone” in cui erano minuziosamente catalogate tali norme.

Poi mi capitò di leggere Cultura umanistica e desiderio di Dio in cui Jean Leclercq ricordava che i monaci del medioevo erano così affascinati dalla poesia da inventare feste di nuovi santi per il piacere di comporre inni in loro memoria!

Non mi dilungo oltre, ma vorrei ricordare sinteticamente che la liturgia non può prescindere dal bello, che non è la “crosta” che incanta certi estetisti, ma ciò che ne costituisce il cuore e la sostanza, perché la bellezza ha un valore teologico e morale: è epifania di Dio, e potente incentivo per suscitare emozioni, e di riflesso decisioni, buone.

E qui ricordo che, leggendo gli Atti degli Apostoli, mi ha spesso colpito il fatto che i primi missionari evangelizzassero “esortando”, il che implica non tanto elaborare dottrine, quanto piuttosto suscitare entusiasmo, e per far questo la bellezza, e dunque anche la poesia che la traduce in una forma particolare, è un fattore cruciale.

L’autore di questo Salmo di Pasqua è un poeta francese di alta levatura, che ha scritto diverse composizioni a tema religioso. Di lui è stato detto che «è un poeta cristiano, o più esattamente un cristiano la cui opera vuole essere il compimento poetico della sua fede» (A. Aler, Jean-Claude Renard, in “Poètes d’aujourd’hui” 155, Seghers, Paris 1966, p. 5).

La Francia ha la fortuna di aver regalato al mondo grandi figure nel campo della poesia religiosa: basti ricordare qui Patrice de la Tour du Pain, Didier Rimaud, e la ricchissima e splendida produzione di inni per la liturgia creata nei monasteri cistercensi.

E, per finire, uno studio che mi fu molto utile, del domenicano Jean-Pierre Manigne, intitolato Pour une poétique de la foi (1969).

Questa nota non vuole entrare nei dettagli delle ardite metafore di cui Renard è un riconosciuto maestro. Forse è il caso di ricordare che le metafore non sono arguzie civettuole che interessano certi perditempo, ma che il trovare “connessioni” significative tra parole e immagini che a tutta prima sembrano molto distanti, apre spazi di percezione e di conoscenza che accrescono la nostra visione del mondo. È, come ricorda il grande poeta gallese R.S. Thomas (1913-2000), un modo di collaborare con il “Creatore”, e con lui, e come lui, costruire, custodire, ingrandire e abbellire il mondo.

La bellezza delle metafore

Segnalo alcune di queste metafore, che possono aiutare la lettura.

La vittoria sulla morte appare, giustamente, in testa, dato che si tratta della Pasqua. L’evento è descritto come la rottura dei sigilli, la pietra spezzata, l’invasione di freschi profumi mattutini, e tutto che punta al «potere esatto di vivere»! Quale migliore incipit per entrare nell’atmosfera di Pasqua?

Ma poi viene quella che mi pare sia l’immagine centrale, quella del “corpo”, il corpo della Pentecoste, il punto d’arrivo già preannunciato nella Pasqua che ne è la fonte generatrice. Questo corpo è la «forza che instaura e fertilizza la terra», che può «crescere e santificarla», che è quello della visione di Ezechiele 37, «corpo che raduna le sue ossa», è che si tramuta poi fino a diventare «una città di gioia» che «attende nelle città».

C’è qui, evidente, la missione della Chiesa condensata in tutti i verbi riferiti al corpo, una Chiesa che è “una città nella città”, una comunità originale, forse piccola e neanche troppo visibile, seme, sale e lievito. Ma questo comporta il coraggio di certe scelte. L’uomo è chiamato a smettere di «preferire l’inverno», a «non esitare più», a «conoscere nell’amore e amare nella conoscenza», con quella unione di ragione e sentimento così cruciale e a volte così difficile da realizzare, e soprattutto a non «rifiutare più se stesso rifiutandole».

E, infine, quello scoppio di vita che è la Pasqua, indica la traiettoria da seguire: quella indicata nella sua «vocazione», che è di «crescere» verso quell’unico grande miracolo che è la «presa di senso». Quale senso? Quello di «diventare l’Uomo», di cristificarsi in uno sviluppo verso una maturità che ha il suo punto di riferimento in Cristo (cf. Ef 4,13.24).

C’è un tema che appare qua e là, non meno importante nell’atmosfera liturgica del tempo pasquale e in rifermento al coraggio necessario per vedere il mondo con questi occhi e agire di conseguenza. È il tema della speranza, che è annunciato in una immagine che collega e unisce inizio e fine: «il seme e l’esplosione della gioia».

Può essere che certi giorni ci regalino solo il seme, da immaginare e da scoprire, altri invece una qualche «esplosione» che ci abbaglia. Ambedue sono utili a coltivare questa, che è una «speranza unica» (e come non ricordare un altro incredibile paradosso che saluta la croce chiamandola «O Crux, ave, spes unica!»?).

La singolarità di questa speranza è nelle figure che la vedono spuntare dappertutto, nelle stelle, nel granito, nell’acciaio (figure fredde e compatte), nelle grandi annate umane, a indicare il corso possente del fiume della storia, e insieme, al capo opposto «sulle colline ancora fredde questi boschi di mimose in fiore che preannunciano già la primavera».

Non aggiungo altro. Non so a quanti possa interessare, ma confesso che, ritrovando questa poesia, che è tra quelle che da anni fluttuano nella mia memoria, ho provato a guarire il senso di desolazione con cui ho vissuto una liturgia incolore, ho ascoltato, si fa per dire, un’omelia rapidamente precipitata in facili e noiosi moralismi, con solo la voglia che tutto finisse al più presto.

È stato rileggendo e gustando questi versi che ho potuto ritrovare la freschezza, il vigore, la speranza e la spinta incoraggiante che permea la liturgia pasquale.

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