Celebrare è un’arte

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liturgia

Di ars celebrandi si parla tanto, come pure di teologia liturgica, ed è giusto. Può succedere che a tanta ricchezza non corrisponda una pratica adeguata che la metta a frutto. Si teorizza tanto, ma si celebra male.

Tuttavia, perché nella vita liturgica qualcosa si realizzi, occorre avere una visione che non si risolva in puro intellettualismo, ma in un connubio che renda accessibile la percezione della forma a cui la speculazione teologica vuol condurre nella prassi concreta, nell’azione liturgica in atto.

In questo tempo di pandemia parlare di ars celebrandi può sembrare un esercizio accademico. Il vescovo Derio Olivero, che è passato attraverso il fuoco della prova, fa notare qualcosa riguardante proprio la prassi celebrativa: «Certe nostre celebrazioni scarseggiavano di dimensione simbolica, cioè della capacità di lasciare intravedere il di più». D’altronde, l’adozione del nuovo Messale comporterà un periodo in cui, con l’aiuto dell’Ordo e le indicazioni della CEI, dovremo mettere a fuoco e affinare proprio il modo di celebrare.

La “nobile semplicità” richiesta dal Vaticano II

Un testo importante di von Balthasar rimarca l’importanza del rito, dei segni, dei vari linguaggi che devono risplendere di quella «nobile semplicità» richiesta dal Concilio (SC 34) perché siano educativi della fede: «La forma non sarebbe bella se non fosse elementarmente l’indice e l’apparizione di una profondità e di una pienezza che, se presa astrattamente in sé, rimane inafferrabile e invisibile. Forma e splendore: nessuno dei due deve essere obliterato. La forma visibile non rinvia soltanto ad un mistero invisibile delle profondità, ma ne è l’apparizione, lo rivela proprio mentre, nello stesso tempo, lo nasconde e lo vela… Il contenuto non giace dietro la forma, ma in essa. Chi non riesce a vedere, a leggere la forma, non può cogliere nemmeno il contenuto. A colui al quale la forma non dà luce, rimarrà invisibile anche la luce del contenuto» (Percezione della forma, Jaka Book 1975, pag. 103).

Se splendore ci deve essere, non dipenderà certo da apparati scenografici, effetti speciali o arcaismi vari. Cristo nel suo essere incarnato in umiltà, semplicità e naturalezza è stato ed è, parole e gesti, la rivelazione dello splendore del volto misericordioso di Dio, dell’eccedenza di amore per noi.

La nobile semplicità va intesa come naturalezza, cioè «quella misura del gesto che evita le derive della sciatteria e della pomposità, dell’improvvisazione e della maniacalità, dell’inespressività e dell’enfasi, dell’improvvisazione e dell’estetismo, del ruspante e del cerimonioso e sa conferire a tutto l’impagabile incantevole seducente dono della sincerità» (Giuliano Zanchi, Rimessi in viaggio, pag. 78).

L’ars celebrandi significa aiutare l’assemblea a entrare in contatto con ciò che cercava: una parola, un climax che tocchi, se possibile, la sua situazione esistenziale, qualcosa che risuoni nel suo cuore e che soprattutto l’aiuti a percepire almeno un presagio della liturgia celeste del Risorto che intercede incessantemente per noi.

Tutti siamo convinti di ciò e sicuri di attuarlo nella pratica del celebrare: una riflessione al riguardo sarà tuttavia un aiuto a rivedere lo stile del celebrare confrontandoci con le indicazioni provenienti dalla riflessione della teologia liturgica, senza il timore di farne una questione di estetismo.

Curare l’estetica nel senso alto della parola, evita il rischio dello sgorbio, del mimo, dell’artefatto, di tutto ciò che spesso, per il desiderio di modernità e di avvicinare il presunto gusto della gente, rischia di avere poco a che fare con l’evento drammatico del mistero pasquale.

«L’arte del celebrare non ha nulla da spartire con quell’estetismo cerimoniale che rischia facilmente di essere più a gloria degli uomini che non a gloria di Dio. L’arte del celebrare nella liturgia cristiana consiste soprattutto nella verità e qualità dei segni. Come nella vita, anche nella liturgia, è veramente bello solo ciò che è vero. Pertanto, per risultare significativi, i riti, da una parte, devono conservare la loro autenticità senza essere banalizzati con un cerimonialismo che ne estenua l’originale senso umano; dall’altra, devono risultare evocativi di ciò che Dio ha fatto per la salvezza del suo popolo e ancora oggi opera nella celebrazione» (Silvano Sirboni, Come celebrare il Mistero di Cristo, 2020).

La cura della celebrazione          

Perché un’opera d’arte musicale, pittorica o architettonica coinvolgono totalmente la persona: i sensi, l’intimo sentire e la spiritualità?

Come per ogni arte, esse sono frutto di un intenso periodo di apprendistato, di raffinamento e di un’accurata attenzione all’insieme e ai particolari.

Un direttore d’orchestra prova una sinfonia prima con le varie sezioni orchestrali e suggerisce la giusta esecuzione di determinate battute, indicando il tempo giusto e la giusta espressione. Cura il fraseggio dei singoli strumentisti e della compagine orchestrale. Tutte queste attenzioni fanno sì che il discorso musicale fluisca senza intoppi in modo che sia gli esecutori sia chi partecipa all’evento si sentano coinvolti profondamente, e avvertano un senso di pienezza, di gioia interiore che è anche esperienza spirituale.

Il contenuto e la forma sotto cui esso si svela suscitano un mondo di sensazioni per cui si è condotti dalla materialità del suono ad un’esperienza trascendente: si è, ad un certo punto, sostenuti e coinvolti nell’azione comune.

L’ars celebrandi, anch’essa attenzione al particolare e all’insieme, consiste proprio nel saper iniziare l’assemblea a tale esperienza.

Ma, particolare non da poco, essa è work in progress: nessuno – come si suol dire – “nasce imparato”. Ogni arte è frutto di un lungo apprendistato nel quale ci si raffina con lo studio e la pratica: la stessa cosa vale per lo stile celebrativo che cercherà di assumere scelte e atteggiamenti umanamente e teologicamente plausibili.

Ciò significherà «attitudine a onorare la qualità del segno che ha le caratteristiche pratiche di un’arte da non lasciare all’arbitrio della sua improvvisazione esecutiva… né tantomeno a gaiamente perseguire la strada di espedienti al ribasso più vicini alla logica dell’intrattenimento che ai processi della mistagogia» (Zanchi, Rimessi in viaggio, pag. 57).

Atteggiamenti umanamente plausibili

Se si vuole formare anche liturgicamente un’assemblea, occorre curare i particolari a partire proprio dal modo di situarsi di fronte ad essa, dalla corrispondenza dei gesti con un livello plausibile dal punto di vista antropologico.

L’umanità del prete è la normale mediazione dell’opera salvifica. La naturalezza del tratto facilita la partecipazione e contribuisce a che venga più facilmente interiorizzato il senso della liturgia. Ecco allora la necessità della cura dei particolari.

Al riguardo possono essere più utili osservazioni dal vivo che una trattazione teorica: «Molti celebranti pregano alzando le mani al cielo come per arrendersi al nemico invisibile; altri spalancano le braccia come i vigili urbani di una volta sopra la loro pedana, altri le accasciano a qualche centimetro dalla mensa con pigra malagrazia» (Zanchi, Rimessi in viaggio, pag. 77), quando invece sarebbe così semplice tenere le braccia e le mani rivolte verso l’alto con naturalezza e come un atto di fiduciosa supplica e accoglienza.

A volte, si ha l’impressione che alcuni celebranti siano afflitti da un’apparente forma di lieve parkinsonismo che si manifesta con un frequente – anche se lieve – muovere le braccia, le mani, le dita, il corpo, atteggiamenti che però gli stessi non assumono nella vita quotidiana.

La stessa cosa vale per lo stile cantilenante che spesso si adotta nella celebrazione, non certo nelle relazioni quotidiane.

Tra il celebrante principale e l’assemblea c’è inevitabilmente una reciproca influenza speculare: il vissuto di entrambi si riflette e in qualche modo condiziona.

«L’essere perennemente rivolto all’assemblea – osserva Giuliano Zanchi – fa sì che ogni celebrante sia immediatamente misurato nella verità corporea dei gesti che singolarmente incarna… Rivolto verso il popolo, il celebrante di oggi è costretto a metterci letteralmente la faccia rimanendo perciò costantemente esposto all’immediatezza di una decifrazione degli sguardi inevitabile e spietata, immediata e chirurgica, per le virtù di trasparenza di quella straordinaria macchina della verità che il corpo umano, luogo di trasparenza persino dei tentativi di dissimulazione delle intenzioni che lo abitano, anche quelle subliminari.

Si percepisce immediatamente se, celebrando, un ministro consuma gesti e parole nell’enfasi, se tiene semplicemente una parte, se segue meccanicamente una sequenza di funzioni, se è inibito, se è sbrigativo, se veicola convinzione, se incarna autenticità, se trasmette imbarazzo, se comunica agitazione, se manifesta presenza, se tradisce distacco o se sta veramente in quello che fa. Una immediatezza corporea che mette alla prova anche l’assemblea celebrante che la riforma ha cercato di sottrarre alla sua passività, ma che proprio per questo, per essere state reintrodotta in uno spazio di interazione, non può non evitare di mostrarsi per quella che è, nella tonalità complessiva dell’intero e nell’atteggiamento proprio degli individui» (Rimessi in viaggio, pagg. 58-59).

I riti dalla presentazione dei doni fino alla comunione vengono celebrati leggendo dal Messale posto di lato e quindi con la testa girata verso di esso. Sistemarlo davanti, a portata immediata di vista, farebbe sì che il celebrante possa avere lo sguardo rivolto verso l’assemblea mentre prega con essa, specie nelle parti che si sono ben memorizzate col tempo.

In questo tempo di pandemia è stato sospeso lo scambio della pace per le giuste precauzioni; nulla vieta però di poterci augurare il dono della pace con uno sguardo sorridente e con un lieve cenno della mano. Aver fatto questa scelta con sobria ed equilibrata creatività, ha fatto sì che l’assemblea, riunita a metà maggio e vistosamente rattrappita, si distendesse in serenità e ritornasse a sentirsi comunità fraterna e non più solo volti distanziati e coperti dalla mascherina.

La teologia sacramentaria è chiamata in causa

La responsabilità di chi presiede la celebrazione dei sacramenti riguarda anche il campo teologico. Cosa dire di certi modi di celebrare il momento del racconto dell’ultima cena e delle parole della consacrazione?

Si va da un estremo all’altro. C’è chi tratta questo segmento importante liturgico con una certa disinvoltura nella pronuncia delle parole e nei gesti all’apparenza poveri di un minimo di solennità e di partecipazione, sollevando fugacemente l’ostia e il calice.

Altri, invece, pronunciano le parole della consacrazione in maniera non tanto dissimile da quelli che, nel passato, dicevano: Hoooooc eeest…, avvicinando la bocca al pane e al calice quasi fossero parole magiche.

Come quelli del passato, poi, elevano al massimo pane e vino indugiando a volte eccessivamente in questo gesto e nella genuflessione che segue.

Questi sono momenti da celebrare certamente con intima partecipazione che si traduce in una pronuncia calma e riverente e in una ostensione al contempo sobria e adorante.

Perché queste osservazioni? Qui è chiamata in causa la teologia sacramentaria.

La pur necessaria sistematizzazione teologica riguardante l’eucaristia avvenuta nel Medioevo di fatto «ha progressivamente spostato l’attenzione dall’azione alla parola e dalla parola all’essere. In un certo senso, le parole della consacrazione con il loro altissimo valore di autorità – sia sul piano dottrinale sia sul piano disciplinare – si sono sostituite all’azione (ossia ai ritus et preces, per esprimerci secondo Sacrosanctum concilium). Ciò che Gesù ha fatto (comandando hoc facite è stato ricondotto e ridotto gradualmente a ciò che Gesù ha detto (hoc est). Ciò ha avuto come conseguenza il fatto che il rito della consacrazione ha assorbito in sé l’intero rito eucaristico». Tutto questo era gradualmente avvenuto col tempo e si verificava nel passato.

«La delicata mediazione simbolica dell’azione è stata rimossa nella teoria e irrigidita nella pratica». La memoria del Signore «non consiste tanto nella ripetizione di un nucleo minimale di parole autentiche sulla materia del pane e del vino, quanto nella ripetizione articolata di un prendere- ascoltare, di un rendere grazie-benedire, di uno spezzare-distribuire e di un condividere, di un mangiare e di un bere che istituiscono, nella loro integralità e complessità, la piena fedeltà al mandato» (A. Grillo, Eucaristia. Partecipazione attiva, ars celebrandi e nuova teologia eucaristica, Queriniana 2019, in particolare da pag. 376. Tutto il trattato ovviamente aiuta efficacemente a entrare nella nuova ottica teologica e liturgica).

«Le parole di Gesù non sono dite questo in memoria di me, oppure meditate, annunziate, lodate quanto si è compiuto, ma fate» (R. Guardini, Il testamento di Gesù, pag. 24).

Implicazioni di teologia fondamentale: per un “Dio plausibile”

Dalla predicazione e dal contesto della celebrazione deve apparire un Dio che mostra il suo volto nel Crocifisso e la sua potenza nella misericordia che è eccesso di amore e umiltà: “un Dio capovolto”.

Le celebrazioni liturgiche (battesimi, messa festiva, matrimoni, funerali…) sono per molti l’unica superficie con cui essi vengono a contatto con la Chiesa che si esprime concretamente in quel momento e in quella comunità, mettendo in gioco la credibilità.

L’uomo comune, reduce da una settimana faticosa e gravato dai suoi problemi, che idea di Dio può farsi, quale impressione di Chiesa e quale alimento per la fede può trarre da celebrazioni dalle quali traspaiano problematiche autoreferenziali, toni moralistici, una visione di Dio che non corrisponde al suo vero volto?

Chiesa in uscita significa anche mostrare in queste circostanze che Dio “non è come credi”.

È arte di fare teologia senza averne l’aria, un po’ come fa papa Francesco, cosa di cui si avverte l’esigenza «nella fiera fin troppo variegata dell’odierno mercato religioso, come in quella talvolta eccessivamente sicura e cinica dell’incredulità, in cui ci sono immagini di Dio monarchiche e faraoniche, rachitiche e fredde, superstiziose e antimoderne, che oscurano Il vero volto di Dio rivelato da Gesù Cristo… Riconciliarsi con Dio, distruggendo le immagini negative o oppressive di lui che nel tempo hanno riempito di cenere le braci della fede, è il cuore della grande avventura spirituale nei nostri giorni» (Francesco Cosentino, Non è come credi).

Dall’insieme Dio deve apparire come colui che vuole la piena realizzazione dell’umano che è manifestazione della divinizzazione che egli vi opera.

Arte del celebrare da parte dell’assemblea

Rendere partecipe un’assemblea è mantenere la distanza dall’ansia di prestazione e di perfezionismo, liberandosi dall’idea che partecipare significhi impegnare la maggior parte dei fedeli in un’azione diretta per far fare qualcosa a tutti, trovare per ciascuno un ruolo.

Si tratta piuttosto di aiutare i fedeli a inserirsi nella celebrazione con atteggiamenti umanamente consoni alla circostanza, come avviene in altri contesti.

Romano Guardini, uno dei padri del movimento liturgico, non disdegnava di scendere nei particolari quando si trattava di formare i fedeli ad una giusta partecipazione.

In chiesa, per fare un esempio, si può tranquillamente giungere in sistematico ritardo distraendo e attirando l’attenzione su di sé: nessuno si sognerebbe di arrivare in ritardo ad un concerto per pianoforte attraversando la platea in cerca di un posto, distraendo il pubblico e deconcentrando l’artista.

Occorre poi educare quelli che, durante la celebrazione, svolgono un ruolo perché lo facciano con discrezione e semplicità, così da non orientare l’attenzione su di sé.

Richiamerebbe l’attenzione indebita su di sé, per esempio, il lettore che si avviasse all’ambone durante la Colletta: il suo comportamento sarebbe simile ad un attore che, chiamato ad entrare in scena dal dialogo in corso, lo facesse anzitempo o in ritardo.

Uguale disagio provocherebbe chi, dovendo proporre le invocazioni alla preghiera dei fedeli, indugiasse troppo a muoversi, creando un vuoto e un’attesa eccessivi, o lasciasse il suo posto mentre il celebrante sta concludendo con la preghiera finale.

Questi e altri atteggiamenti umanamente scadenti abbassano il tono della celebrazione, alla stessa maniera di uno strumentista che, nell’esecuzione di una sinfonia sbagliasse qualche nota, o della compagine che andasse fuori tempo, compromettendo l’equilibrio e creando disagio nel pubblico.

Anche il modo di pregare il Padre nostro rientra fra i compiti dell’educazione dell’assemblea celebrante. Se è una frettolosa declamazione, il segno viene da essa depotenziato: non orienta né al significato delle parole né a Colui al quale intendiamo rivolgerci con quelle parole.

Al contrario, una declamazione non frettolosa e ben scandita, in cui c’è coinvolgimento, fa sì che ci si lasci orientare dalle parole che conducono dritto ad un rapporto sentito con Colui a cui sono indirizzate, con una densità di sentimento consapevole, orientato anche dalla breve introduzione che metta a fuoco, se fosse il caso, un riferimento alla Parola del giorno.

Al riguardo, si può anche notare che «molti dei gesti delle nostre liturgie sono tendenzialmente formali nel senso di autoreferenziali, oppure infantili, come quando ci diamo la mano durante il Padre nostro. Questo gesto, nella vita affettiva, è tipico degli innamorati o dei bambini: per un adulto normale è troppo o troppo poco» (Morra – Ronconi, Incantare le sirene, pag. 44).

Si educa al silenzio vivendo i momenti di silenzio previsti dalla sequenza rituale. Senza tante spiegazioni, si lascia che il rito educhi alla preghiera e al raccoglimento che favoriscono il coinvolgimento personale, l’intima e non formale partecipazione ad esso.

Si farà capire, con garbo, quanto sia disdicevole il brusìo che accompagna sempre certi momenti della celebrazione (è un mistero quello che certi fedeli hanno da dirsi, per esempio, nell’atto di sedersi o di alzarsi, alla presentazione dei doni, al momento della comunione).

L’arte del celebrare col canto

Questo periodo di pandemia, con conseguente riduzione di presenze in chiesa di fedeli e di animatori, può offrire l’occasione per un ripensamento e un ridimensionamento del canto liturgico.

Si tratta di saper scegliere un repertorio che non sia solo polifonia compassata e alla fine monotona e tale da tagliare fuori il popolo, e nemmeno musichette effimere, fatte spesso solo di note piene di vuoto, scelte con l’idea di intercettare i gusti e le tendenze diffuse.

Tuttavia, nulla di più azzeccato e commovente dello struggente Adagietto della Quinta di Mahler – musica non proprio congeniale ai gusti correnti, ma di altissima espressività – che Luchino Visconti scelse come colonna sonora per Morte a Venezia, al fine di rendere quel sentore di imminente fine di un’epoca, di un’illusione e di un’esistenza.

Ennio Morricone aveva la capacità di comporre musiche perfettamente adatte alle atmosfere di ogni film.

Non si può commentare con una banale canzonetta un filmato su Auschwitz.

I canti, una sorta di colonna sonora per la liturgia, devono quindi essere cuciti addosso alla specifica liturgia e al momento liturgico e non a prescindere da essi: «Il canto sacro legato alle parole è parte necessaria e integrante della liturgia solenne» (SC 112).

C’è tutto un repertorio che sa sposare bene la melodia con parole ispirate alla Parola e adatte ai vari momenti rituali, unendo buon gusto ed equilibrio dettati dalla consapevolezza del mistero e dalla gioia per l’incontro col Signore. Anche per i canti vale la «regola d’oro: cantare ciò che conviene e come conviene» (Gelineau). Il problema è nella scelta su cosa convenga.

Queste attenzioni eviteranno che «la vita cristiana si avvii verso un declino estetico senza remissione» (Zanchi).

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