Il Cielo, la città della Gloria

di:

Il Cielo come città verticale

Gerusalemme, luogo di nascita. Il Salmo 87, affermando che «tutti là siamo nati», presenta dinanzi agli occhi dei credenti di tutti i tempi un ideale di unità storica (culturale e di civiltà), ma anche di destino eterno.[1] «Tutti là siamo nati», afferma il Salmo 87. Ma, dove «siamo nati», «tutti»? Qual è quel “luo­go di nascita” protologico, ossia qual è la “patria” originaria in cui abbiamo formato una unità prima della dispersione e che, oltre la dispersione (ma senza distruggere il pluralismo!), può esigere, motivare, orientare, sostenere una cultura della riconciliazio­ne, della reciprocità, della convivenza?

Nel 1982, per la tradizionale Settimana ecumenica di gennaio, fu scelto come tema di riflessione e di pre­ghiera il Salmo 87 (vv. 4-7): «In te tutti trovano la loro casa». La scrittura del sussidio di preparazione a quella Settimana per l’unità dei cristiani venne affi­data ad un gruppo ecumenico del Kenya. Il docu­mento iniziava con queste parole: «Questo testo ci ricorda che la città santa di Sion è vista co­me il luogo in cui tutte le nazioni trovano la loro casa. […] Il Sal 87 trova il suo pieno senso in Cristo, il nuovo tempio, in cui ogni popolo e ogni cosa sono riconciliati. La sua umanità è il luogo in cui ogni popolo tro­va la sua casa, il tempio da cui sgorgano le sorgenti d’acqua viva che si effondono su tutta l’umanità».

Già ora, nel tempo, la Chiesa è oriens ex alto: è Chiesa dalla Trinità, è Città che scende dall’alto e ha per missione di portare all’alto di Dio. La comunione, che è l’essenza della Chiesa, infatti, scende dal cielo e la vita nuova non nasce “dal basso” per un’iniziativa puramente umana. Prima di avvenire, viene. È dono, è grazia, perché  è la misteriosa partecipazione all’amore condiviso ab aeterno dalle tre Persone della santa Trinità. Amore gratuitamente comunicato agli uomini: fonte inesauribile di gioia, di pace, di vita.

L’ecclesiologia contemporanea, suscitata dal Vaticano II, si pone nella scia di questo paradosso: la Chiesa è un popolo radunato dall’atto vocazionale del Padre, dall’alto della Croce del Figlio, dal Cielo squarciato di Pentecoste. La Chiesa non è sorta nella storia per iniziativa umana, ad esempio da circostanze sociologiche e religiose favorevoli, ma dalla parola di Dio, da tutti i misteri di Cristo e dall’evento pentecostale: non si dà, pertanto, ecclesiogenesi se non si comprende in questa parola, oltre che il “da basso” della partecipazione umana all’agire di Dio, anzitutto il “dall’alto” di tale iniziativa.[2] La Chiesa non è nostra, ma di Dio.[3]

La Gerusalemme celeste, Città del “destino” ultimo. È impressionante, per essere assai sorprendente, un’affermazione dell’Apocalisse sulla Chiesa: «Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. […] L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio» (21,2.10). Si tratta, perciò, di una Città opposta alle nostre che nascono dal basso verso l’alto. La Chiesa è una Città che non viene costruita dal basso, come avviene per le città degli uomini, ma è una Città donata, una Città verticale. «Gerusalemme» è il simbolo permanente del de­stino di grazia di tutte le genti.

Essa è, in particola­re, il simbolo dell’universale unità degli uomini e dei popoli: «Una lettura dei lxx nel v. 5 [del Sal 87] fa sì che Sion appaia come madre di tutti i popoli, men­tre, sulla scia di Ezechiele che considerava Gerusa­lemme ombelico e centro del mondo (5,5; 38,12), sembra che anche il nostro Salmo veda la città santa come capitale del mondo, come la capitale religiosa dell’intera mappa del pianeta. La maternità universale di Gerusalemme, principio di cancellazione del­la maternità universale babilonica, fonte di frattura (Gn 11), comporterebbe una specie di partecipazio­ne planetaria al culto mosaico e alla salvezza».[4]

La simbologia del Salmo 87, che si richiama alla simbologia dei Salmi 46 e 48, presenta Gerusalemme come città aperta alle quattro dimensioni del mon­do: l’Ovest (simboleggiato da Rahab, l’Egitto super­potenza occidentale); l’Est (simboleggiato da Babel, superpotenza orientale), il Nord (simboleggiato da Tiro, cioè la Fenicia, potenza commerciale (cf. Sal (83,8), il Sud (simboleggiato da Cus, l’Etiopia, il profondo meridione [cf. Sal 68,32]).

Aperta planeta­riamente, Gerusalemme è collegata anche verticalmente con Dio: i «monti santi» sono l’intersezione assiale fra terra e cielo. Questa «città del Dio viven­te» (Eb 12,22) è residenza dell’intera umanità: «Tutti i popoli vi si raduneranno» (Ger 3,17). In Sion tutti i popoli hanno la loro registrazione anagrafica in un «libro» che è quello della vita (cf. Es 32,32-33; Is 4,3; Ger 17,13; Dn 7,10; Ap 20,12), il cui fedelissimo custode e incontestabile arbitro è lo stesso JHWH.

Lo splendore della Città futura

La bellezza trinitaria della Gloria futura. Bella l’origine dell’uomo, bello il frattempo (proprio perché segnato dalla Croce), bello è anche il suo futuro ultimo. Del resto, le premesse, anche in questo caso, creano la conclusione. Proprio alla fine il cristianesimo esprime il meglio di sé: lì verifica ciò che crede, ciò che ama, ciò che spera. Questo futuro d’infinita bellezza e senza fine nel cristianesimo è annunciato e creduto come futuro comunitario, oltre che singolare:[5] è un futuro di gloriosa bellezza della Chiesa, della famiglia umana, della creazione.

La bellezza si lega in modo decisivo alla risurrezione-elevazione-glorificazione che Dio prepara per ogni uomo che lega la sua esistenza a quella del Cristo, affidandosi all’opera plasmatrice dello Spirito, per la cui azione anche la carne riceverà, nella risurrezione, la trasformazione innovatrice: allora «tutto l’uomo deificato» potrà «aderire all’eterna e immutabile Verità».[6]

In tal modo verrà ricomposta la proporzione armonica fra Cristo e noi nell’esperienza dell’unica risurrezione, prima quella di Cristo, poi anche la nostra: «Così anche il corpo avrà vigore in virtù del Figlio di Dio, perché tutto esiste per mezzo di lui».[7] In tal modo Dio opererà tale rinnovamento, creando un’opera d’arte d’ineguagliabile bellezza: con la sua «meravigliosa onnipotenza», riuscirà a compiere questo abbellimento in modo sublime. Se già un artista umano è capace di trasformare una statua malriuscita in un’altra, bella e della stessa grandezza, «che cosa si deve pensare dell’Artista onnipotente?».[8]

La Città del Cielo, bella perché amata da Dio. La bellezza confonde la sua sorte con quella dell’amore; bellezza e amore si richiamano, si completano, si controllano, per così dire: se c’è l’uno c’è anche l’altra, e viceversa. Se la bellezza suscita l’amore, questo, a sua volta, ricambia la bellezza amata con un insopprimibile inno di glorificazione.

Sion, la Città amata da Dio e dal suo popolo, è «perfetta in bellezza» (Sal 50,3), come un ulivo rigoglioso e di bello aspetto (cf. Ger 11,16); e quando dalle rovine risorgerà rinnovata, essa sarà «una magnifica corona nella mano di Jahvè, un diadema regale nella palma del suo Dio»: tutti i re vedranno la sua gloria, ed essa sarà «un vanto per la terra» (Is 62,2-7). I segni di bellezza della Gerusalemme post-esilica, gli sprazzi di gloria riflessi su di lei profetizzano la Gerusalemme messianica e celeste:

«Alzati, rivestiti di luce,
perché viene la tua luce,
la gloria del Signore brilla sopra di te…
Il sole non sarà più la tua luce di giorno,
né ti illuminerà più
il chiarore della luna.
Ma il Signore sarà per te luce eterna,
il tuo Dio sarà il tuo splendore» (Is 60,1-2.19).

Un popolo di figli glorificati per sempre. La profezia di Isaia è rilanciata da Giovanni, che vede la Città futura, la nuova Gerusalemme, popolata da figli di Dio splendenti della gloria scaturente dall’amore di Dio per loro. Il Cristo non s’accontenta di restituire ai discepoli della sua Chiesa la veste dell’innocenza che ricopriva la nudità dell’Eden: la gloria cui egli li chiama trova negli splendori descritti dell’Apocalisse l’espressione d’un nuovo, più ineffabile rivestimento che possiamo osare di qualificare come comunque riferentesi alla loro condizione salvifica più elevata che è l’essere stati fatti figli in Cristo (si tratta, allora, della bellezza della “veste filiale”).[9]

Nell’abbagliante corteo di coloro che hanno seguito il Cristo fino alla morte, il Verbo di Dio s’erge vittorioso, splendente nel manto della sua sanguinosa vittoria sul male e come testimonianza dell’«amore più grande» (cf. Gv 15,13) per il Padre e per gli uomini:

«Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa,
che nessuno poteva contare,
di ogni nazione, razza, popolo e lingua.
Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello,
avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani» (Ap 7,9).

La Città futura scorta da Giovanni in tutta la sua bellezza, «pronta come una sposa adorna per il suo sposo… Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino» (Ap 21,2.11). Essa è rivestita della gloria di Dio, che nessuna impurità può sfiorare: «La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello» (Ap 21,23). La Città futura sarà piena della gloria di Dio e non potrà essere in alcun modo più insidiata la sua bellezza innocente e purissima: «Non entrerà in essa nulla d’impuro» (Ap 21,27).

“Destinati” alla bellezza eterna. In Cielo saremo «con bellezza presso la Bellezza»,[10] al cospetto dell’«infinita bellezza divina»;[11] allora sarà proprio l’eternità a diradare le ultime ombre dal nostro godimento della bellezza. Alla fine, oltrepassato il tempo del lavoro, della ricerca, delle intraprese umane e il loro corredo di gioie, di tristezze e di fatica, resterà solo l’amore che scaturisce dalla visione della divina bellezza (cf. 1Cor 13,8). Questa visione di gloria è la consacrazione eterna dell’esistenza vissuta nella grazia, nelle virtù e nello spirito delle beatitudini: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8).

La gloria eterna non sarà concessa a esteti estroversi né a edonisti introversi, ma a quanti coltivano la bellezza interiore e fanno risplendere la loro luce davanti agli uomini perché sia glorificato il Padre dei cieli (cf. Mt 5,16).

Il “frattempo” è l’allenamento alla gratitudine, alla contemplazione della bellezza che, per la distesa dei giorni, Dio irradia sulla creazione perché questa sia strada sicura che porta alla gloria. La bellezza sperimentata nella fragilità del tempo è allusiva della bellezza futura, ma questa sarà profondamente diversa: essa si porrà tra continuità e discontinuità con l’esperienza che se ne fa durante la nostra condizione pellegrinale.


[1] Cf. M.G. Masciarelli, La tenda planetaria. Educare alla mondialità, Tau Editrice, Todi (PG) 2015.
[2] È vero che la Chiesa opera la plantatio Ecclesiae – secondariamente, ma inevitabilmente – unitamente al suo principale atto missionario che è la plantatio Regni e che, la plantatio Ecclesiae è, in un certo senso, l’ecclesiogenesi, ma resta da precisare che la plantatio Regni oltrepassa e supera la plantatio Ecclesiae, in quanto il Regno è più della Chiesa e questa del Regno è solo «il germe e l’inizio» (cf. Concilio Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 5).
[3] Va sempre tenuto presente dinanzi agli occhi dei credenti che la Chiesa è di Dio: l’onomastica biblica, con i suoi molti genitivi di appartenenza, ce lo ricorda; la Chiesa è: il campo di Dio (cf. 1Cor 3,9), l’edificio di Dio (cf. 1Cor 3,9), Chiesa di Dio (cf. 1Tm 3, 15; cf. 2Esd 13,1; Nm 20,4; Dt 23, 1ss.), Chiesa di Cristo (cf. Mt 16,18), tempio dello Spirito (cf. 1Cor 3,16), corpo di Cristo (cf. Ef 4,12), popolo di Dio (1Pt 2,19) cf. Concilio Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 6.
[4] G. Ravasi, II Libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, vol. 2, Dehoniane, Bologna 1983, p. 701.
[5] Cf. Concilio Ecum. Vat. II, Cost. domm. Lumen gentium, Cap. VII.
[6] S. Agostino, Discor­so 166,4.
[7] S. Agostino, La vera religione, 12, 25.
[8] S. Agostino, La città di Dio, XXII, 19,2.
[9] Nell’Apocalisse la veste è il segno di riconoscimento dei martiri (Ap 6,11), ma è anche il distintivo della folla immensa che nessuno poteva contare (Ap 7,9.13-14) e l’abito di coloro che vogliono mangiare dell’albero della vita (Ap 22,14). Nell’Apocalisse la «veste-stolê» è anche il simbolo della dignità filiale, anzi, della pienezza della sua dignità: è il segno visibile del popolo del regno di Dio, in cui ora è riammesso il figlio ritornato da «un paese lontano» (Lc 15,13) alla casa del padre che ancora lo ama e lo amerà per sempre. Il Cielo è la casa del Padre alla quale si torna sempre come ‘figli prodighi. Il padre fa sue le parole del salmista che esprimono molto bene la sua condizione e la sua gioia: «Hai mutato il mio lamento in danza, / la mia veste di sacco in abito di gioia, perché io possa cantare senza posa» (Sal 30,12-13).
[10] S. Agostino, La quantità dell’anima, 35,79.
[11] Concilio Ecum. Vat. II, Cost. Sacrosanctum Concilium, n. 122.

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