Domenica di Pasqua

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Scrivo sostenuto dalle note di una delle più belle cantate di Bach, la n. 4 per la Pasqua, composta su un corale di Lutero che inizia con il verso Christ lag in Todesbanden (Cristo giaceva nelle bende della morte), e con una melodia basata sul gregoriano della sequenza Victimae paschali laudes, fortunatamente preservata nel nuovo Messale. Ho utilizzato più di una volta questa cantata, testo e musica, in occasione di ritiri in preparazione alla Pasqua.

Mi chiedo perché le nostre catechesi siano fatte quasi sempre solo di parole, non sempre luminose, a volte decisamente stucchevoli, ignorando il potenziale straordinario che secoli di tradizioni musicali, letterarie e artistiche ci hanno consegnato.

La n. 4 è stata la prima delle cantate di Bach che mi è capitato di sentire (ero al mio primo anno di sacerdozio). Non me ne sono separato più, ho comprato tutte le altre (ne scrisse più di 295, di cui più di 200 giunte a noi), alcune anche in più versioni, e me ne nutro costantemente, così come faccio con tanti salmi e altri testi biblici, convinto come sono, per sperimentarlo di continuo, che le note possono trasmettere come commento al testo molto di più di volumi di sottili esegesi.

La Pasqua è la festa di un trionfo dopo lo strazio di una morte atroce, la scoperta che il vero trionfo alla fine è quello della vita, e come si può celebrare un trionfo senza la musica? Mi chiedo, per fare un esempio più noto, come trasmettere l’esplosione di una vita che rovescia la pietra di un sepolcro incapace di trattenere la sua preda meglio del poderoso Hallelujah del Messia di Handel?

Ma la sequenza pasquale mi ha suggerito un altro accostamento: il Quem vidisti, Maria? che – come è noto – pare sia la cellula che ha generato il grande teatro religioso medievale, mi ha fatto pensare ad un analogo interrogativo, il Quem vidistis, pastores? che caratterizza la liturgia del Natale. E come sorprendersi dalla connessione naturale e antica tra Natale e Pasqua, tra una nascita che già preannuncia una morte, e una morte che finisce per essere una nascita?

Già quel grande predicatore anglicano, Lancelot Andrewes, con la sua finissima attenzione alle parole che sa scavare in ogni anfratto, aveva marcato in un sermone per il Natale che è il Cristo stesso a creare tale rapporto, dato che esso è insito nella sequenza cratch, Christ, cross (greppia, Cristo, croce) ove l’allitterazione delle tre parole chiave legano Betlemme e il Golgotha.

Finezze per linguisti? Non credo proprio. Semmai il frutto di un’attenzione che passa dalle parole per arrivare alla testa e al cuore, e Dio solo sa quale sforzo dobbiamo fare ai giorni nostri per “preservare” la serietà e la densità delle parole nel cicaleccio imperante che ne minaccia la funzione di trasmettere verità e senso. Il CD mi sta offrendo ora la Cantata n. 6, la Bleib bei uns (Rimani con noi) per la sera di Pasqua, che ha per protagonisti i due di Emmaus, e prego perché il restare con noi di Gesù ci preservi dal precipitare nella notte di una Babele linguistica che sta distruggendo la stessa possibilità di una comunicazione ricca, vera, e soddisfacente.

Divago? Non penso, e vengo subito a quanto propone la liturgia della domenica di Pasqua. Parole, si diceva. Quelle dei «testimoni» (At 10,39), gli stessi che, come i pastori e Maria sopra evocati, sono chiamati a render conto di ciò che hanno visto e, insieme, di quello che hanno capito (cf. Lc 1,2), dato che in questo caso “vedere è comprendere”.

Per primo Pietro, che, in casa del centurione Cornelio, riassume così la vita di Gesù: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea dopo il battesimo predicato da Giovanni, cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,37-38).

Quattro volte nel brano della Prima Lettura ricorre il termine “testimone” o derivati, ma testimoni di che cosa? Della morte e risurrezione di Gesù, e insieme di una vita, la sua, passata «beneficando e risanando», un’azione che continua e diventa eterna grazie proprio alla risurrezione e che si materializza nel “perdono dei peccati”.

La gioia che viene da questa promessa è che siamo liberati da un potere malefico per passare sotto un potere benefico, dal diavolo a Gesù: è questa la nostra risurrezione.

La Lettera ai Colossesi (Col 3,1-4) descrive così la mutata situazione, che è poi il vivere da risorti: cercare e pensare le «cose di lassù». Vuol dire che il credente deve vivere con la testa fra le nuvole e ignorare la «cose della terra»? Non proprio.

Se si va a vedere il contesto, si scopre che le «cose della terra» sono prescrizioni alimentari, «feste, sabati e noviluni», «culto degli angeli» e altre osservanze che «sono prescrizioni e insegnamenti di uomini, che hanno parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non per soddisfare la carne» (Col 2,16-23), che è quanto dire il proprio orgoglio.

Per capire, si parla qui di precetti esteriori, facili da controllare e da mostrare, che fanno sentire facilmente in regola, e portano a condannare in modo spiccio chi non li osserva. Fare così significa entrare in un’angusta strettoia morale che è tutto il contrario di quella libertà vera di un cuore gioioso che sa lasciarsi guidare dal vero amore, quella che la risurrezione di Gesù mostra, offre e garantisce. La contrapposizione tra terra e cielo è, infatti, la stessa di quella altrove stabilita tra carne e spirito, come è detto subito dopo: «Fate morire, dunque, ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi, e quella cupidigia che è idolatria» (Col 3,5).

È l’esatto contrario di un programma di vita che recita: «Scelti da Dio, santi ed amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri. […] Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto, e la pace di Cristo regni nei vostri cuori. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti spirituali, cantando a Dio nei vostri cuori» (Col 3,12-17).

Mi chiedo perché il Lezionario non abbia scelto di prolungare il testo fino a comprendere questa seconda splendida sezione (ma suggerirei di farlo almeno nell’omelia…), che elenca come meglio non si potrebbe cosa siano le «cose del cielo», e cosa significhi «vivere da risorti». E trovo molto bello che, tra gli “ingredienti” segnalati, faccia la sua bella presenza il “canto”!

Per la lettura evangelica il Messale indica ciò che accadde il mattino del primo giorno della settimana in Gv 20,1-9, ma lascia la possibilità di scegliere Mc 16,1-7, che forma la finale del secondo vangelo, dove però è stata eliminata la fuga delle donne spaventate dall’annuncio che ricevono. Se si sceglie questo brano, penso che sarebbe meglio lasciare il testo intatto. Che cosa c’è di strano, alla fine, nel fatto che nasca spavento e stupore in chi trova che la tomba è vuota, con in più l’annuncio che colui che credono morto è vivo, e li aspetta da un’altra parte?

È il minimo che ci si possa aspettare, e non sarebbe male se riuscissimo a ricostruire in noi un po’ di questo sentimento, perché una fede che non presenta più sorprese forse è diventata piatta e scontata e non provoca più niente.

Se poi si sceglie il brano di Giovanni, si può mettere a fuoco la figura del «discepolo amato», che, a differenza di Pietro, «vide e credette», probabilmente perché fu il suo cuore a rendere il suo occhio più acuto, come accadrà nell’apparizione sul lago (Gv 21,7).

Noi oggi crediamo per le parole che abbiamo udito, che ci trasmettono la “testimonianza” degli apostoli. Ma all’occhio non è negato il bisogno di “vedere”. Sono i miracoli che si “vedono” in chi con generosità smisurata ed eroica vive la risurrezione nella sua vita. A questa testimonianza, di qualsiasi misura essa possa essere, siamo chiamati tutti.

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