Fare Pasqua: riconoscersi Corpo di Cristo

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Analogie tra il Triduo pasquale e la messa domenicale

Proviamo a mettere insieme le cose. Nel nostro avvicinarci alla Pasqua, permettiamo alla coscienza pasquale di gettare luce sulla eucaristia e, viceversa, alla celebrazione eucaristica di illuminare la Pasqua.

1. La mia “scoperta” nella Domenica della Passione del Signore

Sieger Köder, Ultima cena

Sieger Köder, Ultima cena

Che cosa mi è accaduto domenica scorsa? Durante la celebrazione del Passio e poi durante la preghiera eucaristica ho avuto molto netta la sensazione – per la prima volta con tanta evidenza – di una “struttura rituale” che è tutta volta alla azione di “comunione”, e che appare chiara nella messa domenicale come nella settimana santa. Tutto tende al “corpo di Cristo ecclesiale”. Che si compie “alla fine della messa” e “alla fine della settimana santa”. Questa è l’idea. Idea semplice e diretta, ma anche nascosta e difficile da far emergere alla coscienza e alla evidenza. Molte cose si oppongono, direttamente o indirettamente, ad essa. Una lunga storia, solcata da feroci polemiche; una prassi continua e divergente; anche una spiritualità e una abitudine; persino alcune nostre virtù alimentano questa incomprensione. Ma domenica scorsa ho “visto”, plasticamente, questa evidenza, che pure avevo studiato, scritto e commentato, ma mai avevo vissuto con tanta forza. Provo allora a mettere in fila gli elementi che riconosco come “fonti” di questa nuova e fortissima evidenza. Può essere utile farlo non solo per rendersi conto di ciò che si vive, ma per dare anche agli altri alcuni strumenti affinché possano a loro volta entrare in questa evidenza – o lasciarsi iniziare dalla Pasqua e dalla messa.

2. Due parole antiche di S. Agostino: una salutare provocazione

Ci sono due “affermazioni” di S. Agostino che metterei sullo sfondo a tutto il discorso, che hanno “lavorato” in me da lungo tempo: nella loro icasticità ci aiutano ad entrare in una logica più ricca e più profonda, della Pasqua come della messa. Una prima affermazione descrive in modo lapidario il “triduo pasquale”, definendolo «triduo del Signore crocifisso, sepolto e risorto». Nel cuore del tempo si inserisce questa “perla” che unifica morte, sepoltura e vita eterna. Tale affermazione mette in crisi tutte le ricostruzioni medievali e moderne del triduo, che lo “duplicano”, creando un “triduo della passione” e poi un “triduo della resurrezione”. Gran parte della nostra spiritualità, della nostra arte, della nostra liturgia si è costruita intorno a questa ipotesi di separazione/opposizione tra morte e risurrezione. Ne abbiamo piene le città, le case, le menti e i cuori.

Ma una seconda parola, di Agostino, aggiunge un altro profilo a questa lettura: Agostino, infatti, chiamava la «pasqua settimanale» – diremmo la messa domenicale – «transitus Christi» (pasqua di Cristo), mentre definiva la “pasqua annuale – ossia il Triduo Pasquale – «transitus christianorum» (pasqua dei cristiani). Questa definizione sembra capovolgere la nostra percezione, che fa piuttosto della pasqua annuale una correlazione diretta con Cristo, e della messa domenicale anzitutto un “precetto dei cristiani”. Agostino inverte la logica, ma lo fa sulla base di una lettura della Pasqua che trova nel Triduo, appunto, la sua origine.

3. La riscoperta del Triduo come “gradualità” attraverso la memoria/narrazione verso la “Pasqua ecclesiale”

Nella tradizione medioevale, e poi largamente in quella moderna, l’assetto della Pasqua si era adattato – come dicevo – ad un “doppio triduo” (quello della passione e quello della risurrezione) che avevano generato un fenomeno assai problematico, ossia la separazione quasi irrimediabile tra croce e sepolcro vuoto. Un’intera epoca di rappresentazioni e di azioni, di immaginari e di spiritualità, di pratiche e di devozioni, da alcuni decenni può iniziare ad essere riletta e riformulata, sulla base di una lettura più profonda e più potente.

Infatti, la coscienza della centralità e della unità del Triduo pasquale è gradualmente riemersa negli ultimi 70 anni. Anche quando il sacro Triduo venne valorizzato, come nel nuovo Ordo del 1955, esso appariva semplicemente equiparato agli «ultimi tre giorni della Quaresima» ed era costituito dal Giovedì, Venerdì e Sabato santo. Cominciava la mattina del giovedì e finiva con i vespri del sabato, lasciando fuori la Domenica di risurrezione.

Solo nel 1969 si giunge alla celebrazione attuale: il Triduo cambia nome (non più sacro Triduo, ma Triduo pasquale), cambia “logica rituale” e “ermeneutica teologica”. La logica rituale considera il Triduo come tre giorni, contando da tramonto a tramonto: dalla Missa in Coena Domini del giovedì sera alla sepoltura (primo giorno), dal tramonto del venerdì a quello del sabato (secondo giorno), dalla veglia pasquale ai vespri della Domenica di risurrezione (terzo giorno). Questo porta a una vera conversione sul piano teologico: il Triduo non riguarda più semplicemente la passione o la sepoltura del Signore, ma abbraccia passione morte e risurrezione: è insieme passio e transitus. E ogni giorno del Triduo è Pasqua.

Si tratta, in sostanza, di “fare Pasqua” non su uno, ma su tre giorni. E di articolare la Pasqua su tre livelli, tra loro connessi e corrispondenti ai “tre giorni”, purché calcolati “all’antica” – ossia da tramonto a tramonto, “e fu notte e fu mattino: primo giorno” – e così accuratamente ricostruiti:

primo giorno del Triduo (da dopo il tramonto del giovedì al tramonto di venerdì): memoria della Pasqua rituale nell’ultima cena e della Pasqua storica del crocifisso;

secondo giorno del Triduo (da dopo il tramonto del venerdì al tramonto del sabato) : la comunione con la morte e con tutti i defunti della Pasqua escatologica;

terzo giorno del Triduo (da dopo il tramonto del sabato al tramonto della domenica): è la pasqua ecclesiale, è il risorgere della ecclesia, che può tornare a celebrare il battesimo e l’eucaristia.

Ne emerge, con una nuova chiarezza, che la comunità celebrante è parte integrante del mistero celebrato: con il Signore risorge anche la sua Chiesa, che raccoglie il Triduo tra l’ultima cena con Gesù e la prima eucaristia con il Signore.

4. La rilettura della eucaristia: “gradualità” attraverso la preghiera/memoria verso la comunione

Recuperando questa “struttura” del Triduo – che in questa forma è riemersa, come detto, soltanto dal 1969 – possiamo accedere diversamente anche alla esperienza della “Pasqua settimanale”, ossia della celebrazione eucaristica domenicale. Qui vorrei far notare alcune “conseguenze” della lettura pasquale medievale e moderna, come “ricadute” sulla esperienza della messa:

– il primato della “passione” sulla resurrezione ha determinato un primato della “consacrazione” sulla comunione;

– l’attenzione quasi esclusiva al “sacrificio” ha determinato una attenzione grandissima per la dimensione cristologica, mettendo in secondo piano la relazione pneumatologica: in altri termini ha valorizzato la devozione e la elevazione piuttosto che la duplice discesa dello Spirito, sulle offerte e sugli offerenti.

Di qui è derivata una “esperienza di picco” – picco di attenzione, di devozione, di preghiera – che nella messa si è “assestato stabilmente” al momento della consacrazione-elevazione. La tensione mistica trova qui il suo “culmine”, e tutto il resto è una salita fino a qui e una ridiscesa da qui. Anche la “rarità” dell’accesso alla comunione era, nella stesso tempo, effetto e causa di tutto ciò. Graficamente possiamo presentare così questa esperienza classica dell’eucaristia, che ancora oggi è assai diffusa:

———————————consacrazione

——————-prefazio                   memoriale/intercessioni

———lit. della parola                                             riti di comunione

riti di inizio                                                                                             congedo

Se consideriamo, invece, la rilettura pasquale del Triduo come “riconoscimento della Pasqua ecclesiale”, riscopriamo che la stessa celebrazione domenicale ripropone la medesima logica, così come appare plasticamente nella prima “messa” narrata dai vangeli, che non è l’ultima cena, ma la “cena di Emmaus”, Dove il crescendo è: incontro, ascolto della parola, spezzare il pane, correre ad annunciare. Trasposto nella eucaristia domenicale esso diventa un “crescendo” così rappresentabile:

———————————————–comunione-congedo/invio

———————————–epiclesi/intercessione/dossologia

————————-consacrazione/narrazione memoriale

——————preghiera eucaristica

———-lit. della parola

riti di ingresso

Qui il “picco di attenzione/devozione” è il riconoscimento del Risorto non solo “nella comunione”, ma anche “come comunità eucaristica”. Non dobbiamo mai dimenticare, infatti, che il “corpo di Cristo” non è semplicemente quanto “incontriamo” nell’eucaristia, ma ciò che “diventiamo” nell’eucaristia. Diventare corpo di Cristo è il punto di arrivo della Pasqua, settimanale e annuale.

5. Una terza parola di s. Agostino: “siate quel che vedete, ricevete quel che siete”

In un sermone sul “pane eucaristico”, Agostino propone una sintesi di straordinaria intensità di tutto quanto abbiamo fin qui considerato. Egli dice 6 parole latine:

estote quo videtis, accipite quod estis”

che si possono tradurre con 8 parole italiane: “siate quel che vedete, ricevete quel che siete”. In questa sintesi appaiono, con grande chiarezza alcuni elementi decisivi della “coscienza pasquale”:

– la correlazione tra morte e resurrezione non è semplicemente una “vicenda di Gesù”, ma un evento comunitario. Anzi, potremmo dire che è il fondamento di ogni possibile comunione. Fare la comunione, cristianamente, significa “entrare in questa storia”.

– questo è attestato dalla “concatenazione” dei tre giorni del Triduo. Mentre i primi due seguono “quasi biograficamente”, quasi mimeticamente, la vicenda di Gesù di Nazaret, il terzo giorno “inizia dalla fine”, ossia dal Signore risorto che ritorna, alla fine dei tempi.

– La liturgia pasquale – annuale e settimanale – non è anzitutto una “imitazione”, ma è una “memoria”: è il Corpo di Cristo, la comunione con il Risorto, che fa memoria della storia di salvezza, perché il Risorto, veramente morto e sepolto, viva “nel” e “come” suo corpo ecclesiale.

– Per questo l’esito domenicale e annuale è molto simile: come la Pasqua domenicale esplode nell’esistenza di tutta la settimana, così la Pasqua annuale esplode nel terzo giorno del Triduo, in “sette settimane di Pasqua”, fino alla Pentecoste.

– Quanto avviene in 50 giorni, una volta all’anno, accade ogni domenica, nella celebrazione eucaristica. Il congedarsi della “seconda persona” rende possibile la sua presenza continua mediata dalla “terza persona”. Nello Spirito Santo la Chiesa vive la presenza del Figlio per lodare il Padre, fino al compimento dei tempi.

6. Dal corpo sacramentale al corpo ecclesiale, attraverso il corpo storico

Una rilettura dell’esperienza spirituale cristiana, così come auspicata dal Concilio Vaticano II e realizzata dalla riforma liturgica, non può essere assicurata soltanto dalla dedizione dei pastori, ma deve contare anche sull’aiuto della riflessione dei teologi.

Celebrare la Pasqua, prima su tre giorni, nel Triduo, e poi su cinquanta, fino a Pentecoste, è riforma di Chiesa, ripensamento di etica, rilettura di storia e riapertura di vita.

Se il sacramento è “forma visibile” della grazia invisibile, tale sua visibilità ha bisogno di immaginazione e di sogno, di slancio e di silenzio, di forma comprensibile e di mistero informe. Solo così può “iniziare ritualmente al fare Pasqua”.

L’itinerario personale e comunitario, che di anno in anno si rinnova, trova ora nella azione rituale riformata – prima da Pio XII e poi da Paolo VI, dopo il Concilio – il contesto adeguato alla sua rinnovata ricchezza. E tale rinnovamento non riguarda soltanto la pasqua annuale, ma anzitutto la pasqua settimanale. Nella celebrazione eucaristica del “primo giorno dopo il sabato”, ogni 7 giorni, ripetiamo questo passaggio, decisivo e potente, dal corpo sacramentale al corpo ecclesiale.

Questo è il senso primo e ultimo della Pasqua.

Pubblicato il 23 marzo 2016 nel blog: Come se non

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Un commento

  1. Diego 12 marzo 2024

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