Gesù cadde

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Quando Adamo cadde anche il Figlio di Dio cadde.
Per la vera unione che fu fatta in cielo, il Figlio di Dio non può essere separato da Adamo,
e con Adamo intendo ogni uomo.
Adamo cadde dalla vita nella morte, nell’abisso di questo misero mondo e, dopo ciò, nell’inferno.
Il Figlio di Dio cadde con Adamo nell’abisso del ventre della Vergine, che era la più bella tra le figlie di Adamo, e questo per togliere da Adamo il biasimo sia in cielo che in terra; e con potenza lo strappò dall’inferno. (51.249)

Se c’è un’immagine emblematica di tutto il percorso sulla via dolorosa, questa è sicuramente quella di Gesù che cade sotto il peso della croce: appare in tre stazioni su quattordici! L’accento della scena è tutto sulla sofferenza fisica, presentata in una sorta di crescendo. Giuliana cattura la potenzialità simbolica di tale caduta e ne fa la chiave interpretativa che sta alla base di una vera e propria teologia della salvezza.

In che senso “per noi”?

«Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo» recitiamo nel Credo, come si è già ricordato. Ma cosa significa quel “per noi”? Al posto nostro o a nostro favore? Potremmo dire che ambedue le soluzioni sono valide. Ma, se la seconda non fa problema, nel momento stesso in cui diciamo che nella sua incarnazione e morte il Figlio di Dio ci ha salvato, il che indubbiamente rappresenta un nostro vantaggio, qualche difficoltà sorge quando ci si sofferma sul “come” Gesù ha realizzato tale salvezza. Nei secoli sono state date varie risposte all’interrogativo, a partire dal problema del come la morte di uno solo abbia avuto un effetto così imponente e duraturo per l’intera umanità, stando a quanto Paolo afferma in 1Cor 15,21-22 (ma vedi anche Rm 5,15-21). Diversi sono stati i modelli interpretativi. Gesù è apparso di volta in volta

  1. come colui che, nuovo Adamo, ricapitola in sé tutta la creazione e, attraverso la croce, la porta nella gloria;
  2. come il redentore che, a prezzo del suo sangue, ci ricompra (questo significa “redimere”) dal demonio di cui, con la colpa, eravamo diventati proprietà;
  3. come il sostituto che, “soffrendo al posto nostro”, è in grado di soddisfare il debito infinito contratto con il peccato;
  4. come colui che, senza che niente ve lo costringesse, volle con la sua morte mostrarsi solidale con l’umanità sofferente e, in quella stessa morte, rivelare il volto di Dio come amore incommensurabile.

I modelli 2 e 3, che penso siano quelli noti ai più, presentano però due rischi.

Il primo è che i due protagonisti dell’evento, il Figlio e l’uomo, restino estranei l’uno all’altro, con il Figlio come solo e assoluto protagonista, e l’uomo come inerte beneficiario di un dono ricevuto dall’alto e da fuori; in più, tale estraneità potrebbe far perdere il valore “esemplare” dell’evento Gesù (cf. 1Pt 2,21-25), che rimarrebbe un fatto unico e non imitabile, laddove invece ci viene chiesto di portare la “nostra” croce.

Ma un’altra strada è possibile. Questa veloce premessa ci permette di entrare nella soluzione intravista da Giuliana a un problema spinoso che l’ha tormentata, a suo dire, per una ventina d’anni, e cioè come poter mettere d’accordo la dottrina della Chiesa per cui il peccato merita una condanna con l’assenza di ogni segno di biasimo sul volto di Dio. La reclusa affida la risposta a un capitolo estremamente lungo, il 51, che chiama “esempio”, cioè, secondo la letteratura del tempo, un racconto a forma di parabola che contiene un insegnamento morale.

La narrazione della “caduta”

La narrazione è complessa e difficilmente riassumibile, e si consiglia al lettore di accostarla in diretta nel testo onde raccogliere tutta la ricchezza delle allegorie attraverso cui molti dettagli vengono interpretati.

Qui si mette a fuoco soprattutto l’immagine della caduta, che forma il cardine del ragionamento di Giuliana. La storia vede in scena un signore e un servo. Costui sta accanto al signore, pronto a obbedire a ogni suo comando. Riceve una missione, e si affretta ad eseguirla per fare la volontà del suo signore. Ma, nel correre, improvvisamente cade in un precipizio e si fa molto male. E allora si lamenta, geme, si contorce, si dibatte, ma non riesce ad alzarsi né può aiutarsi da solo in alcuna maniera. E in tutto questo la cosa più dolorosa che vidi in lui era la mancanza di conforto, perché egli non poteva girare il suo volto per guardare in alto verso il suo amabile signore, che era vicinissimo a lui, nel quale c’è la pienezza della consolazione; ma da uomo debolissimo e poco saggio in quel momento, era tutto intento alle sensazioni che provava e rimaneva nella sua afflizione, «nella quale soffriva sette grandi dolori» (51.241-242).

Giustamente Giuliana chiama “nebuloso” questo esempio, perché immediatamente ci si pone il problema di chi stia parlando la reclusa. Lo confessa lei stessa: intuisce che il servo possa rappresentare Adamo, ma dice: «in lui vedevo molti aspetti diversi che non potevano in alcun modo riferirsi al solo Adamo» (51,242). Per esempio, la descrizione “realistica” della caduta porta subito l’attenzione non tanto sulla scena dell’Eden, ma piuttosto su ciò che è accaduto a Gesù nel cammino verso il Calvario, descritto in “sette dolori”:

«Il primo era la brutta ferita che si era fatto cadendo e che gli procurava grandi pene.
Il secondo era la pesantezza del suo corpo.
Il terzo era la debolezza che derivava da queste due cose.
Il quarto era il fatto che la sua ragione era cieca e la sua mente intontita al punto che aveva quasi dimenticato di volersi bene.
Il quinto era che non poteva alzarsi.
Il sesto era il dolore che mi stupiva di più, ed era che giaceva solo. Mi guardai tutto attorno e contemplai, ma né lontano né vicino, né in alto né in basso riuscii a vedere per lui aiuto alcuno.
Il settimo era che il posto in cui giaceva era angusto, aspro e angosciante». (51.242)

Dopo la visione, Giuliana impiega molti anni a cercare di capire il significato della parabola, un cammino riassunto in tre tappe: l’inizio, costituito dalle sedici visioni avute nei tre giorni di grave malattia, che frutteranno il Testo Breve; i quasi vent’anni necessari per elaborare le visioni in riflessioni e meditazioni che danno sostanza teologica al Testo Lungo; e, infine, il senso globale della rivelazione quale appare nel capitolo 51, ripreso nel conclusivo 86. L’esiguità dello spazio ci costringe ad andare subito a registrare la comprensione che Giuliana raggiunge del senso di questa storia del signore e del servo.

La caduta di Adamo e quella di Gesù

Nel servo è compresa la seconda persona della Trinità, e nel servo è compreso Adamo, cioè ogni uomo. La vicinanza del servo significa il Figlio, lo stare alla sinistra significa Adamo. «Quando Adamo cadde, anche il Figlio di Dio cadde: per la vera unione che fu fatta in cielo il Figlio di Dio non può essere separato da Adamo, e con Adamo intendo ogni uomo. Adamo cadde dalla vita nella morte, nell’abisso di questo misero mondo, e dopo ciò nell’inferno. Il Figlio di Dio cadde con Adamo nell’abisso del ventre della Vergine, che era la più bella tra le figlie di Adamo, e questo per togliere da Adamo la condanna sia in cielo che in terra; e con potenza lo strappò fuori dall’inferno. [ … ] In tutto questo il nostro buon Signore mostrò suo Figlio e Adamo come un solo uomo. La forza e la bontà che abbiamo vengono da Gesù Cristo, la debolezza e la cecità vengono da Adamo: queste due cose furono mostrate nel servo». (51.249)

L’intuizione felice la porta ad usare uno stesso vocabolo, cadde, per indicare sia il peccato di Adamo, e in esso quello di tutta l’umanità (si ricordi che l’inglese fall indica, oltre una qualsiasi caduta, quel Fall che è il peccato originale), sia la kénosis, un abbassamento che scende fino al nulla della morte (cf. Fil 2,8), scelto dal Figlio di Dio nell’incarnarsi.

Il principio teologico che fa da fondamento a questo passo è noto: Dio ci salva con lo stesso strumento che ha causato la nostra rovina. In questa logica l’albero della conoscenza del bene e del male, su cui Adamo colse il frutto della maledizione, diventa l’albero della croce, sul quale Gesù coglie per offrirlo a noi il frutto della salvezza, «perché colui che sull’albero vinceva, sull’albero pure fosse vinto».

Il poeta gallese R.S. Thomas esprime con straordinaria concisione questa verità quando vede un «albero d’inverno» (e quindi sterile e apparentemente morto) «carico del frutto d’oro del corpo di un uomo» (In a country church).

Giuliana ridice la stessa verità elaborando l’immagine della caduta: quella di Adamo nella “valle di lacrime”, e quella di Cristo nel ventre di Maria. Spostando l’attenzione dalla croce sulla mangiatoia della natività, l’immagine acquista una sua dolcezza, e genera addirittura una seconda immagine, così che se un abbassamento riscatta una caduta, un abisso di dolore si trasforma in un grembo di tenerezza che accoglie. La terra, e la carne, hanno queste due possibilità, perché anche Maria è tra le figlie di Adamo, «la più bella», certo, ma una tra le altre.

In più, il rischio di separare e mettere a contrasto Adamo e Cristo come fa Paolo in 1Cor viene superato da una pratica “fusione” tra le due figure.

Resta, comunque, oltre il piacere intellettuale che possono dare metafore, corrispondenze e ribaltamenti, la grande e commovente verità che qui si tenta di descrivere: che Dio, quando ci guarda, in qualsiasi condizione ci troviamo, non riesce a vedere sul nostro volto altro che l’immagine del suo Figlio. Questa è la nostra salvezza, questa è la fonte della nostra fiducia.

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