Il sacro è immutabile?

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liturgia

La recente reazione del card. Robert Sarah al MP Traditionis custodes, che si può leggere qui in italiano, al di là degli spunti polemici e delle affermazioni azzardate, mostra in modo assai chiaro come tutto il suo ragionamento ruoti intorno alla pretesa “evidenza di un principio” che appare altamente problematico: è infatti un principio che non è un principio.

Ma andiamo per ordine. Riassumo brevemente il testo. Per R. Sarah la Chiesa cattolica deve essere un punto di riferimento a livello mondiale, come principio di unità. Per far questo deve restare “nella catena ininterrotta che la lega a Cristo”. Questo legame a Cristo è “sviluppo organico, che chiamiamo tradizione vivente”. Fino a qui, tutto bene.

Ma nel secondo passaggio chiama in campo Benedetto XVI e la sua espressione di questa “tradizione vivente”, così come appariva nella Lettera ai Vescovi che accompagnava nel 2007 Summorum pontificum: “Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che le generazioni precedenti ritenevano sacro, rimane sacro e grande anche per noi, e non può essere improvvisamente completamente proibito o addirittura considerato dannoso. È dovere di tutti noi preservare le ricchezze che si sono sviluppate nella fede e nella preghiera della Chiesa, e dare loro il giusto posto”.

Questo è il “principio”, che potremmo chiamare “principio di immutabilità del sacro” che vorrebbe fondare sistematicamente, nel 2007, una costruzione giuridica assai ardita, che sconfina largamente nella “finzione”: da questo principio si pretende di derivare una “vigenza parallela” di due “forme” o “usi” del rito romano, che però si contraddicono, poiché la seconda è nata per emendare, correggere, integrare e convertire la prima.

Il principio, infatti, ricostruisce la “continuità” come contemporanea vigenza di forme tra loro non coerenti. Qui vi è un vizio logico, storico, spirituale e teologico che inficia sia la ricostruzione storica, sia la soluzione pratica:  essa pretende di istituire, in vista di una pretesa riconciliazione, un parallelismo rituale tra “forma ordinaria” e “forma straordinaria”,  che in realtà mina in radice la pace ecclesiale.

Occorre essere molto chiari: la pace nella Chiesa non si realizza perché a ciascuno è accessibile la “propria” forma rituale, ma perché tutti si riconoscono nell’unica forma vigente. R. Sarah, leggendo in modo superficiale le parole di Benedetto XVI, immagina che la “continuità” possa essere garantita solo dalla “molteplicità parallela delle forme”.

Egli scrive infatti: “Se la Chiesa afferma la continuità tra quella che viene comunemente chiamata la Messa di San Pio V e la Messa di Paolo VI, allora la Chiesa deve essere in grado di organizzare la loro coabitazione pacifica e il loro reciproco arricchimento. Se si dovesse escludere radicalmente l’una a favore dell’altra, se si dovesse dichiararle inconciliabili, si riconoscerebbe implicitamente una rottura e un cambiamento di orientamento. Ma allora la Chiesa non potrebbe più offrire al mondo quella continuità sacra, che sola può darle pace”.

Ciò che a R. Sarah manca, rispetto alle parole di Benedetto XVI, è la categoria di “ermeneutica della riforma”. Sarah ragiona secondo la contrapposizione tra “continuità” e “rottura”. E pensa che non vi sia altra mediazione possibile. Nel famoso discorso alla Curia Romana del dicembre del 2005, tuttavia, Benedetto parlava di “ermeneutica della riforma” e in essa trovava la mediazione tra assoluta continuità e assoluta discontinuità.

Ora, è vero che in Summorum pontificum Benedetto XVI sembra pensare la riforma solo come “continuità della forma straordinaria”. E qui c’è il punto cieco di quel documento, la sua fragilità sistematica, e l’azzardo istituzionale che realizza e che, in qualche modo, propaga anche nel nostro futuro. Con un principio di immutabilità del sacro che è tutt’altro che evidente si è preteso fondare una “pace” che in realtà era solo una “guerra fredda”.

D’altra parte R. Sarah sembra ignorare un elemento che sarebbe molto utile alla sua riflessione. Il presunto “principio” enunciato da Benedetto XVI non ha alcun precedente nella tradizione liturgica, se non nelle parole del card. Siri, nel 1951, e in quelle di mons. Lefebvre, nel 1968. Entrambi avevano in qualche modo domandato (il primo a Pio XII e il secondo a Paolo VI) di restare “immuni” dalle riforme che quei papi  avevano realizzate.

Il principio di “immunizzazione” dalle riforme, però, non può essere venduto come un principio di pace. È piuttosto un elemento di conflitto universale, che mina l’unità di ogni Chiesa particolare, perché interrompe lo sviluppo organico della tradizione, che sempre procede mediante una continuità che si arricchisce di passaggi discontinui.

Per chiarire meglio le cose vorrei mostrare, a contrario, l’impraticabilità concreta del “principio di immutabilità del sacro”. Nel momento in cui si accettasse che ogni “forma sacra” della liturgia cattolica resta valida indipendentemente da ciò che Concili, papi o vescovi possano aver deliberato in proposito, saremmo nella concreta impossibilità di orientare un comune cammino di sviluppo del culto. L’esempio più lampante è emerso proprio dall’“applicazione” che la Commissione Ecclesia Dei ha compiuto del testo di SP.

Il “principio di immutabilità del sacro” si rivela in questo caso, appunto, come un principio “anarchico”: una volta che si sia affermato quel principio, nessuna forma è davvero “ultima” e “certa”. Lo si è visto bene per il Triduo pasquale: alla Commissione Ecclesia Dei diversi Istituti e Vescovi (soprattutto nordamericani) avevano chiesto la facoltà di poter celebrare con i riti non del 1962, ma con quelli precedenti le riforme del 1951-1956, operate da Pio XII. Di per sé il principio di immutabilità del sacro permette un “regresso” senza fine: anzi, lo rende quasi normativo! Così quasi ogni parrocchia, per non dire ogni prete, avrebbe potuto avere il suo rito differente e “più sacro”!

Alla luce di questo esempio, appare davvero sorprendente il modo sgarbato e ingiustificato con cui R. Sarah chiude il suo intervento, alimentando una polemica diretta non solo infondata, ma paradossale nei confronti di papa Francesco: “Un padre non può introdurre sfiducia e divisione tra i suoi figli fedeli. Non può umiliare alcuni mettendoli contro altri. Non può ostracizzare alcuni dei suoi sacerdoti. La pace e l’unità che la Chiesa pretende di offrire al mondo devono prima essere vissute all’interno della Chiesa. In materia liturgica, né la violenza pastorale né l’ideologia di parte hanno mai prodotto frutti di unità. La sofferenza dei fedeli e le aspettative del mondo sono troppo grandi per impegnarsi in queste strade senza uscita”.

Per restituire le cose alla loro verità occorre dire, con grande chiarezza: da sempre lo “sviluppo organico” del rito romano ha trovato continuità dopo una riforma nell’assunzione comune della nuova forma, non nella conservazione della nuova insieme alla vecchia. La pace si fa nella comune accettazione del percorso di riforma, non nel contrapporre il vecchio rito al nuovo.

Con TC nessuno è stato umiliato o contrapposto. Diciamo invece che alcuni erano stati illusi che la pace potesse essere favorita “ibernando” il Concilio Vaticano II e le sue conseguenze. Non è garantendo ad una parte della Chiesa di poter essere cattolica facendo a meno di entrare nelle logiche del Vaticano II che si può pretendere di assicurare una vera pace.

Il gesto veramente cattolico non è il principio equivoco dell’immutabilità del sacro e la finzione giuridica della doppia forma inventata da papa Benedetto, ma il realismo ragionevole di Francesco: egli restituisce al Concilio Vaticano II  e ai vescovi la loro autorità, ristabilisce quale sia l’unica forma vivente del rito romano e permette così alla Chiesa di diventare autorevole in modo unitario.

La grande tradizione da custodire non è quella del parallelismo tra due forme del rito romano – che è una geniale ma fragile invenzione di papa Benedetto sulla scia di Siri e Lefebvre – ma quella dello “sviluppo organico” che la riforma liturgica ha assicurato e ancora può assicurare. Guai a chi chiama bene il male e male il bene.

Non sono i teologi che vogliono alimentare le “guerre liturgiche”, ma quei pastori che usano le parole in modo poco responsabile, poco fondato e poco ponderato, illudendo i fedeli che si possa fare pace “immunizzando” una parte della Chiesa dalla storia comune.

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4 Commenti

  1. Adelmo Li Cauzi 18 agosto 2021
  2. Tobia 17 agosto 2021
    • Pietro 22 agosto 2021
      • Tobia 23 agosto 2021

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