Lavanda dei piedi: il papa e il prefetto

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Papa Francesco lava i piedi

Giovedì santo:Papa Francesco lava i piedi a dodici detenuti del carcere di Rebibbia (2 aprile 2015) (AgenSir)

«I preti non sono tenuti a lavare i piedi alle donne il Giovedì santo»: di per sé questa dichiarazione del card. Sarah è formalmente corretta. Nello stile astratto e disincarnato con cui viene pensata la liturgia in alcuni ambienti della curia romana, di fronte alle difficoltà e alle novità, ci si rifugia facilmente nel formalismo e nella indifferenza della “norma”: di fronte alla domanda interessata di “rito antico”, si crea con disinvoltura un libero parallelismo, che genera solo confusione; di fronte alle forme del rito di pace, si ricorda semplicemente che il gesto non è obbligatorio, oltre a definire “abuso” ogni canto e ogni movimento durante il rito; di fronte alla “nuova rubrica” voluta da Francesco per la lavanda dei piedi, ci si limita a ricordare che non obbliga nessuno.

È questo il compito del prefetto della Congregazione del culto? Deve solo quieta non movere e mota quietare? O forse deve prendere l’iniziativa solo quando si tratta di proporre la introduzione dell’offertorio di Pio V nel messale di Paolo VI? Questo è il modo di applicare il Concilio?

Se all’epoca di Sacrosanctum concilium avessimo avuto il card. Sarah come incaricato di applicarlo, che cosa avrebbe fatto dei nn. 51-57 della costituzione? Se la maggiore ricchezza biblica, l’omelia quotidiana, la preghiera dei fedeli, la lingua vernacolare, la concelebrazione e la comunione sotto le due specie fossero state giudicate semplicemente come “cose non necessarie” – secondo tradizione – allora avremmo avuto una “vera” riforma liturgica, in cui tutto sarebbe rimasto come prima. Perché, a guardarle bene, tutte queste riforme non potrebbero essere, in fondo in fondo, nient’altro che “abusi regolarizzati”?

Allora veniamo al punto-chiave: una cosa è “guardarsi dagli abusi” e altra cosa è “reimparare gli usi”. Su questa distinzione si può capire la linea profetica di Francesco e quella difensiva di Sarah: da un lato Francesco, per ottenere un uso “più pieno” del segno della lavanda dei piedi, può arrivare anche a commettere un abuso (come è avvenuto, tecnicamente, con la lavanda dei piedi in carcere, dall’aprile 2013 al gennaio 2016); per Sarah, invece, nell’intento di evitare ogni abuso, si può arrivare persino a negare l’uso.

E dobbiamo chiederci, allora: il Concilio Vaticano II che cosa voleva realizzare? la repressione degli abusi o la rinascita degli usi? In questo fraintendimento grave del Vaticano II, Sarah si colloca del tutto al di fuori della logica con cui Francesco intende procedere, riprendendo in pienezza la linea del Concilio. Egli punta sul rilancio di usi rinnovati, piuttosto che sulla lotta agli abusi vecchi e nuovi.

Ed è qui, io credo, che la dichiarazione di Sarah diventa un esplicito ostacolo alla logica voluta da Francesco: il fatto di recuperare la “pienezza di un segno” non può essere in alcun modo mediato dalla sua riduzione alla dimensione del “non necessario”. Non è così che si incentiva la liturgia, e questo è chiaro non solo per la “lavanda dei piedi”, ma anche per il “rito di pace” e ancor più per il parallelismo tra forme diverse del rito romano.

D’altra parte questa differenza appare anche dal confronto tra la lettera del papa, confermata anche dal testo del decreto, e la dichiarazione del Prefetto. Il papa non ha chiesto di “rimuovere un abuso”, ma di “esprimere pienamente il significato del gesto”: egli vuole infatti “migliorarne le modalità di attuazione, affinché esprimano pienamente il significato del gesto compiuto da Gesù nel Cenacolo, il suo donarsi ‘fino alla fine’ per la salvezza del mondo, la sua carità senza confini”.

Da questa differenza tra preoccupazione solo per l’abuso e promozione pastorale  dell’uso discende tutto il resto. Ma decisiva, qui, non è tanto la differenza tra papa Francesco e il card. Sarah, bensì quella tra l’attuazione appassionata del Concilio Vaticano II e la insofferenza malcelata verso di esso. Ed è questa dichiarata insofferenza che, quando emerge apertamente in un Prefetto, non può essere affatto considerata come un nonnulla: di fronte a questa risentita indifferenza non si può restare indifferenti.

Pubblicato il 16 marzo 2016 nel blog: Come se non

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2 Commenti

  1. Giorgia Gariboldi 24 marzo 2016
  2. Renato Zanon 16 marzo 2016

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