Le ragioni del silenzio e il silenzio della ragione

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La discussione conseguente alla diffusone della notizia circa una postfazione che J. Razinger ha scritto per il nuovo libro del card. Sarah, dedicato al tema del “silenzio” (La force du silence, in uscita per Fayard), non può evitare di affrontare un duplice fronte di questioni, che si annodano intorno al tema del “silenzio” e che potrebbero essere distinte su questi due livelli:

a) Da un lato, la questione riguarda il “silenzio” come “tema liturgico”, e come tale merita una lettura attenta e libera da pregiudizi. Nessuno dubita che oggi il recupero di una “esperienza del silenzio” sia decisiva per la qualità e l’autenticità dell’azione rituale. Ciò che è in questione è quale sia la via, il metodo e l’approccio corretto per custodire e promuovere tale silenzio.

b) D’altro lato, si deve riconoscere che anche sul fronte istituzione, in particolare nei rapporti tra “papa” e “papa emerito”, il silenzio è una dimensione fondamentale per garantire – rebus sic stantibus – la chiarezza nell’esercizio dell’autorità, evitando conflitti o abusi di potere.

Un breve ragionamento intorno ad entrambi questi profili e al loro delicato intreccio permetterà di chiarire meglio l’entità delle obiezioni sollevate e il loro carattere obiettivo e spassionato.

La liturgia e il silenzio: una storia secolare

Da un secolo il movimento liturgico fa i conti con una riscoperta del valore del silenzio per l’azione liturgica: a partire dalla prima opera di O. Casel (De phlosophorum graecorum silentio mystico) alle più recenti riflessioni di Giorgio Bonaccorso (Il tempo come segno: vigilanza, testimonianza, silenzio, EDB, 2004) – per indicare solo due tra gli esperti del tema – potremmo individuare una riscoperta della “mediazione rituale del silenzio” che attraversa tutto il secolo. L’azione rituale, in altri termini, costituisce una “mediazione del silenzio”, che la liturgia realizza in modo multimediale: la musica, il gesto, l’immagine, lo spazio, preparano, accompagnano, e strutturano un “incontro intimo” con il Signore e con i fratelli, che esige silenzio, come ogni intimità. Questa linea di riscoperta sa, tuttavia, che il silenzio rituale non si genera anzitutto per sottrazione, ma per successione, per sequenza e per contrasto. Soprattutto sa che il silenzio liturgico è “parola dal e verso il silenzio” e “azione dal e verso il silenzio”.

Spesso accade, invece, che la proposta del silenzio sia guidata da una preoccupazione non liturgica, ma extra-liturgica: si nutre di una logica “antimodernistica” che facilmente inclina a vedere il silenzio come “negazione della parola” e “negazione dell’azione”. Questa modalità di comprensione dell’importanza del silenzio non ha radice nella liturgia, ma nell’apologetica antimodernistica. Essa facilmente identifica nella riforma liturgica, nella riscoperta della Parola e nella ripresa della “partecipazione attiva” delle vere e proprie distrazioni dal silenzio, una sorta di “arbitraria sostituzione di Dio con l’uomo”. Per questo modello di lettura della liturgia il silenzio garantisce il primato di Dio, mentre l’azione, la parola e l’adeguamento dei riti sarebbe abuso umano sulla tradizione, che come tale impedisce il silenzio.

Antimodernismo liturgico e riforma della riforma

In questa linea si colloca, da molti decenni, il pensiero di J. Ratzinger e la sua ripresa, a livello meno profondo e più ingenuo, da parte di R. Sarah. Intorno al “primato del silenzio” essi, sia pure in modi diversi, hanno proposto una rilettura della storia e della vicenda ecclesiale che è segnata da un dualismo insuperabile: la riforma liturgica sarebbe il “trauma” che avrebbe interrotto la tradizione e occorrerebbe recuperare la continuità mediante una “riforma della riforma”. Lo sviluppo del tema del “silenzio” si presta perfettamente a questa operazione, che non è liturgica, ma apologetica. La lamentela circa la mancanza di silenzio nelle liturgie di oggi sarebbe colpa della riforma, dell’enfasi sulla parola e dell’attivismo post-conciliare. Questo discorso è emotivo e privo di fondamento storico o di argomentazione razionale. I testimoni dei tempi passati sanno bene che non è così. E che tornando indietro nel tempo non si trova silenzio, ma brusio, parallelismo di azioni, “funzione” più che celebrazione. In questo caso le “ragioni del silenzio” – che sono forti e autorevoli – conducono Ratzinger e Sarah a una sorta di “silenzio della ragione”: a prendere la parola è un’emotività turbata dal Concilio, dalla riforma e dalla modernità, alla quale si vuole contrapporre un modello idealizzato e irreale. Sulle svolte recenti si scaricano tutte le colpe, senza discernere. Il movimento liturgico – da Casel a Bonaccorso – sa invece che per “favorire il silenzio” occorre attraversare la Parola e l’azione sacramentale, riscoprendone le logiche segrete, le esigenza di azione e di tatto, di visione e di immaginazione, di movimento e di canto. Il silenzio non imbalsama la assemblea, non pretende un ritrarsi generale e una paralisi dell’azione, ma esige piuttosto un’azione e una parola corale. Questo è l’ambiente che genera il silenzio mistico e l’azione silenziosa.

Alcuni esempi degli ultimi tempi

La ragione di questa “scissione” tra silenzio e riforma liturgica – che Ratzinger e Sarah hanno in comune – è una sorta di disperazione sulla “actuosa participatio”. E l’esempio più illustre di questa disperazione è costituito dal motu proprio Summorum pontificum, nel quale l’orizzonte del silenzio si dischiude solo mediante un’artificiosa e incontrollabile ipotesi di “parallelismo” tra due forme dell’unico rito romano. Con questo motu proprio il pontificato di Benedetto ha in qualche modo consacrato una scissione: non avendo la speranza di “mediare il silenzio nel rito riformato”, mediante una finzione giuridica assai ardita, ha preteso di rinnovare la vigenza del rito non più vigente, per recuperare un “orizzonte di silenzio”. Questo provvedimento, che in qualche modo appare anche come una confessione di impotenza, si fonda sul “pregiudizio apologetico e antimoderno” di lettura della liturgia come “azione di Dio” e non dell’uomo. Questa contrapposizione finisce con il duplicare la realtà, scindendo in ogni passaggio, ciò che è di Dio e ciò che è dell’uomo. E costruisce un sistema blindato, in cui i “diritti di Dio” si fanno largo solo e soltanto mediante ciò che “ammutolisce l’uomo”. E il silenzio è qui, evidentemente, richiamo simbolico potentissimo, che sembra avvalorare questo approccio “spaventato”.

Anche nel recente volume Ultime conversazioni – e poi persino nell’inedito pubblicato in occasione del suo 90° compleanno – J. Ratzinger non esce da questa visione piuttosto angusta della liturgia: che forse – per sua stessa confessione – deriva dal suo invincibile “Lust am Widerspruch…”, dal “gusto della contraddizione”. E R. Sarah ripete semplicemente questo stereotipo non argomentato, quasi riducendolo a slogan.

Il silenzio come metodo: liturgico e istituzionale

Vi sono dunque ragioni di merito per discutere non la giusta esigenza di “silenzio”, ma il modo distorto e apologetico di riferirsi al “silenzio”, rievocando nostalgie della società chiusa, recupero di strutture gerarchiche, differenze ontologiche insuperabili, divieti e pregiudizi superati. Ma vi sono anche “ragioni di metodo”, che giustificherebbero la perplessità verso la “postfazione”, anche nel caso in cui R. Sarah avesse scritto il “libro del secolo” sul silenzio. Proprio perché, ammesso e non concesso il caso limite considerato, la parola del “vescovo emerito di Roma”, proprio perché è stato papa, ha comunque un peso e una rilevanza che non è più compatibile con la propria rinuncia. La rinuncia all’esercizio del ministero determina una singolare condizione della parola di J. Ratzinger, che acquisisce autorità “ipso facto”, in ragione del suo passato ministero. Per questo la “consegna del silenzio” appare obiettivamente non come una ritorsione ingiustificata, o come la privazione di un diritto della persona, ma come la necessaria custodia di un’autorità che non può essere in nessun modo “duplicata”, nemmeno per sbaglio. Così, se già sarebbe delicato leggere dal papa emerito un giudizio – che so, sulle vaccinazioni o sulle stagioni della vita – del tutto inopportuno è ascoltare la sua lode di un prefetto di Congregazione recentemente fatto oggetto di esplicite censure da parte del successore. Una parola irresponsabile rischia di diventare “caso istituzionale” e “causa di divisione”, ben al di là delle intenzioni con cui viene scritta. Per questa “incontrollabilità” della parola, in questo caso il silenzio dovrebbe imporsi.

Ecco dunque il bisogno di parlare del silenzio, il bisogno di trovare le antiche e nuove ragioni del silenzio, ma senza mai cadere in un tale entusiasmo per il tema, da far appannare la logica liturgica e istituzionale della presa di parola. Le ragioni del silenzio non sono mai tanto forti da obbligare al silenzio della ragione.

Pubblicato il 21 maggio 2017 nel blog: Come se non

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4 Commenti

  1. Giorgio De Checchi 22 settembre 2018
  2. Enrico Campitelli 23 maggio 2017
  3. Angela 23 maggio 2017
  4. Francesco Grisorio 22 maggio 2017

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