Orazione dopo la comunione e riti di conclusione

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Don Ubaldo ha sempre tante cose da dire alla sua gente: prima della benedizione finale, si lancia in una serie di avvisi senza fine, difficili da memorizzare. Piccole omelie su vari argomenti. D’altra parte, lui ha la sua gente solo in quel momento e ci sono tante cose da comunicare e da chiedere: avvisare dell’incontro per i genitori, domandare un’offerta per riparare il riscaldamento, avvertire sulle iniziative della Pro Loco, segnalare la raccolta carta… e così lui non si accorge di tediare il suo popolo con una minipredica finale, che sembra vanificare tutto quello che è successo prima.

In prima fila Ofelia è tutta protesa per ricevere la benedizione, ed è in ginocchio già da un bel po’.

Dopo aver mangiato e bevuto il corpo e sangue del Signore crocifisso e risorto, dopo aver cantato eventualmente un’antifona alla comunione, la liturgia prevede un tempo di “sacro silenzio”. Il silenzio dopo la comunione è il luogo teologico per realizzare la comunione: questa non è il gesto del mangiare e bere: quello è il segno. La comunione è una realtà di vita e il silenzio dopo la comunione è il luogo dove si realizza teologicamente questa unione vitale con Cristo.

Il Messale scrive riguardo al silenzio: «Si deve osservare, a suo tempo, il sacro silenzio, come parte della celebrazione. La sua natura dipende dal momento in cui ha luogo nelle singole celebrazioni. Così, durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera, il silenzio aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica. Anche prima della stessa celebrazione è bene osservare il silenzio in chiesa, in sagrestia, nel luogo dove si assumono i paramenti e nei locali annessi, perché tutti possano prepararsi devotamente e nei giusti modi alla sacra celebrazione» (OGMR 45). Il silenzio è l’unica cosa che il Messale definisce “sacro”!

Ricordiamo le parole di san Giovanni Crisostomo: «Hai il Re dell’universo nelle tue mani. Se tu avessi un pezzo d’oro come staresti attento a non farne cadere neanche un frammentino, e hai il Re dell’universo nelle tue mani!».

L’orazione dopo la comunione lancia i fedeli nella vita eterna, perché li proietta verso l’ultimo compimento: si chiede sempre che i frutti del mistero pasquale celebrato e ricevuto nell’eucaristia, si rendano presenti nella vita dei fedeli. Potremmo dire che questa preghiera ci fa capire che in realtà la messa non finisce mai, perché i suoi effetti si saldano con la vita di tutti i giorni. Grazie a quanto abbiamo celebrato, possiamo sopportare le fatiche e i dolori della vita, le prove e le gioie dell’esistenza, perché abbiamo incontrato Cristo e possiamo credere alla sua presenza costante nei nostri giorni.

«I riti di conclusione comprendono: brevi avvisi, se necessari; il saluto e la benedizione del sacerdote; il congedo del popolo… perché ognuno ritorni alle sue opere di bene lodando e benedicendo Dio; il bacio dell’altare da parte del sacerdote e del diacono…» (OGMR 90).

Ci possono quindi essere degli avvisi, ma devono essere brevi: don Ubaldo deve imparare a scegliere quello più importante. Gli altri, la sua gente li troverà scritti in un foglietto settimanale.

La celebrazione si conclude con una benedizione che deriva da un retaggio antico. Nell’antichità, i peccatori pubblici avevano una penitenza medicinale: chi era in stato di peccato, prima di ricevere l’assoluzione, doveva fare anni di penitenza e questa consisteva anche nell’astenersi dalla comunione per anni. Chi era in peccato non poteva ricevere il corpo e sangue del Signore. Teniamo presente che san Basilio prescriveva trent’anni di penitenza per l’aborto o l’adulterio: per tutto quel tempo il peccatore non faceva la comunione. Così a Roma, durante la comunione, si formavano due file: la prima fila era composta dai peccatori in stato di penitenza, che venivano dal papa, si inginocchiavano, e ricevevano la benedizione. Quindi, si formava la fila dei fedeli che erano in stato di grazia e ricevevano la comunione. In occidente la benedizione era anticamente il dono di grazia suppletivo per chi non poteva ricevere l’eucaristia in quel momento.

Sappiamo che la liturgia è conservativa, non butta via niente e ha serbato questa benedizione che suona un po’ assurda: dopo aver ricevuto il corpo e sangue di Cristo, non è pensabile dare qualcosa che sia più grande! È importante allora non dare troppa enfasi a questa benedizione: ad esempio, non occorre mettersi in ginocchio, basta chinare leggermente il capo; bisognerà avvisare la cara Ofelia, che la cosa più importante lei l’ha già ricevuta con la comunione e che non occorre mettersi in ginocchio in quel momento; bisogna altresì aver l’attenzione che le comunicazioni date prima al popolo non superino i venti secondi. Non è possibile che ci sia uno spazio inesistente di silenzio dopo la comunione e una predica infinita prima della benedizione.

Conclude la celebrazione il congedo, che invia nella pace. Ora nessun “canto finale” dovrebbe trattenere chi è stato inviato: il Messale non lo prevede. Basta una musica, un pieno d’organo, che accompagni l’uscita dell’assemblea. Certo, nulla vieta che ci sia un’acclamazione alla Madre di Dio. Mi ricordo una celebrazione in Francia, in cui vidi la gente uscire dall’aula liturgica cantando: fu qualcosa di davvero toccante! Quell’ultimo canto aveva davvero un senso.

Il vero gesto conclusivo è il bacio all’altare con cui si era aperta la liturgia: il bacio d’amore eterno fra la Sposa e lo Sposo, per quelle sacre nozze che abbiamo celebrato nella liturgia.

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