“Padre nostro”. No, così no

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Finalmente i saggi vescovi ci hanno liberato da quel Padre ambiguo che, prima ci rimette le colpe, e, subito dopo, potrebbe indurci nella tentazione di peccare. Così è stato rifiutato quell’antipatico indurre ed è stato sostituito con un più blando e dolciastro abbandonare pescato chissà dove. (Dovevate limitarvi a “pescare” uomini, se non erro!)

Qui qualcosa non quadra, non certo da parte di Gesù, di Matteo, di Luca o di Girolamo, che hanno univocamente usato un verbo inequivocabile: induco (o eisfero).

Non ci saremo per caso sbagliati noi, accanendoci su quel verbo indurre? Voi ci credete che «Dio non tenta nessuno al male» (Gc 1,13), cioè che non vuol farci cadere nel male; tutt’al più, non ci sottrae alle prove (tumori, morte di un figlio, ingiustizie…), ma ci dà la forza di sopportarle (1Cor 10,13).

Ecco allora cosa chiediamo al Padre in buon italiano: di non metterci alla prova, come fece con Giobbe o Abramo, perché siamo troppo fragili e potremmo soccombere: allora ci gettiamo nelle sue braccia. Del resto, è lui stesso che ci invita a pregare di fronte a prove durissime (Mt 24,20…). Anche perché sappiamo che Dio è solito affliggere con prove coloro che egli ama (Ap 3,19).

Consideriamo con più attenzione il termine tentatio che, ai tempi di Girolamo, non certo uno sprovveduto in materia, significava principalmente e comunemente esame o prova.

Il Pater è il prezioso testamento di Gesù: non si può cambiare una sola parola in un testamento, soprattutto in questo. E poi… le mie parole non passeranno (Mc 13,31)…?!

Comunque, i saggi vescovi non si offendano se non mi fido delle loro conoscenze di latino (preferisco s. Girolamo) e delle relative traduzioni (che traduzioni non sono, ma pie trovate).

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