6. Piccola “nota”, grande rilettura

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Come si è detto fin dal giorno della pubblicazione – appena 10 giorni fa – Amoris lætitia non è semplicemente una “documento sulla famiglia”, ma è anche una potente rilettura del’intera esperienza ecclesiale, che presenta in modo lineare e profondo le fondamentali novità che la tradizione ha elaborato nell’ultimo secolo, a partire da Pio X, e che in qualche modo sono difficili da comprendere sulla base di una lettura solo “giuridica” e “formale” della dottrina. In particolare mi pare molto significativo che l’attenzione generale si sia puntata – già durante il Sinodo, ma soprattutto ora, a Sinodo concluso – sulla relazione tra “comunione ecclesiale” e “comunione sacramentale”. Soprattutto i giuristi, ma anche alcuni moralisti e qualche dogmatico, dimostrano ancora oggi di essersi legati a doppia mandata ad un modello di comprensione del rapporto tra queste “forme della comunione” che da tempo appare inadeguato e non aggiornato. Un fatto singolare è questo: già Familiaris consortio, 35 anni fa, riconosceva la crisi di quel modello di rapporto, che i nostri giuristi e moralisti attuali vorrebbero difendere a spada tratta. Perché non va dimenticato che FC riconosce la differenza tra comunione ecclesiale e comunione sacramentale, anche se non riesce a rispondere adeguatamente a questa nuova situazione. AL ha avuto il merito – sulla scia di Evangelii gaudium – non solo di mettere a nudo questa inadeguatezza e la crisi ecclesiale che ne deriva, ma di aver iniziato a rispondere autorevolmente con soluzioni non formali e non idealizzate. Proviamo a considerarle con attenzione, ricostruendone il contesto storico ed ecclesiale.

1. Che cosa significa una “lettura terapeutica” dei sacramenti?

La risposta che papa Francesco ha dato, ad alta quota, l’altro ieri, tornando da Lesbo, conferma la serietà della prospettiva di rilettura del rapporto tra “fare penitenza” e “comunicare al corpo e sangue di Cristo”. Egli ripropone, in altri termini, che i sacramenti non siano compresi come il premio per chi si è convertito, ma come il mezzo e la mediazione fondamentale di questa conversione. Una lettura classica vorrebbe continuare ad interpretare la penitenza e la comunione in analogia alla relazione che si instaura tra “premessa” e “conseguenza”. In altri termini, essa pensa così: nel momento in cui sono stato assolto, e ho potuto esserlo, solo allora posso accostarmi alla mensa eucaristica. Si deve notare che in questo modello di comprensione del “perdono del peccato”, tutto è pensato in modo “statico” e “puntuale”: da un lato si arriva all’atto di “ricevere l’ostia”, ma prima occorre trovarsi nello “stato” di poter essere perdonato. Il requisito di questo “atto formale di perdono” è una condizione esistenziale di superamento del peccato. Se, alla luce del vangelo, non sono più in stato di peccato, allora posso essere assolto.

Questa visione tende ad affermare il primato dello spazio sul tempo e della idea sulla realtà. Su questo punto Papa Francesco attinge ad una esperienza più ampia e più antica e ci chiede di riscoprire, invece, il primato del tempo sullo spazio e della realtà sulla idea. Per farlo dobbiamo recuperare la complessa dinamica sia della penitenza sia della comunione. Qui vorrei farlo in ordine inverso: prima rifletto sulla comunione e poi sulla penitenza.

2. Breve storia del rapporto del cristiano con la “comunione”

La tradizione cristiana e cattolica ha elaborato un modello di “partecipazione all’eucaristia” che costituisce non solo una “manifestazione”, ma anche un’“esperienza” della comunione. Il modello storico che ha costituito il discrimine nella interpretazione di questa manifestazione è sicuramente quello costruito dal Concilio Lateranense IV (1215) con la “comunione pasquale” e la previa “confessione e penitenza” annuale. Il “precetto pasquale” diventava criterio di comunione ecclesiale. Così è stato per molti secoli, finché si sono manifestate progressivamente una serie di “nuove esigenze”:

  • già la “Imitazione di Cristo” – il capolavoro della spiritualità del XV secolo – mostra che il rapporto con la comunione non è solo di “formale necessità”, ma di dipendenza vitale, non è solo “dovere annuale” ma “alimento spirituale”;
  • la tradizione della devozione, nei secoli successivi, ha recuperato la comunione “mensile”, soprattutto in relazione al “culto del Sacro cuore”;
  • da papa Pio X in poi, almeno a livello magisteriale, è sorta addirittura la prospettiva di una “comunione frequente”, pensata persino come “comunione quotidiana”.

Ma tutto questo non basta: questa prospettiva ha trovato ulteriore rielaborazione da quando, dopo il Concilio Vaticano II, il “fare la comunione” non è stato più compreso come “devozione parallela alla messa”, ma come “rito di comunione”, ossia come punto culminante della celebrazione eucaristica, pienezza di perdono del peccato e di partecipazione al corpo di Cristo: mediante la comunione al pane e al calice “si diventa ciò che si riceve”.

3. La trasformazione del “fare penitenza” nei secoli

Parallelamente a questo sviluppo, si è anche riletta la grande esperienza del “fare penitenza”. Qui abbiamo assistito, nei secoli, a uno sviluppo complesso, che è culminato nella rilettura tridentina, la quale, in forma ufficiale, ha proposto la differenza del “perdono del battezzato” con una certa tensione rispetto al “perdono dell’uomo”: lo spazio del sacramento della confessione è, appunto, la riconciliazione del battezzato caduto in colpa grave. Ma non è stato il Concilio di Trento, bensì la recezione post-tridentina, ad aver progressivamente “stilizzato” e insieme “sovraccaricato” il sacramento. Da un lato pretendendo di risolvere tutta la complessa dinamica di rapporto tra “atti del penitente” e “atti del ministro” nella semplice correlazione tra confessione e assoluzione; dall’altro pretendendo di ridurre tutta la penitenza ecclesiale e personale all’interno del sacramento della penitenza.

Questo fenomeno ha favorito un duplice “primato dello spazio sul tempo”: da un lato eliminando tutta la temporalità del sacramento e concentrando il suo senso sulla “immediatezza” del rapporto puntuale tra confessione e assoluzione: non vi è più “cammino di penitenza”, ma “identità tra confessione e assoluzione”; dall’altro emarginando progressivamente la dialettica delicata tra “esperienza battesimale/eucaristica di perdono” e la sua più rara ripresa nel “sacramento della penitenza”. Questa evoluzione, che è molto accelerata negli ultimi due secoli, ha suscitato, per reazione, una profonda riscoperta non solo della domanda di “tempo penitenziale” all’interno del sacramento, ma anche della relazione temporale tra “quarto sacramento” e vita battesimale/eucaristica dei soggetti ecclesiali.

4. La tradizione recente dopo Pio X e il Concilio Vaticano II: la partecipazione attiva

Uno sviluppo decisivo di tutta questa storia è avvenuto nell’ultimo secolo. Da un lato Pio X ha inaugurato una “nuova centralità” della comunione eucaristica, che da allora cambia anche la funzione del sacramento della penitenza. È interessante notare come Pio X stesso abbia iniziato a ridefinire i contorni della esperienza di “stato di grazia”, diminuendo la importanza del “confessarsi” e aumentando quella del “comunicarsi”.

Ma a tutto questo un contributo nuovo e prima impensabile viene dal Concilio Vaticano II e dalla logica della “partecipazione attiva” che la Costituzione liturgica e poi la riforma dei riti hanno reintrodotto nella esperienza ecclesiale. Da un lato il sacramento della penitenza riscopre la sua “vocazione comunitaria”; ma d’altro canto la “comunione” diventa “itinerario di partecipazione alla preghiera eucaristica della Chiesa”. Il luogo principe di “esperienza del perdono” non è più, anzitutto, una “procedura giudiziaria” di non imputazione del peccato, ma luogo terapeutico di guarigione dalle distorsione che il peccato grave introduce nella vita del battezzato. E va notato che già Trento aveva in sé questi due registri, quello giudiziale e quello terapeutico.

Che i sacramenti non siano semplicemente “luoghi puntuali e formali di costatazione del peccato superato”, ma “forme reali e temporali di cammino nella vita di fede” può essere oggi affermato sulla scia di questa tradizione, antica e recente. Purché una riduzione disciplinare e formale della tradizione non venga ostinatamente difesa come “baluardo” e “trincea” contro il tradimento della tradizione, contro il modernismo, contro la protestantizzazione… Anzi, dobbiamo riconoscere proprio il contrario: per essere pienamente cattolici, abbiamo oggi bisogno di rileggere la tradizione con lungimiranza, di riferirci anche ai pregi della modernità e di dialogare seriamente con le altre tradizioni cristiane.

5. Gli itinerari penitenziali sono anche – necessariamente – “itinerari eucaristici”

Per il discernimento e l’accompagnamento orientato all’integrazione, riscoprire le “dinamiche penitenziali” e le “dinamiche eucaristiche” diventa compito urgente e prerequisito centrale per un’autentica “conversione pastorale”. Questo ha riflessi anzitutto sulla pastorale in generale, e non soltanto nella pastorale familiare o addirittura in quella verso gli “irregolari”. Essa comporta una ripresa delle logiche di “iniziazione” dei giovani come degli adulti, con una rilettura dell’esperienza cristiana che modifichi sensibilmente il suo “stile”, il suo “linguaggio” e la sua “auto-percezione”. Potremmo identificare una serie di “criteri” con cui impostare questa “conversione pastorale”:

  • Per integrare e accompagnare giovani e adulti, non importa se in percorsi con “regolari” o con “irregolari”, occorre uscire da categorie “statiche” di identità e acquisire categorie “dinamiche” di iniziazione. Non si tratta di attivare anzitutto diritti o doveri, ma di riconoscere doni e misteri.
  • Accanto alle logiche “digitali” – che sono così necessarie tanto per i riti quanto per gli “stati giuridici” – occorre maturare una sensibilità analogica, decisiva per le progressioni esistenziali ed ecclesiali. Una divisione drastica tra “forme di vita” e “forme rituali/giuridiche” rischia di ufficializzare un “doppio registro” e una “doppia verità”, che incentivano a dismisura formalismi e ipocrisie.
  • Nella penitenza, occorre riavvicinare al sacramento del confessionale la virtù della vita battesimale ed eucaristica, senza mai dimenticare che il primo è al servizio della seconda, e non il contrario. Questo significa che la confessione sacramentale è orientata al percorso penitenziale, nel quale le esperienze centrali diventano la preghiera, la celebrazione eucaristica, l’ascolto della parola, la relazione filiale e fraterna. Queste, alla luce della parola di perdono, cambiano la vita del soggetto.
  • Nell’eucaristia, alla scissione tra parola e sacramento, tra sacrificio e banchetto – che abbiamo recepito come pesante eredità successiva alla contrapposizione col protestantesimo – abbiamo la necessità di recuperare una profonda unità di parola e sacramento, di offerta e convito. Lo stile celebrativo e l’immaginario dottrinale sono luoghi primari e dinamici di conversione, non anzitutto principi di identità e di contrapposizione.

Se come cattolici riconosceremo la decisiva importanza di un ascolto comune della Parola e di un banchetto comunitario come vertice della messa, allora avremo predisposto il “luogo dinamico” nel quale procedere con discernimento ad un accompagnamento per la integrazione. I sacramenti non sono il “semplice sigillo statico” di una avvenuta conversione, ma il luogo dinamico di elaborazione di un’esperienza filiale e fraterna della esistenza, in Cristo.

È allora ben evidente la profonda unità del disegno di papa Francesco: per integrare le forme della “irregolarità” occorre profondamente ripensare la “regola cattolica” e il “sentire cattolico”, in relazione alla ricchezza della propria tradizione e in aperto rapporto con le altre tradizioni cristiane. Per “capovolgere la domanda” sui divorziati risposati – facendo eco alla brillante intuizione del card. Martini quando suggeriva che non si tratta di chiedersi se dare o meno la comunione ai divorziati risposati, ma piuttosto se possiamo far mancare l’aiuto dei sacramenti proprio a coloro che ne hanno più bisogno – papa Francesco propone una “conversione” che riguarda l’intera pastorale, anche al di qua e al di là della famiglia.

Il profilo morale e sacramentale dei soggetti dipende dunque da un rinnovamento ecclesiologico ed ecumenico, ministeriale e spirituale. Un grande disegno si nasconde nella piccola nota 351, quando addita la riscoperta dei sacramenti non solo come “premio per i perfetti”, ma come “generoso rimedio e alimento per i deboli”. Esso corrisponde pienamente alla intenzione portante di tutto la esortazione. I pochi detrattori di Francesco devono rassegnarsi a studiare bene anche le note, se non vogliono “persistere ostinatamente” nel peccato grave della incomprensione.

Pubblicato il 18 aprile 2016 nel blog: Come se non

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