Sabato Santo: Il giorno del grande silenzio

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Nel Messale il Sabato Santo è una pagina vuota: l’assenza di riti che implicano la sua presenza, indica almeno che per un giorno nella storia Gesù era davvero morto. Ma non è che la liturgia rimanga muta e priva di suggerimenti per la riflessione e la preghiera. C’è per questo tutto l’apparato di testi approntato per la Liturgia delle ore. Basterebbe, per esempio, per ciò che si usa chiamare “elaborazione del lutto”, il bellissimo Salmo 15 previsto per l’Ufficio delle Letture (e che torna ogni giorno nella Compieta del giovedì), citato peraltro in At 2,25 nel discorso che Pietro rivolge alla folla dopo la discesa dello Spirito Santo, un testo che costituisce un’ottima riflessione su quanto è accaduto. Anche perché credo che questo sia lo scopo di questo giorno sospeso tra la morte e la risurrezione di Gesù.

Peraltro, questo “grande silenzio” come lo chiama un’anonima antica omelia, è un silenzio pieno di interrogativi, di domande inquietanti, di quelle che si sono posti le folle e i discepoli, di quelle che probabilmente si è posto Gesù stesso, almeno dal momento in cui ha cominciato a prendere coscienza che la strada da lui scelta lo avrebbe condotto a un esito che non può essere descritto se non come un netto fallimento.

Questo è stato certo il primo scoglio sul quale hanno inciampato i pochi discepoli che gli erano rimasti fedeli, e che già prima della tragica conclusione si erano dileguati, senza però sparire, perché, superato lo choc, li troviamo ancora insieme, pur se riuniti a «porte chiuse per timore dei giudei» (Gv 20,19). È una paura più che legittima, perché potevano solo prevedere che sarebbe toccata anche a loro la sorte del loro Maestro, come peraltro accadde poi, accade ora e continuerà ad accadere.

Vivere il Sabato Santo credo dunque che significhi ripercorrere gli interrogativi che si sono posti i discepoli dopo una fine che li aveva sconvolti e messi in crisi. Peraltro i “dubbi” restano nei loro cuori anche dopo gli incontri con il Risorto (cf. Mt 28,17), così come restano nei nostri anche dopo la celebrazione della croce come di una vittoria. Del resto, il dubbio è connaturato alla fede, se no che fede sarebbe?

E dunque non è inutile riprendere anche emotivamente quegli interrogativi, perché, se non li attraversiamo, quella della Pasqua rischia di essere una gioia futile e passeggera, legata a quegli elementi che caratterizzano ogni “festa”, ma che non equivalgono automaticamente alla “gioia della fede”.

Prendiamo, come si dice, il toro per le corna, e chiediamoci se abbia senso, e quale, quello di un “Messia fallito”, un vero e proprio incredibile ossimoro, perché mette insieme due realtà che, di natura, si respingono. Non è necessario che ricordi le reazioni dei discepoli, di Pietro in primo luogo, ai ripetuti annunci con cui Gesù li preparava a una conclusione che probabilmente per primo aveva faticato a capire ed accettare lui stesso, e questo fino all’ultimo.

Rileggiamole quelle reazioni, condensate in quanto scrive Luca: «Ma quelli non compresero nulla di tutto questo, quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto» (Lc 18,31-34), tre frasi per descrivere l’incomprensione! Marco aggiunge che, oltre a non capire, «avevano paura a interrogarlo» (Mc 10,32).

Occorre indugiare su questa sistematica incomprensione, che è anche nostra: se non c’è, significa che abbiamo già mentalmente anestetizzato e di fatto neutralizzato la croce, diventata da patibolo un ciondolino innocuo da mettere al collo.

Dai vangeli risulta che Gesù, a un certo punto, ha capito e accettato quello che, alla fine, gli è parsa la volontà di Dio, un’accettazione certamente angosciosa. Una paura che Giovanni anticipa a poco prima della Pasqua, a commento della parabola del chicco di grano che deve cadere e morire per portare frutto (cf. Gv 12,27-28), paura che appare in tutto il suo dramma nella notte dell’agonia, quando Gesù provò angoscia, spavento e tristezza mortale, dove pregò perché gli fosse risparmiato quel destino, concludendo però con un faticoso ma fiducioso abbandono: «non come voglio io, Padre, ma come vuoi tu» (Mt 26,39).

Pare che Gesù non abbia all’inizio né previsto, né tanto meno progettato la sua morte con quegli effetti di “salvezza” che poi le vennero attributi. È vero che poi fu lui a “volere”, cioè ad accettare tale morte («Si è immolato perché lo ha voluto lui», scrive Is 53,7), ma non per un desiderio di morte, ma perché era giunto a capire che questa era la volontà del Padre, il “piano di Dio” (cf. At 2,23), come si usa dire.

Tale piano non va però inteso ingenuamente come se si trattasse di un programma ben dettagliato consegnato alla partenza, ma come una convinzione che è andata formandosi gradualmente, e che è espressa nella Scrittura con il verbo “deve, è necessario” applicato ai fatti che sono accaduti, da leggere perciò non come incidenti casuali, anche se possono apparire così, ma pezzi di un cammino governato dal volere di Dio. Questo è quanto emerge in modo chiaro dal modo con cui soprattutto Giovanni, ma non solo, li racconta.

Possiamo chiederci per quali strade Gesù, e dietro a lui la sua comunità, sono arrivati a concepire tale piano. La via era segnata dalle profezie, e l’esito di una ricerca per cogliere il senso di quel fragoroso fallimento è ben riassunta da Luca nel rimprovero che Gesù rivolge ai due di Emmaus, che in quella sera del primo giorno stavano cercando di capire cosa era successo, come i loro compagni a Gerusalemme: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,26-27). Ma si veda anche Mc 8,31; Mt 16,21; Lc 9,22; At 17,3.

Una volta che si capì che Gesù andava letto come Messia secondo la figura del profeta, la sua vita non poteva che finire come è finita, sia per il prezzo da pagare, sia per il frutto che sarebbe derivato dalla sua morte. Sicuramente, da questo punto di vista hanno avuto un’importanza enorme i passi di Isaia riferiti al «servo sofferente di Dio», l’ultimo dei quali è stato letto ieri, e che già si trova citato in Mt 8,17, dove si applica al ministero delle guarigioni di Gesù il passo che dice: «Egli ha preso su di sé le nostre infermità e si è caricato delle malattie» (Is 53,4).

Poi si arriverà a comprendere che in lui c’era anche la figura del Messia re, con la precisazione che il suo trono era la croce e, infine, avrebbe anche assunto la figura del Messia sacerdote, specificando che, nell’offrire il sacrificio, lui era nel contempo il sacerdote e la vittima.

Si trattava nientemeno che di un ribaltamento delle ingenue attese riferite a queste tre figure diffuse nel popolo, e che, rispetto a quelle attese, Gesù era decisamente un Messia fallito.

Nessuno sa quanto tempo sia stato richiesto per operare tale cambiamento di prospettiva, e se la risurrezione ha dato un avvio decisivo a tale rivisitazione delle attese, non ha certo chiuso tutti i problemi, né per loro né per noi.

E questo perché il paradosso per cui nei piani di Dio dal fallimento nasce il successo, che è poi un altro modo di dire che dalla morte nasce la vita, dobbiamo imparare a digerirlo anche noi. Ne va della figura di Dio, che da questa storia esce non come un Essere crudele e assetato di sangue, come qualcuno ha detto e dice. Al contrario, nella vicenda di Gesù di Nazareth appare l’immagine di un Dio che nel suo Figlio subisce il peso del male che ferisce il mondo, e lo guarisce sopportandolo nella mitezza.

La lezione per noi è chiara, e nasce dall’intreccio indissolubile tra mistero (cf. Fil 2,6-11) ed esempio (cf. 1Pt 2,21-25): il mistero che suscita il nostro grazie a un Dio che ci ha amato sino a morire per noi, l’esempio per seguire la sua logica che fa dell’abbassamento la strada per riuscire davvero nella vita, da spendere nel servizio e nell’attenzione ai più deboli, e nel rifiuto di ogni violenza per «vincere il male con il bene» (Rm 12,21).

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