Vescovi esautorati dal Rescritto?

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Poiché in seguito al Rescritto del 20 febbraio scorso si sono ascoltate reazioni veramente poco giustificabili, se non in una logica di accecamento da schieramento avverso all’attuale papa, vorrei brevemente confutare una delle posizioni emerse dal dibattito e che riposa su una sorta di «smemoratezza» circa il profilo reale della questione in gioco.

Lascio la parola per un attimo ad un osservatore attento come Giovanni Marcotullio, che così ha sintetizzato la sua posizione intorno al documento: «Si deve osservare che la tendenza attuale tende a riprodurre (uguale e contrario) l’errore già lamentabile in Summorum pontificum, e cioè l’esautorazione dei vescovi».

Prendo la sua sintesi perché mi pare pacata e capace di dire, con brevitas classica, una riserva emersa da diversi fronti, che però a mio avviso risulta del tutto infondata, proprio perché, capovolgendo un argomento originariamente fondato (quello dell’esautoramento) lo snatura e lo applica oltre la sua possibile giustificazione.

La questione decisiva che si sollevava da tempo, a partire dal 2007, era che i vescovi venivano esautorati della loro potestà sulla liturgia, giacché Summorum pontificum effettivamente istituiva un parallelismo rituale insieme a un parallelismo di competenze.

Se sulla forma ordinaria erano competenti vescovi e Congregazione del culto, per la forma straordinaria risultava competente una Commissione (Ecclesia Dei) che esautorava sia i vescovi sia la Congregazione del culto. Di fatto, sia i vescovi sia la Congregazione venivano scavalcati nel giudizio sull’esercizio della «forma straordinaria» del rito romano. Questo fatto, però, incideva ovviamente anche sulla potestà sulla «forma ordinaria», poiché ne limitava strutturalmente l’efficacia. C’era sempre «un altro tavolo» dove qualcuno poteva giocare contando sulla copertura romana.

Ciò che accade oggi non può essere letto in nessun modo come «errore uguale e contrario», perché non vi è più quel «parallelismo rituale», istituito da SP e superato da TC, che permetterebbe oggi di dire ai vescovi di «aver perso l’autorità sulla forma straordinaria». Il paradosso è che i vescovi non hanno mai avuto, dopo il 2007, un’autorità sulla forma straordinaria: la autorità era loro garantita da Ecclesia Dei.

Oggi, però, non possono averla non perché esautorati, ma perché non esiste più alcuna «forma straordinaria» del rito romano, ma una sola forma rituale, che corrisponde all’unico ordo postconciliare. Ogni eccezione a questo può essere concessa, per ragioni di discernimento o di prudenza, direttamente o indirettamente, dalla Sede Apostolica.

Questo nuovo equilibrio, determinato da Traditionis custodes nel 2021, se trova opposizione in alcuni vescovi, è solo perché i vescovi continuano a pensare con una logica di «doppia forma vigente». Forse questo si deve anche al fatto, soggettivamente non secondario, che per diventare vescovi, almeno fino al 2013, molti di loro hanno dovuto dar prova specifica di una particolare sensibilità verso il VO: ma è altrettanto certo che i vescovi dovrebbero essere convinti di lavorare per l’unità della Chiesa mediante l’unico rito vigente. Se poi incontrano condizioni particolari (non nel loro cuore, ma nei loro territori) allora possono rivolgersi alla Santa Sede. Sono certo esautorati dalla tentazione di poter (o di dover) proteggere a tutti i costi ogni possibile resistenza al Concilio Vaticano II: non fa parte del loro carisma impegnarsi pastoralmente in battaglie di retroguardia.

Ultima curiosità da segnalare. Una delle obiezioni capziose all’ultimo provvedimento di papa Francesco è questa: tanta retorica sulla differenza, sulla partecipazione e sulla pluralità delle culture, ma poi in liturgia solo gesti di duro centralismo. Credo che per tutti sarebbe utile leggere le cose in modo più fine. Il VO non ammetteva alcuna differenza rituale, mentre è il NO che ha al suo interno una pluralità possibile, di attuazione o di adattamento.

Mettere in parallelo il rito di Pio V e il messale congolese è storicamente e teologicamente un’assurdità. Quando il papa dice che «una sola è la lex orandi» tiene aperta la via della pluralità. Sono quei vescovi che vorrebbero tenere sempre il piede in due scarpe a non rinunciare all’ipotesi che la Chiesa cattolica sia vera solo se resta (almeno all’altare) visibilmente tridentina. Tenere il piede in due scarpe, liturgicamente, non è da vescovi: su questo il Rescritto è adamantino.

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18 Commenti

  1. Anima errante 5 marzo 2023
    • Adelmo Li Cauzi 6 marzo 2023
      • Gabriele da Peseggia (fu anima errante) 7 marzo 2023
  2. Adelmo Li Cauzi 28 febbraio 2023
    • anima errante 2 marzo 2023
      • Adelmo Li Cauzi 3 marzo 2023
        • Anima errante 5 marzo 2023
          • Adelmo Li Cauzi 6 marzo 2023
  3. Giovanni Franchi 25 febbraio 2023
    • Anima errante 26 febbraio 2023
    • luigi 26 febbraio 2023
      • anima errante 3 marzo 2023
  4. Gian Piero 25 febbraio 2023
    • Anima errante 26 febbraio 2023
  5. anima errante 24 febbraio 2023
    • Andrea Grillo 25 febbraio 2023
      • Anima errante 26 febbraio 2023
      • Adelmo Li Cauzi 4 marzo 2023

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