VI Istruzione/9: la traduzione non è mai solo un atto di autorità

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Come abbiamo visto già in altri casi – all’interno di questa rubrica “VI Istruzione” – la traduzione liturgica deve essere intesa come atto ecclesiale e come delicata operazione di inculturazione. Nel suo libro sulla questione della traduzione della “formula eucaristica sul calice” Francesco Pieri ha scritto pagine importanti che meritano di essere lette per guardare con fiducia e in modo costruttivo ad una futura nuova istruzione. Mi limito a riprenderle, con alcune sottolineature, che aiutino nel percorso di ripensamento in vista di una nuova e urgente Istruzione, che superi i limiti e le lacune gravi del testo di Liturgiam authenticam. Esso – secondo le competenti analisi di Pieri – appare segnato non solo da gravi problemi di “teoria della traduzione”, ma anche da una visione ecclesiologica assai unilaterale e da una comprensione liturgica molto problematica dopo le acquisizioni maturate dal Concilio Vaticano II.

1) La traduzione è un’operazione culturale, come tale essa sfugge all’argomento di autorità

«Essendo un’operazione strettamente pertinente all’ambito della mediazione linguistica, la traduzione non sfugge alle regole comuni del lavoro culturale. (…) Anche nel campo della traduzione – si tratti di testi liturgici, biblici o di qualsiasi altro genere – l’argomento di autorità non può reclamare per sé un valore assoluto. Per questo, fermo restando naturalmente l’unità della fede e della disciplina in necessariis, il dibattito teologico si colloca come un’esigenza insopprimibile tra l’esercizio del magistero ecclesiale e il popolo di Dio. Se da una parte è infatti impensabile che tutte la conoscenze necessarie possano riassumersi nelle sole istanze centrali, dall’altra non mancano certo nella Chiesa cattolica le sedi accademiche di grande prestigio, le commissioni consultive, le capacità organizzative per interpellare su larga scala gli esperti in materia biblica, teologica e liturgica. A condizione, naturalmente, di volerlo fare davvero». [F. Pieri, Sangue versato per chi? Il dibattito sul pro multis, Giornale di teologia 369, Queriniana, Brescia 2014, pp. 11s]

2) La competenza dell’episcopato sulla lingua delle proprie Chiese è inalienabile

«È all’episcopato che, in base alla normativa vigente, compete il diritto di curare le traduzioni liturgiche in rispettivi idiomi (CIC can. 838, 2), sottoponendole solo dopo all’approvazione ed emanazione canonica della Santa Sede. Liturgiam authenticam 104 prevede [invece] il caso di possibile deroga al principio della pertinenza alle conferenze episcopali nella preparazione dei testi… lasciando in tale caso agli episcopati la sola approvazione di essi. Si può come minimo osservare che andrebbero meglio esplicitati i presupposti ecclesiologici di tale eccezione; la sua motivazione come eventualmente richiesta dal “bene dei fedeli” appare assai generica. […].

Emerge quindi un serio interrogativo ecclesiologico circa il diritto stesso dell’istanza romana a compiere scelte applicative (come indubbiamente è la preparazione dei testi liturgici nelle lingue vernacole), intervenendo ben prima della recognitio canonica nel merito della traduzione stessa, entrando cioè in un ambito di stretta competenza dei vescovi di ogni singola nazione e area linguistica. […] È in gioco il modello stesso dell’ecclesiologia di comunione. La soggettività apostolica dell’episcopato è originaria, non deriva per delega o per “cascata di poteri” dalla Sede romana. La recognitio dei testi liturgici da parte della Santa Sede ha certo la sua logica profonda nel servizio dell’unità. Nondimeno l’episcopato di ogni Chiesa particolare costituisce il soggetto apostolico concreto il quale – in comunione con le altre Chiese e la Chiesa di Roma che ad esse presiede nella carità – è responsabile dell’evangelizzazione entro una regione linguisticamente e culturalmente omogenea. Nel suo esercizio concreto, la presidenza romana non dovrebbe occultare il fatto che l’unità nella fede e nella carità si realizza attraverso la comunione di ciò che è necessariamente plurale».  [F. Pieri, Sangue versato per chi? Il dibattito sul pro multis, pp. 12-14, con integrazioni]

3) La traduzione è atto di inculturazione, carattere intrinseco di ogni processo tradizionale

«Anche storicamente non si dà un messaggio evangelico “puro” alle spalle di quello declinato culturalmente nelle comunità degli evangelisti e depositato solo successivamente nei loro scritti. Si potrebbe obiettare che tale molteplicità dei vangeli corrisponde piuttosto alla pluralità dei riti, che non alle diverse lingue in cui è ammessa la versione della liturgia latina, le quali non rappresentano altrettante “famiglie rituali”. Nondimeno nel concreto il rito romano sussiste oggi simultaneamente nella sua forma tipica in latino e nelle sue molteplici versioni e forme approvate: si tratta di una situazione inedita nella bimillenaria storia della liturgia cristiana, le cui implicazioni epocali non sono forse state ancora completamente interiorizzate da tutti: il linguaggio, le parole non possono ridursi alla stregua di asettici contenitori di idee, giacché esse affiorano nel testo gravide della loro storia letteraria e delle loro valenze correnti: la composizione del testo liturgico in lingua moderna rappresenta un vero e proprio atto di inculturazione, che trae la sua forza comunicativa non solo dal modello retrostante, ma insieme anche dai mezzi (e limiti) espressivi propri alla nuova lingua e all’intero mondo culturale che in essa si sedimenta». [F. Pieri, Sangue versato per chi? Il dibattito sul pro multis, Giornale di Teologia 369, Queriniana, Brescia 2014, pp. 14s]

4) La tradizione cristiana nasce e cresce attraverso la sua traduzione

«Non meno che nel generare nuova vita, la Parola del Risorto compie la sua corsa proprio nel “parlare lingue nuove” (cf. Mc 16,17). Una corsa che il cristianesimo ha inscritta nelle sue stesse origini, giacché solo esso (a differenza delle stessa altre grandi fedi abramitiche) ritiene di non avere alla sua origine nulla che sia stato scritto dal proprio fondatore. Il suono e la forma originale delle parole di Gesù ci è per sempre precluso: quanto da lui detto e compiuto in una remota provincia orientale dell’Impero iniziò infatti a diffondersi nel Mediterraneo non attraverso il suono della lingua da lui parlata (sconosciuta ai più), ma attraverso la trasposizione linguistica e culturale del suo messaggio nel greco della koinè ellenistica, vera globalizzazione dell’antichità.

Nell’epoca della liturgia in lingua vivente la corsa della Parola si chiama anche traduzione. L’uso liturgico della lingua vivente non costituisce un’innovazione ardita dei nostri contemporanei, ispirata dalla volontà di soppiantare la tradizione, ma il suo esatto contrario: essa significa precisamente il ritorno a quanto avvenne in quei secoli nei quali il latino offrì per primo all’annuncio evangelico e alla celebrazione del mistero cristiano la propria capacità comunicativa, proprio in quanto lingua dell’Occidente e non in virtù di una sua intrinseca sacralità, che costituisce una nozione del tutto astorica.

Un sano, per quanto non ingenuo, ottimismo cristiano chiede di guardare con fiducia alla storia anche presente. La verità non si trova soltanto alle nostre spalle, radicata nella storia della salvezza e nell’evento irripetibile dell’incarnazione, ma al contempo dinanzi a noi, nel compimento verso cui lo Spirito sospinge incessantemente ogni cosa. La tradizione ecclesiale di innesta negli eventi originari e protende la nostra speranza verso Colui che viene, ma non conosce le tappe, indeducibili dal passato, attraverso cui Dio guida il suo popolo». [F. Pieri, Sangue versato per chi? Il dibattito sul pro multis, pp. 54s, con lievi adattamenti]

5) Comprensione linguistica e partecipazione attiva

«Non si dovrebbe nemmeno sottolineare – se non vi fosse chi oggi vorrebbe di nuovo sminuire completamente tale aspetto e persino a giudicarlo non essenziale – il fatto che la partecipazione attiva (actuosa participatio) alla liturgia abbia un suo evidente presupposto nella possibilità dei fedeli di comprendere e fare proprio il linguaggio della celebrazione, sul piano sia verbale che mentale. […] Il concetto della actuosa participatio liturgica ricorre una decina di volte nei documenti conciliare. Particolarmente esplicito riguardo al nesso tra partecipazione attiva e comprensione linguistica è [Sacrosanctum Concilium 48]: “La Chiesa rivolge attente premure affinché i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma, comprendendolo bene (bene intellegentes) per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente”.

Sebbene la partecipazione liturgica non si esaurisca certo nella sola dimensione linguistica, nondimeno era ben chiara negli estensori [di Sacrosanctum concilium e] di Comme le prévoît la convinzione che l’intelligenza dei testi celebrativi rappresenti un bene fondamentale dal quale nessuna comunità e nessun fedele dev’essere escluso. […]

Tutte le istruzioni applicative di Sacrosanctum concilium, proprio perché applicative, non possono che presupporne il dettato “costituzionale”, cioè basilare, secondo cui – lo ricordiamo – la preoccupazione per la comprensibilità e dignità della liturgia anche nelle lingue odierne, per la sintonizzazione del linguaggio rituale sui codici culturali e linguistici dell’assemblea celebrante rimane l’istanza primaria». [F. Pieri, Sangue versato per chi? Il dibattito sul pro multis, pp. 4s.57]

Pubblicato il 29 marzo 2016 nel blog: Come se non

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