Diaconato: il vescovo può non volerlo?

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Questo articolo è una riflessione teologico-pastorale sul diaconato attraverso un serrato confronto con il libro di don Dario Vitali “Diaconi, che fare?”, a partire dalla messa in questione dell’affermazione che «un vescovo possa decidere di non ordinare diaconi nella sua Chiesa» (p. 161), non compatibile con il modello ministeriale, proprio della Chiesa dei primi secoli e riproposto dal Vaticano II, basato «sulle relazioni costitutive dei tre soggetti gerarchici – vescovo presbiteri, diaconi – nella Chiesa particolare» (p. 132).

Ho letto con molto interesse il libro sul diaconato di don Dario Vitali, su cui sento il bisogno di scrivere alcune annotazioni. Appartengo alla Pia Società San Gaetano di Vicenza, formata da preti e diaconi, fondata da don Ottorino Zanon, prete della diocesi, morto a 57 anni nel 1972 e ora venerabile. Lo scorso anno abbiamo celebrato i 50 anni dei primi diaconi ordinati in Italia, che erano religiosi della mia Congregazione.

Ho conosciuto don Dario quando, nel 2009, è venuto a farci una relazione sul diaconato nel nostro 8° Capitolo, che avevamo dedicato totalmente a questo tema, che è chiave per noi. L’ho poi ascoltato più volte in altre occasioni, l’ultima al Convegno della Comunità del diaconato in Italia, celebrata proprio lo scorso anno qui nella nostra città. Ho anche letto vari suoi apporti riguardanti il diaconato.

Lo ringrazio perché personalmente colgo in lui la competenza del professore, che insegna ecclesiologia alla Gregoriana, unita all’esperienza del pastore che cammina con le pecore, come dice Papa Francesco. Sento che il libro da lui scritto sul diaconato, anche se con un titolo che subito mi ha lasciato abbastanza perplesso – ma, si sa, i titoli li mettono più gli editori che gli autori –, è la risposta generosa a una esigenza impellente che la Chiesa e la teologia prendano sul serio il diaconato che ha urgente bisogno di approfondimento e di chiarezza. E don Dario non si è tirato indietro, affrontando la sfida con coraggio e concretezza.

Da parte mia l’interesse personale per il diaconato viene dal mio DNA carismatico, che mi aveva spinto a prenderlo come tema della mia tesi dottorale in teologia dogmatica alla Gregoriana nel lontano 1973. Credo che fu, se non la prima, sicuramente una delle prime tesi dottorali sull’argomento scritte sul tema dopo il Vaticano II, il quale aveva re-istituito il diaconato come «grado proprio e permanente della gerarchia ecclesiastica» (Lumen gentium 29). Naturalmente mi ha fatto piacere che don Dario abbia citato la mia tesi nella bibliografia del suo libro e lo ringrazio.

Motivazione, metodo, contenuto dell’articolo

Il motivo ora di scrivere sul libro di don Dario lo sento come una necessità di cogliere la sfida del titolo Diaconi, che fare?, cercando di mettermi in gioco anch’io, in un dialogo fraterno, schietto e diretto di natura teologico-pastorale, che possa aiutare la Chiesa di oggi ad accogliere con maggiore consapevolezza il dono del diaconato.

Come metodo mi propongo di procedere per punti, facendo stretto riferimento ad alcuni testi scelti dal libro, mettendoli a confronto e interagendo con essi per avanzare nell’approfondimento e la comprensione dei temi che affrontano. Ritengo che questo potrebbe aiutare anche il lettore, che non abbia letto o non abbia davanti il libro, a seguire chiaramente lo sviluppo di tale confronto e ad elaborare a sua volta il proprio pensiero e, se fosse possibile, anche un proprio apporto.

Del contenuto del libro mi propongo di mettere, per così dire, sotto lente la parte terza, intitolata «Una rilettura teologico-pastorale». All’inizio di questa parte Vitali definisce così l’intenzionalità del suo lavoro teologico sul diaconato: «Si tratta di tenere fissi i punti più chiari del discorso per tentare una rilettura del diaconato fedele alla Tradizione nel momento stesso in cui si interroga su un presente incerto e pieno di dubbi». Il ricupero di «elementi fermi» potrà permettere – scrive ancora Vitali – di «rileggere… una figura ministeriale che per il concilio costituisce una promessa feconda e che per l’oggi della Chiesa si offre come una risorsa e non come un problema».

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Queste due polarità «promessa-risorsa» e «dubbio-problema» sono un leitmotiv del procedere argomentativo di questa parte del libro, caratterizzato, a mio parere, da una continua pendolarità tra una polarità e l’altra nel susseguirsi dei punti trattati, anche se l’intenzionalità che la prima polarità prevalga sulla seconda è spesso ribadita.

Anch’io vorrei procedere per punti, che non corrispondono però ai punti del libro, ma servono solo a mettere ordine alle mie osservazioni e domande, per indicare i passi di un mio cammino di riflessione.

Punto nodale: il vescovo può decidere di non ordinare diaconi nella sua Chiesa?

Vorrei partire da un punto nodale dal punto di vista teologico-pastorale, che, secondo me, fa pendere inevitabilmente l’ago della bilancia delle due polarità dalla parte negativa, quella del «dubbio-problema». È l’affermazione che «un vescovo possa decidere di non ordinare diaconi nella sua Chiesa». Vitali lo dice a più riprese.

«Questa destinazione [del diacono] ad ambiti particolari di servizio [della carità e dell’amministrazione] spiega anche il fatto che un vescovo possa decidere di non ordinare diaconi nella sua Chiesa: mentre egli non può agire in persona Christi da solo, senza “l’opera collettiva del suo presbiterio”, può provvedere agli altri ambiti e alle altre necessità del suo popolo in altro modo, o concentrando le funzioni nelle mani dei presbiteri, o attribuendo a laici qualificati incarichi specifici. Né sarebbe bene che il vasto campo dell’apostolato dei laici, fondato sul diritto nativo di partecipare alla vita e alla missione della Chiesa in forza del battesimo, sia totalmente appaltato a ministri: si tornerebbe per altra via a una Chiesa clericale» (p. 161).

«La grazia sacramentale dell’ordinazione abilita il diacono a esercitare in modo permanente il servizio nella Chiesa, a nome e per conto del vescovo. Non si può comprendere adeguatamente il diaconato al di fuori di questo legame, che lo costituisce. Lo dimostra il fatto che il vescovo – il quale non può essere principio di unità nella sua Chiesa senza il presbiterio – non sia tenuto a ordinare diaconi, e lo faccia come possibilità di estendere il suo ministero a favore del Popolo che gli è affidato» (p. 183).

«… sarebbe bene promuovere in ogni Chiesa, accanto al presbiterio, la presenza dei diaconi, anche se non può essere un obbligo, a meno che la Chiesa non si obblighi essa stessa con una decisione collegiale» (pp. 162–163).

Testi a confronto

Faccio ora le mie osservazioni e domande a partire da questi testi e mettendoli a confronto con altri dello stesso libro.

Innanzitutto, credo che non si possa affermare che il vescovo «non può agire in persona Christi da solo, “senza l’opera collettiva del suo presbiterio”». Lo stesso Vitali scrive in un’altra parte del libro:

«Il vescovo – e solo il vescovo – è colui che ripresenta in termini pieni ed esemplari Cristo-capo, perché è lui, e unicamente lui – non il presbitero e nemmeno il presbiterio nel suo insieme il visibile principio e fondamento di unità della sua Chiesa…» (p. 132).

Con questa seconda affermazione come si può sostenere l’affermazione precedente sulla non possibilità che il vescovo agisca da solo in persona Christi senza i presbiteri? Altra cosa, invece, è affermare la necessaria unità del vescovo con il suo presbiterio («I sacerdoti… costituiscono col loro vescovo un solo presbiterio», dice la Lumen gentium), che è uno dei punti forza della visione del ministero delineata dal Vaticano II. Quello che, comunque, certamente non si può dire è che il vescovo possa decidere di non ordinare presbiteri nella sua Chiesa.

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Di fronte, poi, alla possibilità che il vescovo, invece, possa decidere di non ordinare diaconi nella sua Chiesa, Vitali dopo avere fatto una serie di affermazioni sulle ragioni che potrebbero avallare questa decisione, alla fine si domanda: «Ma se così stanno le cose, quale sarebbe la necessità o l’utilità dei diaconi? Non si dimostrerebbe in tal modo l’assoluta superfluità di questo ordine nella Chiesa… stretto come sarebbe tra il sacerdozio ministeriale e l’ampia gamma dei ministeri laicali?» (pp. 161).

A cui risponde: «In realtà, due sono i motivi che ne giustificano non solo l’esistenza, ma la collocazione nel ministero ordinato: il fatto che il vescovo li associ al suo ministero, e che invochi per questo una grazia sacramentale mediante l’imposizione delle mani. In tal modo i diaconi non svolgono un compito a partire da un diritto-dovere che è dato ad ogni battezzato: anche svolgendo il medesimo compito di un laico, lo fanno per una ragione ben diversa, perché assumono una funzione in quanto chiamati dal vescovo e da lui mandati per prolungare il suo ministero a favore della comunità. E qui si coglie anche il secondo motivo, già più volte evidenziato: il servizio appartiene in termini così decisivi al ministero ordinato, che esiste un ordine dentro il sacramento dell’Ordine che lo manifesta in termini espliciti e diretti, con una dedicazione totale» (p. 162).

 Se ne deduce, quindi, che la non superfluità dei diaconi è fondata sulla loro ordinazione diaconale per l’imposizione delle mani del vescovo, attraverso la quale il “servizio” diventa appartenenza specifica al ministero ordinato.

E a sostegno di questo c’è un’altra affermazione di Vitali nel suo libro: «… non solo il diaconato, ma l’intera questione del ministero va ripensata alla luce del ressourcement che ha guidato i Padri conciliari nel discernere quale volto lo Spirito volesse dare alla Chiesa di oggi. D’altra parte, la triade vescovo, presbiterio, diaconi costituiva la struttura portante del modello di Chiesa dei primi secoli, alla quale i Padri conciliari si sono ispirati per disegnare l’ecclesiologia di Lumen gentium» (p. 119).

E un po’ più avanti scrive ancora: «Il ritorno alla fonti, voluto dal concilio, non riguarda unicamente il modello di Chiesa, ma anche il modello di ministero, come si può facilmente arguire dal fatto che Lumen gentium proponga il superamento dello schema tridentino, ripristinando la struttura gerarchica dei primi secoli: ‘In tal modo il ministero divinamente istituito viene esercitato in ordini diversi da coloro che già in antico [iam ab antiquo] vengono chiamati vescovi, presbiteri, diaconi» (p. 123).

Osservazioni e domande

Dopo una semplice comparazione tra questi testi, su quale base Vitali può, dunque, affermare che è nel potere del vescovo di non ordinare diaconi nella sua Chiesa? Mi pare che nel libro non lo dica, almeno espressamente.

A mio parere ciò deriva dall’insistenza con cui nel libro egli sottolinea che l’ordinazione del diacono definita dal concilio non al «sacerdozio» (ad sacerdotium) ma al «servizio» (ad ministerium), anticamente fosse espressa nella formula originaria come «servizio del vescovo» (ad ministerium episcopi), stabilendo con lui un legame di tipo sacramentale. Insistenza, a mio parere, non necessaria dopo che il concilio ha definito la sacramentalità dell’episcopato come «pienezza del sacramento dell’ordine», su cui sia la dimensione del «sacerdozio» dei presbiteri che la dimensione del «servizio» dei diaconi sono radicalmente ancorate come alla propria sorgente.

Certamente, a mio parere, tale legame-dipendenza dei diaconi con il vescovo non può essere utilizzato per dimostrare che il vescovo possa anche sentirsi autorizzato a decidere che non ci siano diaconi nella sua Chiesa, essendo che è la stessa struttura ministeriale a esigerli, come si è detto sopra. Sarebbe difficile non pensare in questo caso alla arbitrarietà di una tale decisione.

Nemmeno il vescovo potrebbe trovare motivo per una non ordinazione dei diaconi nella sua Chiesa, se riuscisse a concentrare le funzioni diaconali in quelle sacerdotali dei presbiteri, cosa certamente da evitare – come del resto è auspicato in altre parti del libro –, oppure se tali funzioni le attribuisse ai laici, nel quale caso sarebbero di diversa natura – come si evidenzia anche qui in altre parti del libro –.

Quanto poi al rischio di clericalismo nell’ordinazione di diaconi, si sa bene – e continua a ricordarcelo papa Francesco – che il clericalismo può annidarsi dappertutto. Da esso sia i vescovi, i preti e i diaconi, ma anche i laici – non solo quelli credenti –, dovrebbero sempre guardarsi.

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Penso, inoltre, che su questa affermazione della possibilità del vescovo di decidere di non avere diaconi nella sua Chiesa un peso lo abbia avuto – anche se mi pare non sia detto nel libro – il dettato conciliare di tipo disciplinare, che, dopo che è stata approvata la reistituzione del diaconato permanente, prescrive: «Spetterà poi alla competenza dei raggruppamenti territoriali dei vescovi, nelle loro diverse forme, di decidere, con l’approvazione dello stesso sommo Pontefice, se e dove sia opportuno che tali diaconi siano istituiti per la cura delle anime».

Di fatto, purtroppo, i diaconi non ci sono ancora in una vasta parte della Chiesa, soprattutto dell’Africa e dell’Asia. E anche in America e in Europa, dove le vocazioni diaconali sono le uniche a registrare un continuo aumento, non mancano i vescovi che, pur avendo già i diaconi nelle loro Chiese, scelgano di segnare un po’ il passo per le future ordinazioni, con la motivazione che è meglio fermarsi per fare delle verifiche sul diaconato a causa delle difficoltà e problematiche insorte con alcuni diaconi. Su questo punto dico sempre con po’ di ironia, che se si dovesse utilizzare lo stesso criterio per i presbiteri, si dovrebbero chiudere un bel po’ di seminari e di case di formazione, già di per sé ridotti a numeri minimi.

Interessante proposta possibile

Trovo, comunque, interessante quanto dice Vitali nella terza delle prime citazioni riportate sopra al riguardo del punto nodale. Egli, riaffermando ancora una volta che il vescovo non ha l’obbligo di ordinare diaconi, aggiunge una specie di clausola: «a meno che la Chiesa non si obblighi essa stessa con una decisione collegiale» a richiedere tale obbligo. Egli cioè vede possibile una decisione collegiale della Chiesa, che obblighi tutti i vescovi a promuovere in ogni Chiesa, accanto al presbiterio, la presenza dei diaconi.

Se Vitali da ecclesiologo pensa come possibile questa obbligatorietà, perché non dedicare a questa possibilità l’impegno più grande da parte dei teologi e dei pastoralisti per promuovere che questa decisione sia presa da parte della Chiesa, piuttosto che affermare – incorrendo, a mio parere, in una grande contraddizione che reca molto danno al diaconato – che l’obbligatorietà non esista?

Questa decisione avrebbe certamente un alto valore simbolico per la promozione del diaconato e avrebbe sicuramente l’effetto di far pendere l’ago della bilancia sulla polarità positiva del diaconato come «promessa-risorsa-opportunità-dono» per tutta la Chiesa. Perché dimostrerebbe che non è certamente un fatto circostanziale che ci siano i diaconi, ma che essi sono il segno di una nuova strutturazione del ministero come conseguenza di una nuova strutturazione della Chiesa.

Scrive lo stesso Vitali: «…prima è più che sul versante ministeriale, la dottrina della sacramentalità dell’episcopato ha indotto un cambio profondo sul versante ecclesiologico. Ma le affermazioni sulla Chiesa hanno di necessità imposto un ripensamento del sacramento dell’ordine. Il Vaticano ha posto le fondamenta di questo ripensamento, avviando la costruzione di un modello ministeriale fondato sulla ripresa – come si è visto – della struttura gerarchica dei primi secoli, articolata non tanto in gradi del sacramento dell’ordine – episcopato, presbiterato, diaconato – ma sulle relazioni costitutive dei tre soggetti gerarchici – vescovo, presbiteri, diaconi – nella Chiesa particolare» (p. 132).

Ciò richiederebbe naturalmente di prendere veramente sul serio fino in fondo l’unità dell’unico sacramento dell’ordine radicalmente fondata sulla sacramentalità episcopale, che nella sua pienezza include le due dimensioni del “sacerdozio” e del “servizio”, partecipate in maniera differente da presbiteri e da diaconi.

Ecco ancora un denso testo di Vitali: «La complementarietà del ministero presbiterale e di quello diaconale è riemersa nel momento stesso in cui il concilio ha affermato la sacramentalità dell’episcopato… Il Vaticano II ha recuperato la visione sacramentale dei primi secoli, sostenendo che con l’ordinazione episcopale viene conferita “la pienezza del sacramento dell’ordine, quella che la consuetudine liturgica della Chiesa e la voce dei santi Padri chiama il sommo sacerdozio, la somma del sacro ministero”. E di somma si tratta, in quanto nell’unico ministero del vescovo si compongono in unità la funzione “ad sacerdotium” e la funzione “ad ministerium”…» (p. 178).

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Sacramentalità del diaconato a rischio?

Il problema nasce quando Vitali più avanti scrive: «Ma i due ordini sono di natura diversa e appartengono al sacramento dell’ordine per ragioni diverse. I presbiteri, partecipando al sacerdozio di Cristo, sono configurati a lui nel carattere sacramentale che li abilita ad agere in persona Christi, in unità con il vescovo, sommo Sacerdote del suo gregge, con il quale formano un unico presbiterio e svolgono un’opera collettiva a servizio del Popolo santo di Dio. I diaconi sono assunti nell’ordine in ragione del legame con il vescovo, che li associa al suo ministero di cura del Popolo di Dio per compiti specifici di natura strettamente ministeriale, come lascia intendere il concilio quando parla di «uffici della carità e dell’amministrazione’. È questo l’ambito proprio del ministero diaconale, e non quello liturgico-sacramentale, che è sempre esercitato come forma di concessione e di delega, appartenendo di norma a quanti sono costituiti nella capacità di agere in persona Christi» (p. 181).

È un testo che, a mio parere, formula il vero motivo dell’affermazione che il vescovo possa prendere la decisione di non ordinare diaconi nella sua Chiesa, che è quello che essi non agiscono in persona Christi. Ma in questo modo temo che la sacramentalità del diaconato, ridotta ad un’associazione al ministero del vescovo per compiti specifici di natura strettamente ministeriale e per di più sganciati dall’ambito liturgico-sacramentale, sarebbe messa seriamente a rischio.

Prova ne sia anche il fatto che nel libro di Vitali sia data come scontata la possibilità di ordinazione diaconale delle donne, proprio nel contesto della affermazione che solo i presbiteri sono abilitati ad agere in persona Christi. Personalmente penso che se la porta che si volesse aprire all’ordinazione delle donne fosse quella per cui passasse anche un ulteriore indebolimento dell’affermazione della sacramentalità del diaconato, sarebbe decisamente, a mio parere, la porta sbagliata.

Sacramentalità – secondo alcuni commentatori – affermata già debolmente dallo stesso Vaticano II, che ha scelto di non esprimerla direttamente ma solo di insinuarla attraverso l’espressione che i diaconi sono «sostenuti dalla grazia sacramentale». Credo che la possibilità dell’ordinazione diaconale per le donne dovrebbe essere affrontata in un diretto confronto con il sacramento dell’ordine nella sua interezza.

Opino che il motu proprio Omniun in mentem di Benedetto XVI del 2009, abbia contribuito non poco a rischiare di andare verso l’indebolimento della sacramentalità del diaconato. Anche se Manfred Hauke, a conclusione di un importante Convegno internazionale su “Il profilo specifico del diaconato” da lui organizzato a Lugano nel 2014, ha ridimensionato il valore delle affermazioni del motu proprio.

Ma che tipo di sacramentalità sarebbe quella del ministero dei diaconi, «assunti nell’ordine» in ragione del legame con il vescovo per compiti nell’ambito degli uffici di carità e dell’amministrazione, che costituirebbero l’ambito proprio dei diaconi e non quello liturgico-sacramentale, che è l’ambito dei presbiteri e naturalmente del vescovo?

Ma lo stesso Vitali scrive: «Il diacono, in effetti, può essere illustrazione viva del principio che il concilio ha sottolineato con forza, a coronamento dell’intero capitolo I sul mistero della Chiesa: il modello e la misura della Chiesa è Cristo, umile e povero… Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre “ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore contrito” (Lc 4,18), “a cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo» (p. 156).

Ma perché il diacono è tutto questo? Perché la sua sacramentalità è radicata nella sacramentalità del vescovo, nella sua dimensione di servizio. Scrive, infatti, ancora Vitali: «La radice del servizio sta soprattutto nella persona e nel ministero del vescovo, che più di ogni altro è identificato con Cristo-Servo: agendo in sua persona come maestro, pastore e sacerdote della sua Chiesa, egli è chiamato a servirla come Cristo stesso…» (p. 162).

Come rispondere, allora, a Vitali, che dopo di avere detto che non è necessario ipotizzare per il diacono una impressione del carattere che lo configuri a Cristo-Servo, afferma: «… che la configurazione del diacono a Cristo-Servo porterebbe all’assurdo che un ministro di supporto al vescovo partecipi a una funzione cristologica in termini più rilevanti ed esemplari di colui che, essendo posto ‘in modo eminente e visibile a sostenere le parti di Cristo stesso maestro, pastore e sacerdote e ad agire in sua persona’, è anche immagine eminente e visibile di Cristo Servo» (p. 183).

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Semplicemente perché, appunto, la sacramentalità del diacono che comporta per lui la configurazione a Cristo Servo, ha le sue radici nella pienezza della sacramentalità del vescovo come identificazione a «Cristo sacerdote servo» – come dice una espressione molto cara al nostro carisma – sulla quale si radica, in eguale misura anche se in forma differente, la sacramentalità dei presbiteri e dei diaconi.

Reale apertura

Mi fermo qui anche perché è già fin troppo lungo l’articolo. Ma sarebbe veramente interessante la «proposta possibile» di Vitali, di cui sopra. Perché, lasciando timori e riserve, di cui bisogna veramente dare atto a don Dario che ha avuto il coraggio di lanciare il dardo, non si potrebbe continuare a pensare seriamente il diaconato a partire dalla questione da cui sono partito?

Io credo che la reale strada aperta per il diaconato nella Chiesa sia proprio quella di affermarne la necessità strutturale sia nell’ambito ministeriale che ecclesiologico. Non un’affermazione concentrata sul diacono ma sul ministero nella sua totalità.

A questo proposito, riprendendo, anzitutto, un testo già citato del libro di Vitali (p. 132), in cui egli afferma che un ripensamento del sacramento dell’ordine, debba ripartire da una sua articolazione non tanto basata sui gradi ma sulle relazioni costitutive dei tre soggetti, vescovo, presbiteri, diaconi, come era nei primi secoli, mi permetto di fare riferimento al contenuto di un piccolo libro che ho pubblicato con le nostre Edizioni ISG, ispirato al nostro carisma, che ha al centro il mistero di «Gesù sacerdote servo» e come progetto «l’unità nella carità» nella Chiesa e particolarmente all’interno del ministero ordinato tra preti e diaconi uniti tra loro e con il vescovo.

Nel mio libro mi sono lasciato guidare da alcuni testi di Ignazio di Antiochia in cui i rapporti della triade ministeriale: vescovo, presbiteri e diaconi, riflettono il clima di una Chiesa relazionale dal respiro e dal ritmo trinitari. Ho cercato di rileggerli nell’ottica dell’importante rifioritura della dottrina trinitaria, che caratterizza la riflessione teologica del nostro tempo.

Se è necessario riflettere sulle figure del sacramento dell’ordine secondo una «ontologia relazionale», come scrive Serena Noceti, essa non può che trovare il suo fondamento e la sua autentica ispirazione nell’“ontologia trinitaria”. Essa può riflettere molta luce sulla strutturazione tripartita del sacramento dell’ordine che nella logica delle relazioni trinitarie dovrebbe articolarsi come soggetto plurale, relazionale e sinodale, di diaconi, presbiteri e vescovo, uniti in un unico sacramento.

Su tale visione unitaria e trinitaria del ministero ordinato si è impegnata e si sta impegnando la mia Famiglia religiosa di preti e diaconi insieme, attraverso delle giornate di studio, abbinate a giornate di dialogo teologico, sul tema del ministero nella Chiesa, organizzate insieme ad altre realtà ecclesiali, tra cui la Comunità del diaconato in Italia. Credo che tali incontri potrebbero costituire lo spazio per promuovere da parte della Chiesa quella «decisione collegiale» nei riguardi del diaconato di cui Vitali ha accennato sopra.

Conclusione

Enzo Petrolino, presidente della Comunità del diaconato in Italia, in due articoli sull’Osservatore Romano, ha messo in luce un tema a lui tanto caro, che è stato anche oggetto dell’ultimo Convegno nazionale dei diaconi a Vicenza sui diaconi «custodi del servizio», come ha detto papa Francesco. Questa volta, però, tale insistenza ha avuto il sigillo di un diacono italiano, Maurizio Bertaccini, medico morto di coronavirus. La sua enorme testimonianza diaconale penso sarà certamente feconda per il futuro di tutto il ministero ordinato.

Al diacono Maurizio e a tutti i diaconi che si sforzano di vivere con fedeltà e dedizione il loro diaconato, dedico questa mia piccola fatica, augurandomi che questo fraterno confronto con don Dario possa essere per loro e per tutti noi di qualche utilità.

  • Luciano Bertelli è religioso presbitero della Pia Società San Gaetano, formata da religiosi presbiteri e diaconi. Ha conseguito il dottorato in teologia dogmatica presso la Gregoriana studiando il percorso di riconoscimento del diaconato permanente nel concilio Vaticano II. Ha insegnato in varie università e seminari argentini, durante gli anni del servizio missionario a Buenos Aires. Attualmente vive a Vicenza nella Casa Madre della Congregazione e si dedica ad una vivace animazione dei percorsi formativi, teologici e pastorali, collaborando con diverse realtà ecclesiali sensibili ai temi della diaconia e dell’unità.
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Un commento

  1. carlo truzzi 16 giugno 2020

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