Donne e ministeri nella Chiesa: storia di un pregiudizio

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rapporto tra donna e ministero ordinato

Dopo il testo di Marinella Perroni, pubblicato con l’ultimo post, un altro collega dell’Ateneo S. Anselmo, Claudio Ubaldo Cortoni, reagisce, da storico, sul tema del rapporto tra donna e ministero ordinato. Si tratta di una ricca ricostruzione di “pregiudizi” che hanno profondamente segnato la storia della cultura europea, cristiana e cattolica. Credo che sia una lettura molto utile, per affrontare in modo corretto, e non ideologico, una questione, che in nessun modo può essere considerate né chiusa, né sospesa o rimossa. (Andrea Grillo)

«Io propongo delle fantasie informi e insolute – scriveva il buon Montaigne – come fanno quelli che prospettano questioni dubbiose da dibattere nelle scuole: non per stabilire la verità, ma per cercarla».

Personalmente preferisco ricercare la verità che stabilirne una, per il semplice fatto che ritengo rischiosa una cultura stanziale (di coloro che si stabiliscono in uno spazio) rispetto a quella più tollerante dei nomadi (di quelli che cercano uno spazio), anche solo per avere la possibilità di un ripensamento. La ricerca dovrebbe spingerci a non smettere di esplorare, per far ritorno, alla fine di tutto il nostro andare, al punto di partenza conoscendolo per la prima volta (cf. T. S. Eliot).

Questo anche e soprattutto quando si discute sull’opportunità di ammettere la donna ai ministeri ordinati, la cui esclusione sembra poggiare su una serie di leggi ecclesiastiche, che rispecchiano nel loro insieme il pregiudizio che ha condizionato la vita delle donne dal Tardoantico ad oggi. Tale pregiudizio, pur avendo mutato pelle nei secoli, è passato dalla più antica, ma resistente, accusa di impurità cultuale, – che le ha viste escludere gradualmente dalla vita ministeriale della Chiesa –, al rischio che gli uomini fossero obnubilati dalla libidine prendendo parta a celebrazioni nelle quali una donna avesse avuto un qualche ruolo attivo, e al più recente dibattito che insiste sul nesso ministero – genere, come se lo sviluppo di una certa dottrina sacramentale possa essere compresa facendo a meno dell’intreccio tra antropologie ed ecclesiologie, che si sono succedute nel tempo, e sviluppi magisteriali, quest’ultimi legati ai primi due fattori.

Vorrei dunque porre in questione i termini «opportunità», «donna» e «ministeri ordinati», per capire se affermando «l’opportunità di ammettere la donna ai ministeri ordinati», più che esprimere una possibilità in fase di discussione, sia invece un modo di riorganizzare vecchi pregiudizi.

1. Quando l’«opportunità» è invocata a salvaguardia di uno status quo

Parlando di «opportunità», vorrei ripercorrere un certo linguaggio ispirato a quella tradizione giuridica ottocentesca, che vede nella prudenza il rispetto per un certo equilibrio tra le parti assegnato loro da una serie di convenzioni sociali, che nell’insieme regolano la vita di una comunità, assegnando a ciascuno un compito e un posto nella gerarchia.

Se consideriamo che nel 1869 usciva a Firenze Dei Diritti delle Donne secondo il Codice Civile del Regno dItalia di Angiolo Burri, – lo stesso anno in cui veniva stampato The Subjection of Women di John Stuart Mill, che proponeva la parità dei sessi nel diritto di famiglia e il suffragio universale –, saremmo portati frettolosamente ad affermare un qualche progresso dei diritti della donna nella vita civile europea.

In realtà il Burri cercò di sottolineare come alcuni articoli contenuti nel Codice erano stati predisposti per mantenere «alta la condizione giuridica della donna maritata di fronte ai figli», una misura ritenuta del tutto insufficiente da Simonetta Soldani nel saggio sulla condizione della donna nel diritto postunitario, in LItalia al Femminile. LUnificazione (2011), in quanto, parafrasando Mill, quel tipo di diritto della famiglia manteneva in vita una certa schiavitù legale alla quale era sottoposta la donna.

Leggendo l’introduzione che Angiolo Burri premette agli articoli del Codice in difesa dei diritti delle donne, anche se respinge l’ormai obsoleta esclusione della donna dai diritti riconosciuti all’uomo per la condizione fisica, quella sua presunta debolezza codificata nella trattatistica bassomedievale, egli si domanda se sia davvero opportuno che la donna traduca in atto quanto invece gli è riconosciuto solo in potenza:

«Il nostro diritto pubblico esclude le donne dall’esercizio dei diritti politici, non certamente per la disparità esteriore, e di fatto della forza muscolare, ma perché la natura ha assegnato ad esse un compito proprio, e diverso da quello degli uomini. E come non potrebbero declinare dall’ufficio e dalle cure della maternità, così non è loro dato, o per lo meno non gioverebbe al civile consorzio, che traducessero in atto l’esercizio indistinto di diritti, che in potenza possiedono come gli uomini».

 Il retaggio che ancora sopravvive nella riflessione del Burri è quello medievale, avvallato anche dalla Chiesa, che aveva relegato la donna all’interno delle relazioni familiari, dunque prima figlia, poi sposa e infine madre, disciplinandone le funzioni all’interno di questi ruoli (J. Gaudemet), quello che Burri chiama «l’ufficio e le cure della maternità». La trattatistica bassomedievale arrivò a compilare una lunga lista di motivi per cui la donna venne dichiarata inferiore o incapace di assolvere alcuni compiti nella società e per riflesso nella Chiesa, rispetto alle presunte qualità dell’uomo (R. Chabanne).

Lo stesso Burri, nel tentativo di rivalutare le scelte operate nel Codice in difesa della donna, ricorda come nel passato, partendo dalla legislazione altomedievale a quella preunitaria, la sua condizione fosse di assoluta sudditanza:

«Ma quale era la di lei condizione per le tradizioni, per gli usi, per le leggi, che vigevano nelle diverse province d’Italia prima della loro unificazione? Sotto una perpetua tutela per le antiche Leggi Romane – colpita d’incapacità assoluta, e ridotta a stato puramente passivo sotto le leggi dei Longobardi – colpita della stessa incapacità sotto le leggi statutarie».

Mi si potrebbe obiettare almeno in via teorica, e non a torto, che un ministero nella Chiesa non rientra nella logica dei diritti, né tanto meno della parità tra i sessi, ma non posso far a meno di confrontare l’argomentazione usata dal Burri con la più antica osservazione portata da Tommaso d’Aquino contro l’ordinazione delle donne nel commento alle Sentenze di Pietro Lombardo: «quia mulier statum subiectionis habet» (In 4 Sent., Dist. 25, q. 2, a. 1, sol. 1).

Lo status subiectionis,chiamato in causa da Tommaso, si rifà ad una terminologia giuridica, che aveva alle spalle già un pregiudizio consolidato sulla condizione inferiore della donna rispetto all’uomo. Che tale stato di soggezione intaccasse l’eminenza di grado, ovvero la rilevanza della posizione occupata dall’ordinato nella Chiesa, era un timore giustificato perché avrebbe impedito alla donna l’esercizio di quella precisa potestas, che riguardava sia il governo che la vita sacramentale della Chiesa, attribuita al ministro ordinato.

Non è forse un caso che Mill nel 1869 intitoli il saggio sulla condizione della donna nel suo secolo The Subjection of Women, una condizione condivisa da stranieri e quanti altri non potevano accedere ai diritti di cittadinanza, – ricordiamo che Tommaso include tra coloro che non possono accedere all’ordinazione anche i soggetti a schiavitù –, messa fortemente in discussione delle rivoluzioni dell’epoca moderna fino alla guerra civile americana (1861-1865).

Ora se consideriamo bene il ricorso ai termini status, ovvero il posto occupato in una società in riferimento ai diritti riconosciuti, il gradus, ovvero il posto occupato all’interno di una precisa gerarchia ordinata alla vita sacramentale e al governo della Chiesa,e l’ordo, anche questo il posto occupato dai battezzati nella Chiesa rispetto al proprio stato o funzione civile o ecclesiastica, ci rendiamo conto quanto possa essere problematica l’interpretazione di questi termini riferiti alla donna, e quanto possa essere fuorviante riproporla oggi per comprendere il ruolo della donna nella Chiesa odierna (cf. A. Grillo su In 4 Sent., Dist. 25, q. 2, a. 1, sol. 1). Questo semplicemente perché ognuna delle condizioni è mutata nel tempo, come ad esempio l’imposizione del celibato agli ordinati dopo la prima metà del sec. XI, o l’uso di ricorrere nella Chiesa latina ai viri probati sino al sec. XV. Mutando la società muta anche l’ecclesiologia, e la Chiesa stessa ha dovuto rivedere le proprie consuetudini, come afferma nel sec. XI Adalberone di Laon: «cambiano i costumi degli uomini e cambia l’ordine [nella Chiesa]». Il senso di quanto scrive il vescovo di Laon è proprio questo: ordine sociale e ordine all’interno della Chiesa cambiano assieme, e cioè una determinata ecclesiologia guarda ai mutamenti di una società per rispondere alle nuove sfide, e per rappresentare quel determinato corpo sociale. Anche questa è tradizione della Chiesa.

2. La «donna»: Il ricorso ad un sostantivo singolare femminile divenuto ambiguo

Per comprendere come anche le fonti della tradizione ecclesiastica vanno interpretate inserendole in un contesto di grande mobilità semantica, che fa di tre sinonimi, status, gradus, e ordo la traduzione sociale, ministeriale ed ecclesiologica di un battezzato rispetto ai diritti civili di cui gode, alla funzione e allo stato di vita – la più antica divisione in laici, monaci e chierici –, va compreso anche l’uso non sempre chiaro del sostantivo femminile «donna» nel linguaggio comune, perché anche da esso si intuiscono i diritti negati o acquisiti nel tempo, che gli conferiscono un determinato status, che ha un riflesso sull’ordo, il posto occupato nella Chiesa, e di conseguenze sul gradus, il ruolo svolto nella vita ministeriale.

È infatti volutamente ambiguo il ricorso che faccio al sostantivo femminile singolare «donna», secondo quanto ancora ognuno di noi può leggere, in quello che considero uno tra i più autorevoli vocabolari online della lingua italiana, il Vocabolario Treccani: «“donna”: nella specie umana, l’individuo di sesso femminile, soprattutto dal momento in cui abbia raggiunto la maturità anatomica e quindi l’età adulta […]. b. Con significato più ristretto: la mia donna, mia moglie […]. c. Per antonomasia, nella famiglia, la donna, la persona di servizio […]. e. Con accezioni particolari: donna di mondo, che frequenta ambienti mondani e ne conosce gli usi, gli aspetti e i difetti, in passato, cortigiana». La cosa strana è leggere di seguito il sostantivo maschile singolare «uomo», ovviamente nel medesimo vocabolario online: «“uomo”: 1.a. essere cosciente e responsabile dei proprî atti, capace di distaccarsi dal mondo organico oggettivandolo e servendosene per i proprî fini, e come tale soggetto di atti non immediatamente riducibili alle leggi che regolano il restante mondo fisico […]. b. Fraseologia più comune: l’origine dell’uomo; il primo uomo, il primo essere umano creato (Adamo, secondo la narrazione biblica)». Per leggere quanto si scrive della «donna» dobbiamo scorrere la voce «uomo» sino al punto 2.a: «Essere umano di sesso maschile (in contrapposizione espressa o tacita a donna)».

Da ciò deduco che l’uomo è potenzialmente un essere votato all’alienazione, capace cioè di astrarsi dal mondo in cui vive, tanto da ignorare le leggi che ne regolano la vita, – l’uomo all’origine di quella eccessiva antropizzazione del mondo che lo mette a rischio –, e la donna è un individuo che ha raggiunto la sua maturità anatomica, in contrapposizione espressa o tacita all’uomo del punto 2.a.

Questa mia lettura parziale può essere il risultato di un’interpretazione ingenua delle definizioni date e di un mio pregiudizio, che ammetto di avere, soprattutto perché molti dei nostri dizionari e vocabolari risentono del clima culturale nel quale si è formato il redattore delle voci, spesso non oltre i primi decenni del secolo scorso. Ammetto che nella nostra cultura il sostantivo maschile singolare «uòmo», quasi sacralizzato, sia capace di riassumere in se l’avventura socio-antropologica dell’intera umanità, e che questo sia accettato nel suo complesso da tutti, ma che il «primo uomo, e cioè il primo essere umano creato» coincida con il solo Adamo, mi sembra un esempio di fraseologia comune abbastanza discutibile anche se forse vera per molti.

Eppure in questo uso esteso del sostantivo maschile «uomo», al singolare come pure al plurale, vedo un problema, anche se potrei sbagliarmi, perché ogni esemplificazione deve necessariamente fare i conti con l’errore. Ma dopo aver ascoltato il monologo contro la violenza sulle donne recitato da Paola Cortellesi alla 62ª edizione dei David di Donatello, scritto da Stefano Bartezzaghi, mi chiedo quanto possa essere forviante il linguaggio che utilizziamo quando ci riferiamo alla donna e alla possibilità che possa accedere ai ministeri ordinati partendo dal presupposto del genere. Il monologo consiste in un elenco di stereotipi la cui origine è appunto l’alternanza tra genere maschile e femminile, il cui risultato è sempre offensivo quando il sostantivo da maschile viene volto al femminile. Mi sono allora chiesto se la differenza nel trattare questi due sostantivi, «donna» e «uomo», sia davvero così ingenua come spesso siamo portati a pensare, anche quando quest’ultimo in senso esteso indica l’intera umanità. I nostri rituali dopo tutto attingono abbondantemente a questa tradizione lessicale, tanto che tutti sono fratelli e ogni battezzato in età infantile è un bambino. Ma mi dicono che anche «bambino» è un’estensione del più generico «uomo», che non ha raggiunto l’età della ragione.

La storica Adriana Valerio, nei suoi preziosi e competenti studi sulla condizione delle donne nella storia occidentale, mette in rilevo quanto possa essere stato nocivo l’aver fatto derivare il termine mulier (donna) da mollitia (la debolezza), la prova etimologica, fornita da Isodoro di Siviglia, della naturale condizione di sudditanza occupata dalla donna nella società e nella Chiesa. Risulta abbastanza semplice capire come tale etimologia abbia rafforzato l’idea dell’uomo-vir, immediatamente riconducibile ai termini forza e virtù.

Nel Basso Medioevo a molti sembrò che la donna difettasse tanto di forza quanto di virtù, così da annoverare tra i motivi della sua esclusione dall’ordine sacro la possibilità che, con la sua presenza attiva nella liturgia, avrebbe potuto alimentare la pulsione libidinosa del maschio (cf.S. Th. II-II, q. 177, a. 2). Potrei sbagliarmi, ma anche questo pregiudizio della donna che provoca l’uomo è duro a morire.

È comunque interessante vedere come l’accusa di impurità cultuale tardoantica si sia evoluta in una più generica debolezza spirituale della donna, sempre comunque tenendo conto dei dovuti distinguo, come le grandi figure di letterate, regine, o anche appartenenti all’emergente classe dei mercanti, alle quali venne riconosciuto, nel Medioevo, il diritto al lavoro, o religiose, beghine e abbadesse il cui carisma venne ampiamente riconosciuto dalla Chiesa permettendone anche la predicazione agli uomini e al clero.

3. Ministero ordinato e impurità cultuale della donna: ovvero l’inizio di una Chiesa clericale

Ma ciò che sembra solo una questione linguistica risultò invece centrale nella codificazione giuridica e teologica dell’esclusione della donna dai ministeri ordinati: dall’impurità cultuale all’accusa di essere una creatura viziosa, per la debolezza di spirito, che gli deriva da una manifesta debolezza del corpo.

Il processo che consolida la Chiesa latina nel suo pregiudizio sulle donne inizia con la ricezione di una norma del concilio di Cartagine del 345 che imponeva l’astinenza sessuale ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, adducendo come scusa l’impurità che deriva all’uomo dall’avere rapporti sessuali con una donna, la quale è risaputo essere «un animale mestruato», come più tardi, alla seconda metà del sec. XII, l’avrebbe definita il giurista Pocapaglia (Paucapalea). Di fatto questa norma avrà un peso notevole anche sulla concezione del rapporto sessuale all’interno del matrimonio cristiano. Tale pregiudizio risulta trasversale tra cultura giudaica e greco-romana costituendo di fatto un continuum culturale tra tradizioni religiose così distanti.

Mentre tracce di una presenza ministeriale femminile nella Chiesa tra Tardo Antico e Alto Medioevale sono i decreti dei Concili locali di Orange (441) ed Epaon (517), che pongono in veto all’ordinazione diaconale della donna nella loro regione. Al sinodo di Rouen (650) venne proibito ai sacerdoti di porgere il calice nelle mani delle donne o che queste li aiutassero nella distribuzione della comunione. Interessante è la proibizione del vescovo Teodoro di Canterbury (690), alle donne mestruate di visitare la Chiesa o ricevere la santa comunione, in contrasto con quanto Gregorio Magno aveva consigliato al suo predecessore. Teodoro fa suo anche il precetto di proibire l’accesso a qualsiasi luogo sacro alla donna, che dopo il parto rimaneva impura per quaranta giorni. Sarà la Chiesa carolingia a codificare poi con sempre maggiore precisione quanto la cultura dei Padri e poi i Sinodi della Chiesa tardoantica avevano iniziato ad elaborare: l’esclusione della donna dal servizio all’altare per la debolezza e inferiorità del loro sesso, che metteva a rischio ogni cosa sacra conservata in Chiesa incluso lo stesso ministero ordinato. A sostenere queste posizioni cercando di fondarle teologicamente attraverso quei passi della Scrittura, divenuti in seguito i luoghi comuni della discussione, c’è Teodulfo di Orléans (820), che vietò alle donne di entrare nel santuario, legando l’impurità cultuale ad un difetto della loro natura che gli impediva di fatto non solo di toccare i vasi sacri, almeno di non volerli contaminare, ma anche di essere escluse dai ministeri istituiti.

Fin qui le fonti sono conosciute. Si può dibattere sulla natura del diaconato femminile, anche se alcuni sinodi e molti provvedimenti lasciano ben poco di equivoco sulla comprensione di tale natura, ma non si può negare che le basi di tale esclusione siano oggi venute meno, per una serie di radicali mutamenti tanto nel ruolo della donna nella società moderna quanto nell’ecclesiologia post-conciliare.

Dobbiamo anche ammettere che né l’impurità cultuale né la presunta debolezza fisica e spirituale, causa prima di una certa tendenza del sesso femminile ad indulgere nei vizi e nell’indurre l’uomo nel vizio, siano più sostenibili, tantomeno quella serie di leggi ecclesiastiche che proibirono alla donna di accedere a qualsiasi ministero nella Chiesa. Così, anche se tardi, il servizio all’altare non è più negato alla donna, nè tantomeno quello di lettore, come tanti altri ministeri istituti, e questo senza arrecare danno alcuno ad una vaga idea di oggetto sacro o agli uomini.

Rimane aperta un’ultima questione che è quella del ministero ordinato. Non si può certamente addurre la scusa che il presbitero nella celebrazione agisce in persona Christi, perché se qui persona e Cristo vengono intesi nel senso di uomo, maschio, vir, forse, e non è questo il luogo, si dovrebbe ripercorrere la storia di questo particolare epiteto assunto dal Papato medievale e poi divenuto un modus agendi liturgico.

Un’ultima osservazione: i ministeri femminili riemergono nella Chiesa latina con l’evangelismo medievale. Tutti conosciamo la vicenda delle donne di Metz, messe a tacere da Innocenzo III, che non solo predicavano in volgare e traducevano la Scrittura, ma confessavano anche i membri delle loro comunità, donne e uomini. Ovviamente si tratta di eresie condannate da Alessandro III, Lucio III e Innocenzo III. Ma che tipo di eresie? La teologia bassomedievale fatta eccezione per il nihilismo cristologico conosce soprattutto eresie ecclesiologiche. Questo sposta il problema del ministero da un ambito squisitamente disciplinare dogmatico ad uno ecclesiologico, più precisamente sulla forma ecclesiae,che un certo movimento evangelico propose come correttivo alla Chiesa uscita eccessivamente clericalizzata dalle riforme gregoriane. Una visione di Chiesa che nasce dai laici, i quali ripensano la comunità cristiana, e i ministeri, sulla base delle proto-comunità del Libro degli Atti.

Mi sembra così di poter dir che il problema dell’ordinazione della donna sia decisivo anche per una svolta della forma ecclesiae in chiave evangelica, aderente al popolo di Dio qual è veramente, o quale aspira ad essere davvero.

Pubblicato il 26 settembre 2018 nel blog: Come se non.

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