Felice di essere prete

di:

diventare preteCarissimi,

fra qualche settimana (si Dios quiere – se Dio vuole – come amano dire i latinoamericani di lingua spagnola) compirò 70 anni, che mi sembra un significativo traguardo per una riflessione globale sul cammino di vita fatto sino ad oggi. Nella Bibbia, il salmo 90/91 al versetto 10 recita così: «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica e dolore; passano presto e noi ci dileguiamo».

Una frase che, vista dalla parte di chi deve arrabattarsi per mandare avanti la baracca, fa capire che non possiamo starcene con le mani in mano mentre la Storia ci scorre accanto, per questo i cristiani, leggendo l’AT alla luce della novità del Vangelo di Gesù Cristo, tendono a rendere la propria esistenza una meravigliosa avventura degna di essere vissuta con pienezza in ogni suo momento.

Le umili origini

Anche se qualche squarcio della mia esistenza già lo conoscete, permettetemi un breve riassunto personale: provengo da una modesta famiglia di operai, mamma e papà – cristiani credenti e per nulla bigotti – mi trasmisero fin dalla più tenera età la fede dei semplici e quei perenni valori umani che attecchirono e si sedimentarono molto presto nel mio animo. Non mi vergogno di ricordare che, durante la mia infanzia e adolescenza, qualche discreta difficoltà economica ha marcato non poco la mia esistenza, prima fra tutte il non poter proseguire gli studi per gravi problemi economici familiari.

Il mio libretto di lavoro che conservo gelosamente (per l’eventuale causa di beatificazione, non si sa mai!) si apre con la data del 26 luglio 1961 (ore 6.00 del mattino, sic!) come data d’inizio del mio ingresso a 14 anni nel mondo del lavoro: sei anni in uno stabilimento tessile, quindi servizio militare prestato nel glorioso Terzo Reggimento Bersaglieri e, dopo il congedo, tre anni e mezzo come tornitore nella mitica “Franco Tosi” di Legnano, fabbrica metalmeccanica di eccellenza, specializzata nella costruzione di turbine elettriche, che all’epoca dava lavoro – tra tecnici e operai – a oltre cinquemila dipendenti, all’interno della quale feci un’interessante quanto feconda esperienza sindacale come delegato di reparto.

L’adolescenza e la giovinezza li ho vissuti ad Arconate, comune dell’interland milanese ove sono nato, scenario multiforme di una piccola realtà di provincia. Approfittando delle poche ma interessanti opportunità che offriva il tranquillo tran tran della vita arconatese, mi buttai a capofitto nelle varie attività che vi si svolgevano in loco; ricordo con nostalgia le interminabili partite di pallone in Oratorio, i tuffi e le nuotate estive nel Canale Villoresi, l’inserimento nella Banda musicale del paese e, dopo il servizio militare, anche nella Fanfara dei bersaglieri in congedo di Lonate Pozzolo.

Ma la traccia più incisiva per la mia formazione umana e cristiana resta la partecipazione alla vita associativa dell’Azione cattolica parrocchiale, dove, nelle adunanze settimanali, prima sotto la ferrea conduzione di don Augusto Brusadelli, poi con quella più “conciliare” di don Angelo Perego, noi giovani dell’Oratorio, prendevamo coscienza della partecipazione, ovvero della “militanza” dei cattolici nella vita pubblica italiana che, dopo l’ingresso nella Franco Tosi, aveva per me un preciso riferimento: l’impegno nel sindacato dei metalmeccanici della CISL.

La svolta

Su questo scenario di fondo avvenne la svolta fondamentale della mia vita: nell’ottobre del 1971, a 24 anni di età, dando seguito ad una vocazione a lungo soffocata, decisi di entrare in seminario per prepararmi a diventare prete. Non avendo nessun tipo di scuola superiore alle spalle, accettando il consiglio di un sacerdote che mi aveva accompagnato in quegli anni di ricerca, mi recai al SEVA (Seminario ecclesiale vocazioni adulte) di Trento, gestito dai Padri Venturini, i quali mi accettarono e, dopo un percorso di studi personalizzato di tre anni, mi diedero una formazione liceale di prim’ordine, mettendomi così in condizione di accedere agli studi teologici. In quel periodo sentivo crescere in me un richiamo vocazionale particolare per un servizio missionario in America Latina.

La teologia della liberazione, le musiche andine degli Inti Illimani, la testimonianza coraggiosa di personaggi di spicco sia nella società civile come in quella ecclesiale sudamericana (inutile far nomi!) caratterizzata in quei tempi da ottuse dittature militari, furono un mix attraente e affascinante che calamitò sempre più la mia attenzione verso quel continente, per cui decisi di proseguire i miei studi teologici presso il seminario “Nostra Signora di Guadalupe” di Verona, che preparava chierici e sacerdoti per un servizio pastorale in America Latina. C’era però una difficoltà non da poco conto da superare, ovvero l’équipe formativa del seminario di Verona accettava solo i seminaristi presentati ufficialmente dai rettori diocesani. Non avendo praticamente mantenuto nessun legame con il seminario di Milano, mia diocesi di origine, ero praticamente un clericus vagus senza nessun appoggio ecclesiale alle spalle.

E qui entra in scena la Provvidenza. Nel giorno stesso che mi recai al seminario di Verona, accompagnato dal rettore del SEVA di Trento, padre Mosè Daniele, per vedere di superare le difficoltà che mi impedivano di accedere al seminario “Madonna di Guadalupe” di Verona, capitai giusto nel bel mezzo di una riunione dei direttori dei Centri missionari diocesani del Nord Italia; il rettore del seminario di Verona, don Olivo Dragoni con il quale avevo avuto un colloquio molto positivo sul mio futuro, uscì dal suo ufficio, dove si era svolta la nostra chiacchierata e, pochi minuti dopo, ritornò con don Gianni Quaglia, allora direttore del CMD di Novara, il quale, messo al corrente della situazione, promise che ne avrebbe parlato con il rettore del seminario di Novara di allora, don Germano Zaccheo. A me veniva chiesto di incontrarlo al più presto, per vedere come dare soluzione alla mia situazione.

Durante le vacanze pasquali del 1973, con molte speranze e qualche timore salivo la scalinata del seminario San Gaudenzio di Novara per un primo colloquio con don Germano. Ricordo nitidamente che, dopo aver bussato alla porta del suo ufficio per il colloquio fissato, i nostri sguardi s’incrociarono e ci fu subito una sincera intesa tra di noi; egli mi fece accomodare e volle sapere tutto del mio percorso di fede e vocazionale, man mano che gli aprivo il mio cuore, percepivo che la persona che mi stava davanti era davvero il “padre e maestro” di cui avevo tanto bisogno. Alla fine della chiacchierata, che durò l’intera mattina, egli si mise alla macchina da scrivere e compilò una breve lettera da presentare a don Olivo Dragoni, rettore di Verona, nella quale si dichiarava che il sottoscritto era accolto come seminarista della diocesi di Novara, spianandomi così la strada dell’incardinazione nella diocesi di San Gaudenzio.

Dopo i fecondi tre anni al SEVA di Trento, passai quindi al seminario di Verona, dove trovai due seminaristi dalla diocesi di Novara, precisamente: Adriano Ciocca Vasino di Borgosesia e don Pierantonio Miglio di Bellinzago.

Il seminario di Verona in quegli anni stava cambiando pelle, nel senso che sorto dopo il Concilio come luogo di preparazione per chierici orientati ad un servizio pastorale nei paesi latinoamericani, stava diventando sempre più un luogo di formazione per laici, suore, religiosi, sacerdoti diocesani, gente cioè che si orientava a prestare un servizio pastorale per il Sudamerica e che, attraverso un corso trimestrale “ad hoc”, venivano messi in condizione di poter partire verso le molteplici frontiere da evangelizzare dell’America Latina, per cui la pattuglia di seminaristi era ridotta al lumicino. Difatti, dopo solo due anni di permanenza al seminario N.S. di Guadalupe, l’esperienza seminariale fu chiusa con l’invito ai chierici di ritornare alle proprie diocesi.

Per me voleva dire ritornare a Novara e reinserirmi nel nostro Seminario. Parlando con don Enrico Masseroni, che nel frattempo era subentrato a don Germano come rettore del seminario e, con Aldo Del Monte vescovo di Novara, chiesi loro se era possibile completare gli studi teologici in America Latina. Nel periodo estivo avevo fatto un viaggio in Brasile, passando tre mesi a Paulo Afonso, in Bahia, con quella straordinaria figura di missionario che era don Mario Zanetta e, grazie a lui, mi ero innamorato ancora di più della realtà brasiliana, per cui facendo la proposta di studiare teologia in America Latina pensavo di andare a Recife, nel seminario di Dom Helder Camara. Il punto debole del mio progetto era che Recife distava oltre 450 km da Paulo Afonso, per cui don Mario Zanetta avrebbe dovuto percorrere una notevole distanza per seguirmi con regolarità.

In Uruguay

Sostieni SettimanaNews.itMi venne fatta allora la proposta di finire gli studi teologici a Montevideo in Uruguay, dove operavano in due parrocchie di periferia ben quattro sacerdoti novaresi: don Remo Barberis, don Antonio Bonzani, don Mario Tridello e don Ernesto Bozzini. Il seminario inoltre era situato in città,quindi visitabile in ogni momento da uno o più sacerdoti della nostra équipe. Naturalmente accettai, e ai primi di gennaio del 1977 mi imbarcavo dal porto di Genova sulla motonave “Eugenio Costa” diretta a Montevideo.

Dopo qualche settimana di ambientamento nelle parrocchie novaresi a febbraio feci il mio ingresso al seminario interdiocesano dell’Uruguay, un piccolo edificio che accoglieva 12 (avete letto bene dodici seminaristi di teologia, inclusi uno spagnolo, un tedesco e il sottoscritto) oltre a due sacerdoti uruguayos, che avevano compiti rispettivamente di rettore e padre spirituale).

Le lezioni di teologia erano tenute presso l’I.T.U. (Istituto Teologico Uruguayos), un edificio adiacente, dove convenivano novizi e studenti di altri istituti e congregazioni religiose (salesiani, redentoristi, cappuccini, maristi ecc.) e il corpo docente dei professori era formato da sacerdoti diplomati o laureati presso le più prestigiose facoltà teologiche non solo dell’America Latina, ma anche di diversi paesi europei, appartenenti alle varie congregazioni presenti in Uruguay, oltre ovviamente ad alcuni professori (laici e presbiteri) prestati per questo prezioso servizio di insegnamento della teologia da diverse diocesi uruguayas.

In seminario dividevo la stanza dove dormivo e studiavo con un seminarista uruguayo che aveva il papà in carcere, in quanto accusato di far parte del “Movimiento di Liberaciòn Nacional Tupamaros”. Altri due compagni di teologia erano stati arrestati con la stessa accusa e, dopo qualche settimana rilasciati, perché non era stata riscontrata nessuna prova contro di loro. Avvertivo così che, pur vivendo in un ambiente ecclesiale protetto, la “pesantezza” della situazione sociopolitica del piccolo paese del Rio de la Plata era piuttosto opprimente.

Il controllo sulla popolazione da parte dei Servizi Segreti, la censura sui mass media, in particolare sui giornali, rendeva l’atmosfera pubblica e sociale molto pesante. Se a ciò si aggiunge la diffidenza presente fra la gente (in quanto chiunque poteva denunciarti anonimamente), unitamente alle notizie sui “desaparecidos” e sulle torture inflitte ai prigionieri politici, che filtravano dalle caserme e dalle carceri delle Forze Armate, ce n’era abbastanza perché le famiglie si ripiegassero su se stesse e di rimando  spingessero i propri giovani ad emigrare verso paesi più democratici, rispettosi dei diritti umani.

Convocato dal Tribunale militare

Negli anni trascorsi in Uruguay successe un avvenimento molto particolare che incise parecchio sulla mia vita; un pomeriggio si presentò in seminario un militare avvisando: «che l’italiano lì residente doveva presentarsi il giorno seguente al Tribunale militare di guerra per comunicazioni urgenti».  In quel momento io non mi trovavo in casa, ero andato in parrocchia. Alla sera, rientrando, il rettore mons. Carlos Nicolini, tutto preoccupato mi chiamò e mi pose al corrente della situazione.  Confesso che un bel po’ di paura venne anche a me, ma il giorno dopo mi presentai al Tribunale militare di guerra e in quel luogo si chiarì l’equivoco.

Don Pierluigi Murgioni, prete fidei donum della diocesi di Brescia, era stato arrestato qualche anno prima con l’accusa (ovviamente infondata) di far parte del MLN “Tupamaros”. Come detenuto che non aveva familiari in Uruguay, aveva però diritto ad avere due visite al mese, un permesso di visita era stato accordato a don Saverio Mori, un suo confratello bresciano, l’altro a don Silvano Berlanda sacerdote bergamasco, responsabile dei sacerdoti fidei donum in Uruguay.

Don Berlanda era stato in precedenza rettore del seminario di Montevideo, ma nel frattempo era rientrato in Italia per assumere la direzione del CEIAL (Centro ecclesiale italiano America Latina) di Verona e la sua ultima residenza a Montevideo era appunto in seminario.

L’equivoco in cui incapparono i militari uruguayos poteva essere superato tranquillamente. Infatti, per un detenuto (cittadino straniero per giunta) che aveva diritto a due visite al mese, due dovevano essere i permessi rilasciati, quindi, se al posto di Silvano Berlanda veniva scritto nel casellario delle visite il nome di Mario Bandera, per loro il problema era risolto. Stava a me accettare o meno la proposta… Ovviamente accettai.

Di colpo mi trovai inserito in un mondo (quello dei detenuti politici) del quale avevo molto sentito parlare ma che conoscevo ben poco. Fu un’esperienza che segnò in maniera indelebile la mia vita e direi anche la mia spiritualità. La difesa dei valori “cristiani” dell’Occidente veniva portata avanti dalle dittature fasciste latinoamericane calpestando i più elementari diritti umani, torturando e imprigionando degli innocenti.

Qualche tempo dopo, don Murgioni venne espulso dall’Uruguay e io che, nel frattempo, ero diventato di casa presso il console italiano, dottor Colella che seguiva per conto dell’ambasciata italiana tutta la parte giuridica, ricevetti l’invito ufficiale di accompagnare, nel suo ultimo tragitto sulle sponde del Rio de la Plata, don Pierluigi dal carcere all’aeroporto di Montevideo. Con me quel giorno c’era anche don Ernesto Bozzini. Il forte abbraccio che ci scambiammo prima che lui salisse sull’aereo lo conservo come uno dei ricordi più preziosi e più belli della mia vita di uomo e di prete.

Pur vivendo in Uruguay in una situazione così singolare di precarietà e incertezza, completai i miei studi teologici, dando tutti gli esami scritti e orali in lingua spagnola. Il 16 luglio del 1978 ricevetti il ministero del diaconato nella parrocchia N.S. del Carmen dalle mani di Carlos Parteli, arcivescovo di Montevideo, vero patriarca della Chiesa latinoamericana, uno dei protagonisti della Conferenza di Medellin.

Il rientro in Italia

Nel gennaio del 1979, ebbe luogo a Paulo Afonso in Brasile, il primo incontro dei missionari novaresi fidei donum operanti in America Latina. Mons. Aldo Del Monte, insieme a una nutrita delegazione novarese, comprendente laici e sacerdoti con responsabilità diocesane, venne a farci visita. Passammo insieme dieci giorni fecondi analizzando, confrontando, verificando la nostra prassi missionaria, gli stili di evangelizzazione delle rispettive pastorali e vivendo un momento di comunione che fu veramente gratificante per tutti.

Durante quell’evento fu deciso di rilanciare l’attività del Centro missionario a livello diocesano, per cui mons. Del Monte mi invitò a tornare in Italia per l’inizio dell’anno pastorale del 1979 per assumere la responsabilità del CMD. Rientrai in diocesi e, nella Giornata missionaria mondiale il 20 ottobre, ricevetti nel duomo di Novara l’ordinazione sacerdotale insieme all’amico don Renato Sacco e iniziai così il mio servizio al CMD.

Monsignor Del Monte mi aveva dato carta bianca per l’animazione missionaria in diocesi. Da parte mia volevo in un certo qual modo stupire la comunità diocesana con momenti salienti legati alla missio ad gentes. Nacquero così le prime Giornate missionarie mondiali che videro la presenza a Novara di Madre Teresa di Calcutta, di Dom Helder Camara e dell’argentino Premio Nobel per la pace: Adolfo Perez Esquivel.

Il resto venne da sé, molti dei nostri missionari (laici, religiosi/e, fidei donum) negli anni che seguirono furono autentici protagonisti alle Veglie missionarie diocesane, lasciando un’impronta non da poco nelle coscienze dei partecipanti.

A Mons. Aldo Del Monte successe mons. Renato Corti, il quale allargò il raggio d’azione missionario andando a trovare i protagonisti della missio ad gentes con viaggi annuali che lo portarono a visitare diversi paesi di missione.

Per quanto mi riguarda, ho vissuto momenti molto belli come l’apertura della Missione diocesana in Ciad e momenti esaltanti, come la consacrazione episcopale in Brasile di ben tre sacerdoti novaresi: Mario Zanetta, Adriano Ciocca Vasino e Riccardo Guerrino Brusati. Ho vissuto anche momenti molto difficili e tragici come quando dovetti correre in Brasile per l’improvvisa scomparsa di Dom Zanetta, o recarmi al Nairobi Hospital in Kenya, per assistere don Carlo Masseroni, dopo il vile attentato subìto in Burundi nel luglio del Duemila.

La mia vita umana e sacerdotale è stata benedetta dal Signore, accanto ad una famiglia esemplare, egli mi ha fatto incontrare degli amici veri e sinceri con i quali è mio desiderio celebrare il mio prossimo compleanno.

A tutti un forte abbraccio e un arrivederci a presto,

don Mario Bandera


Sulla “crisi del prete”

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