L’indole secolare del prete

di:
prete

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Il prete che lascia

Premesso che il «caso del prete che lascia» potrebbe essere inserito in quella «liquidità culturale» che caratterizza la mentalità, i «nervi» e tutti gli stati di vita odierni, le ragioni che persuadono un prete a lasciare sono singolari, così come lo sono i moventi che spingono un prete a rimanere.

La «decisione» di abbandonare lo stato clericale non è un atto di decisionismo, ma di schiettezza: la ratifica, davanti a sé stessi e a Dio, che vi è qualcosa di molto forte (un estraniamento, una nausea, una solitudine, una passione, una domanda, un affetto) che non si lascia affatto tacitare.

Leggere questa esperienza come il sintomo di una scarsa «maturità affettiva» è indegno: non mi pare che chi lascia il sacerdozio presenti necessariamente una «maturità affettiva» più carente di chi invece rimane prete. Prima ancora dovremmo intenderci su cosa significhi essere umani in modo pienamente sviluppato (sic!). E poi, siamo e restiamo vulnerabili in tutte le condizioni di vita.

Invece che una «dietrologia», dunque, sarebbe il tempo di procedere ad una «fenomenologia», di guardare cosa sta diventando in Europa la forma di vita del prete secolare oggi.

Prete secolare

Nato come termine giuridico per indicare il trasferimento di beni della Chiesa nelle mani dell’amministrazione civile, il termine «secolarizzazione» è stato adottato per indicare ogni forma di emancipazione dall’universo sacrale.

Si tratta di un fenomeno tentacolare, in sé molto articolato che, dopo il Concilio Vaticano II, ha interessato persino il cattolicesimo vissuto, e con esso anche il clero «secolare».

Nella sua positiva ricezione teologica la secolarizzazione ha comportato per la Chiesa cattolica un abbandono della «sacralità» (da cui «sacerdote») e delle sue forme, che ha provocato una reinterpretazione radicale della figura del prete. Concretamente si è passati: dalla «rappresentazione» al «ministero»; dal «sacerdote» al «pastore»; dalla talare al clergyman (quando non a jeans t-shirt); dalla «perpetua» al microonde; dalla «cura d´anime» alla «pastorale»; dalla «parrocchia» alle «unità pastorali» o ai «movimenti».

Dalla sacralità alla santità

Sotto il profilo teologico-spirituale il cardine intorno al quale ruotano queste «svolte» è rappresentato dal concetto di «santità», dato che – dopo la rivoluzione culturale del ´68 – il «sacro» è caduto in prescrizione.

Un ritorno al passato non solo è impossibile, ma sarebbe deleterio. Sotto queste condizioni la figura del prete tuttavia non «rappresenta» più Dio, la trascendenza, il Mistero; egli è un pastore «a servizio» di una porzione di città, che mai vorrebbe essere equiparata a un «gregge». Le metafore non sono mai innocenti.

Questo slittamento dalla sacralità alla santità è stato senza dubbio necessario per «evangelizzare» il concetto pagano di sacro. Il proverbiale sassolino che invece scatena la valanga è un altro scivolamento, mai tematizzato eppure sotterraneamente attivo nella predicazione, nella formazione, nella mentalità e prassi correnti.

Dalla santità alla umanità (ma quale?)

Ben presto ci si è trovati a passare dalla «santità» all’«umanità» come ideale dell’essere-prete, come se la seconda fosse l’involucro dalla quale è destinata ad emergere la prima.

Intendiamoci: il problema qui non è di ordine teologico, perché teologicamente si ha gioco facile a normalizzare questa sterzata col ricorso paradigmatico all’umanità di Gesù come modello di «vera umanità» e criterio di «umanizzazione».

Il problema è pratico e riguarda l’idea di umanità che alberga nel sentimento di vita del prete, dato che la santità (così come la fraternità presbiterale, la povertà ecc.) gli risulta nei fatti sempre più un’utopia. Ecco sorgere un nuovo sottile e inconfessato «dover-essere»: mostrarsi sempre «alla mano», raggiungibile, privo di vita privata, disponibile, remissivo, goliardico, senza inibizioni, multitasking, «uno di noi».

Il problema è che si può essere «in gamba» quanto si vuole e non rappresentare nemmeno una scintilla del mistero cristiano! Dietro questo slittamento dalla «rappresentazione» al «ministero» si cela un pelagianesimo clamoroso. Ed è forse proprio questo uno dei virus da cui liberarsi, perché un tale ideale di umanità, che deve essere pienamente sviluppata, non rende affatto plausibile una scelta come il celibato, dal momento che – lo sappiamo – «non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18).

In definitiva, facendo il verso a Karl Rahner, non ci resta che ammettere: il prete (e il cristiano) del futuro o sarà mistico (santo), o non sarà.

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3 Commenti

  1. Salvo Coco 14 settembre 2022
    • Francesco 14 settembre 2022
  2. Marizero 14 settembre 2022

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