L’asino e il prete

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Avere il buonsenso dell’asino

Il fiutare continuo dell’asino fra le erbe selvagge che incontra con la sua testa costantemente penzolante fa rammentare che l’educare è questione di fiuto, cioè di quella forma d’intelligenza captativa e adattativa che fa cogliere le difficoltà, le opportunità, la buona strada risolutiva di un problema, il tempo giusto dell’intervento educativo, la scelta acconcia dei codici linguistici e quant’altro serve a porre un atto formativo buono e promuovente.

Una modulazione del buonsenso, nell’intervento educativo, è un fiuto speciale che solo la vita è capace di procurare. Esso agisce

  • come il senso giudi­zioso che evita eccessi progettuali, valu­tativi e permette di giudicare retta­mente, soprattutto in vista delle capacità pratiche;
  • come il senso discrezionale che suggerisce tempestivamente adattamenti e riduzioni, ampliamenti e integrazioni;
  • come il senso prudenziale che dà modo di giudicare bene, a sangue freddo e giustamente nelle questioni concrete che non comportano un’evidenza logica semplice;
  • come il senso critico che evita atteggiamenti e opzioni carenti di discer­nimento, tipici degli spiriti leggeri o degli spiriti contorti;
  • come il senso previdente che impedisce d’arrivare tardi di fronte alle difficoltà e alle opportunità educati­ve che si pongono di mano in mano: infatti, «il buonsenso è come un cannocchiale che fa vedere da lontano il bene e il male» (C. Cantù).

Raramente, purtroppo, si fa ricorso a questa grande fonte di sapienza educati­va, qual è il buonsenso, esponendosi a gravi rischi. L’asino mostra buonsenso e realismo soprattutto nella sua regolarità, metodicità, concretezza e ricorda al prete che deve averne almeno quanto lui nella sua opera educativa.

Imitare la mitezza dell’asino

Solo la via mite è via pastorale. Il cristianesimo è gratuità, proposta, invito, interrogazione. Questo esige che vengano deposte, anzitutto, le arroganze culturali che sono delle contraddizioni urtanti nei confronti della mitezza evangelica. Nella pastorale non si può far pesare nulla: né la bellezza, né la forza, né il denaro, né il potere, né l’intelligenza, né la cultura, né la furbizia, né la minaccia, né il ricatto. Nulla di tutto questo e simili.

è interessante lasciarci descrivere l’uomo mite da un non credente, che non ostentava con tronfiezza la sua non credenza, che anzi mostrava rimpianto per non credere. Si tratta di Norberto Bobbio, che così scrive di questa virtù dell’asino e dell’uomo, che i cristiani chiamano della terza beatitudine (cf. Mt 5): «Anzitutto la mitezza è il contrario dell’arroganza, intesa come opinione esagerata dei propri meriti, che giustifica la sopraffazione. Il mite non ha grande opinio­ne di sé, non già perché si disistima, ma perché è propenso a credere più alla miseria che alla grandezza dell’uomo, ed egli è un uomo come tutti gli altri. A maggior ragione la mitezza è contraria alla protervia, che è l’arroganza ostentata. […] A maggior ragione, la mitezza è il contrario della prepotenza. Dico “a maggior ragio­ne”, perché la prepotenza è qualcosa di peggio rispetto alla protervia. La prepotenza è abuso di potenza non solo ostentata, ma concretamente esercitata».[1]

Decentrare l’attenzione da sé

Com’è bello vedere in filigrana la figura del prete e del laico sul disegno dell’uomo mite ora descritto, così è disdicevole l’ecclesiastico che contraddice le linee di questo disegno, fatto sostanzialmente di tre linee dolci, che cancellano tre brutte parole: la prima linea è una giusta considerazione delle proprie azioni che rovescia l’arroganza; la seconda linea è la consapevolezza di essere come gli altri, che ribalta la protervia; la terza linea è il non abuso del potere che esorcizza la prepotenza.

Il mite ciuco con la testa bassa non ha le macchie di queste tre brutte parole sulla groppa e il prete mite non ce l’ha sull’anima. Ed ancora: «Il mite è […] colui che lascia essere l’altro quello che è, anche se l’altro è l’arrogante, il protervo, il prepotente. Non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di confliggere, e alla fine di vincere».[2]

Talora l’ecclesiastico (o il laico cristiano) si presenta come colui che vuole vincere sempre, a tutti i livelli, su qualunque tema, con chiunque, ad ogni costo. L’asino non è così: è discreto e sobrio; non porta rancore a nessuno: trasporta tutti senza fiatare, anche chi gli avesse gridato in modo sgarbato: asino, pezzo d’asino, testa d’asino… Invece, talora ci sono cristiani (preti e non) che si legano le cose al dito, nonostante tutti i Giubilei organizzati e celebrati, evidentemente per gli altri.

Ma torniamo a noi. Almeno come l’asino, il prete non deve portare mai rancore, ma perdonare con perdono pienissimo.

Confrontarsi con l’umiltà dell’asino

Le ricordate virtù dell’asino sono simpaticamente una profezia e un ricordo delle virtù del prete, soprattutto dell’umiltà. Non perdiamo però, nemmeno ora, il nostro angolo prospettico, che è quello di avvicinare solo su alcuni aspetti la figura dell’asino a quella del prete. L’umiltà di questo animale si è imposta nel tempo per essere stato da sempre un dimesso animale da soma. Poi sempre di più è diventato un trasportatore di uomini e cose, un compagno di strada. La sua remissività non è dovuta a ottusità percettiva, ma alla sua indole mite, al suo fare dimesso, umile appunto. è prevalentemente nel solco della cultura cristiana che è valorizzato il simbolismo dell’umiltà dell’asino,[3] che accostiamo, anzitutto, a quella del prete.

Chiediamoci: è umile l’asino? Lo è costantemente e con chiunque.[4] Lo sappiamo: un discorso sulle virtù non può essere condotto in modo fondato e concludente saltando il tema dell’umiltà; soprattutto, se questo avvenisse risulterebbe insignificante e inautentica la vita cristiana. Questo vale in modo singolare per il prete che in questa virtù ha l’arma migliore, la base della sua credibilità di uomo, di cristiano e di pastore.

Ma, nella prospettiva dei Padri, l’umiltà, più che una virtù, va compresa come la “madre” di tutte le virtù: anzitutto le rende possibili, poi le nutre, le sostiene e le collega in forte unità fra di loro. è per questo che sant’Agostino vede, in essa sola, l’intera disciplina cristiana, una virtù che non può mancare mai nella vita e nell’agire del cristiano perché è infinitamente presente in Dio e nel suo operare. «Io credo di poter dire: Dio è umile. Quando io prego, mi rivolgo a uno più umile di me: Quando io confesso il mio peccato, è a uno più umile di me che domando perdono».[5]

Adottare la concretezza dell’asino

L’asino guarda molto a terra, la nostra origine, il nostro spazio vitale, il nostro approdo mortale: «Ricordati, uomo, che sei polvere e in polvere ritornerai…». Il guardare a terra è ricordarsi dove si sta, da dove si viene, dove si va. Il guardare a terra è misurare i passi possibili, evitare gli ostacoli che eventualmente si frappongono, indovinare lo spazio adatto dove poggiare i piedi. è l’avere i piedi per terra.

Il prete col suo realismo (acquistato a morsi e lacrime, perché il più delle volte le necessità pastorali lo chiamano a vedersela da solo) fronteggia le situazioni pastorali più diverse, creando approcci adatti, proporzionando all’ambiente programmi pastorali proposti spesso astratti, smisurati, intempestivi, campati in aria, si direbbe senza gambe per camminare, scritti con la testa fra… le stelle, ma senza poggiare i piedi sui… vicoli, che sono gli unici camminamenti possibili in un certo luogo.


[1] Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano 1994, p. 24.
[2] Elogio della mitezza e altri scritti morali, cit., p. 25.
[3] La simbologia dell’asino tutto rassegnazione e umiltà viene invece capovolta da Fedro che, nelle sue favole, lo presenta come un provocatore del cinghiale, collocandolo fra il deviante e l’osceno. Mentre la provocazione dell’asino di Fedro non rientra nella cultura cristiana medievale e nella sua letteratura, nell’iconografia rinascimentale l’asino è avvicinato al diavolo, alludendo al peccato, alla sregolatezza e alla bestialità. L’asino rosso, che conosciamo anche attraverso il De Osiride et Iside di Plutarco, si collega a miti dell’antico Egitto con una valenza chiaramente malvagia.
[4] Questo non significa non essere informati che dal mito isiaco deriva anche uno statuto negativo (o quanto meno ambiguo) dell’asino anche rispetto alla virtù dell’umiltà. Quello è il mito a causa del quale definiamo asini i ragazzi svogliati e le persone ostinate, che rifiutano d’assoggettarsi a quei valori cristiani che sono la disciplina e l’umiltà; e ancora, riferendoci a quel mito, ci sembra assurda e ci fa ridere la famosa immagine dell’asino che vola (a differenza di quella del suo più nobile fratello equino: Pegaso, il cavallo alato, è segno di ascensione e di apoteosi). L’asino non può avere ali né volare in quanto animale legato alla terra, correlato all’immagine del caos; e tale lo interpreta anche lo psicanalista C.G. Jung (1875–1961).
[5] F. Carillon, L’umiltà di Dio, Bose-Magnano (BI) 1999, p. 7.

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