Il ministero dell’“episcopé” dei presbiteri

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Da alcuni decenni anche nel nostro paese numerose Chiese locali cercano faticosamente di trovare soluzioni praticabili al problema della diminuzione del numero dei presbiteri, cioè di quelle figure ecclesiali che, di fatto, sorreggono tutta l’azione pastorale, soprattutto a livello parrocchiale. Infatti, anche se nella Chiesa vi sono innumerevoli ministerialità fondate sul battesimo e il diaconato permanente, il ruolo del presbitero resta decisivo. Oltre ad essere annunciatore autorevole della parola di Dio e presidente delle azioni liturgiche, il suo ruolo di leadership è sostanzialmente indiscusso nelle comunità cristiane, per cui resta l’unico responsabile ultimo della loro organizzazione. Infine, se questi è parroco, è pure gravato dell’amministrazione di diversi beni ecclesiali, anche davanti alla legge italiana. È evidente, quindi, che il calo del numero dei presbiteri metta in crisi la vita pastorale nelle Chiese locali.

La situazione

Come si è cercato di far fronte a questo problema? L’impressione è che la soluzione effettivamente adottata nel nostro paese non sia stata quella di un ripensamento e di una delimitazione dei compiti presbiterali a partire dalle indicazioni del magistero recente e da una buona riflessione teologica, forse per evitare di attivare nelle comunità cristiane dei cambiamenti che non sarebbero capiti facilmente. Si è chiesto, allora, a ciascun presbitero uno sforzo supplementare per svolgere quei compiti che, in passato, venivano portati avanti da più ministri. Ad esempio, se fino a qualche decennio fa, ogni parroco era pastore di una singola parrocchia, oggi non è infrequente che ciascuno di essi abbia assunto la cura di più comunità. Parimenti, poi, si è riconosciuto ai presbiteri – almeno in linea di fatto – un amplissimo margine di discrezionalità sulle priorità del loro ministero, cioè sul decidere che cosa effettivamente fare e che cosa marginalizzare. In questo modo ogni presbitero, pur assumendosi idealmente un carico di lavoro ben eccedente le proprie possibilità lavorative, può ridurlo con una certa libertà al punto da renderlo vivibile.

Questa soluzione, però, comporta diversi rischi. Uno di essi è dato dal fatto che, non di rado, si finiscono per ignorare diverse giuste e ragionevoli aspettative delle proprie comunità, perché si ritiene di dare la priorità ad altro. Questo però genera un senso di delusione nei parrocchiani nei confronti del loro pastore, che non fa bene neppure a lui. Anche un ministro ordinato, infatti, ha bisogno di un certo riconoscimento da parte della sua gente, e questo suppone che possa fare bene il suo lavoro curandone tutti gli aspetti fondamentali. Accanto a questo rischio, però, ve n’è un altro che, almeno sul piano teologico, è ben più grave.

Il ministero dell’episcopé

Per ridurre il suo carico di lavoro, un presbitero non può certo evitare la presidenza delle azioni liturgiche, né può sottrarsi agli obblighi legati alla gestione amministrativa della sua comunità, visto il rischio di fare operazioni contro la legge. Risulta pure molto difficile rinunciare al compito di guidare l’organizzazione della comunità, cioè di affidare i vari incarichi alle persone volenterose e di gestire gli inevitabili conflitti che possono nascere. Che cosa, dunque, si può marginalizzare senza deludere più di tanto la propria comunità? Si tratta del ministero dell’episcopè, cioè della supervisione pastorale volta a fare in modo che la fede creduta e vissuta nella comunità cristiana sia autenticamente evangelica, cioè in sintonia con la fede apostolica. Non si tratta, quindi, di una semplice verifica che le varie attività pastorali diano buoni risultati, ma di qualcosa che tocca l’esistenza credente delle persone. Questo richiede un’interazione abbastanza costante del presbitero con i membri della sua comunità, che non può sostanziarsi in alcune apparizioni sporadiche o nella semplice dettatura delle linee pastorali ma che richiede dialogo e pazienza.

In realtà, questo compito dell’episkopé che oggi può essere marginalizzato senza troppe difficoltà è la ragione per cui già nell’epoca neotestamentaria è nato quello che noi oggi chiamiamo ministero ordinato. La Commissione Fede e Costituzione del Consiglio ecumenico delle Chiese, di cui fa parte anche la Chiesa cattolica, la definisce in questi termini nel documento del 2013 La Chiesa: verso una visione comune: «La Chiesa, corpo di Cristo e popolo escatologico di Dio, è edificata dallo Spirito Santo attraverso una varietà di doni o ministeri. Questa diversità richiede un ministero di coordinazione in modo che questi doni possano arricchire tutta la Chiesa, la sua unità e la sua missione. Il fedele esercizio del ministero dell’episkopé guidato dal Vangelo da parte di persone scelte e dedicate solo a questo è un’esigenza di fondamentale importanza per la vita e la missione della Chiesa. […] In tutti i casi, l’“episkopé” è al servizio del mantenimento della comunità nella fede apostolica e nell’unità della vita. Oltre a predicare la Parola e celebrare i sacramenti, uno scopo principale di questo ministero è di preservare e trasmettere fedelmente la verità rivelata, mantenere le congregazioni locali nella comunione, assicurare l’aiuto reciproco e guidare nella testimonianza del Vangelo» (n. 52).

Dunque, secondo l’opinione di tutte le Chiese afferenti a Fede e Costituzione, le comunità cristiane non possono vivere senza un ministero di episkopé vissuto a tempo pieno. Senza di esso, finirebbero per collassare. Nello stesso tempo, i compiti riconosciuti a questo ministero nel testo citato richiedono evidentemente un’interazione costante con le persone della comunità. Eppure, il panorama ecclesiale odierno sembra mostrare che proprio questo servizio è ampiamente disatteso. I presbiteri, per ridimensionare adeguatamente il loro carico di lavoro, non potendo rinunciare agli aspetti liturgici, amministrativi e organizzativi, finiscono facilmente per rinunciare all’episkopé, cioè per dare le linee di fondo delle attività da svolgere senza però dedicare tempo per supervisionare l’autenticità dell’esperienza cristiana a tutti i livelli della vita comunitaria. Il rischio, insomma, è che il presbitero sia una persona di fatto quasi irraggiungibile, e che la comunità cristiana sia concretamente affidata ad operatori pastorali non ordinati che, in quanto tali, non hanno il carisma per esercitare l’episkopé.

Ripensare l’esercizio del ministero presbiterale

Da questo punto di vista potrebbe essere importante il ruolo del diacono, che in virtù del sacramento dell’ordine, è chiamato ad esercitare questo servizio della supervisione pastorale. Tuttavia, la formazione minima richiesta attualmente ai diaconi, anche sul fronte teologico, non garantisce loro le competenze necessarie per un compito di tale portata. Del resto, essi sono pensati come servitori delle comunità, cioè persone disponibili a svolgere qualunque compito di un certo rilievo al loro interno, per cui non fa problema che il livello della loro preparazione possa anche essere minimale. Soprattutto, poi, l’episcopé esercitata dai diaconi non potrebbe essere alternativa ma solo complementare a quella dei presbiteri, che restano comunque i pastori propri delle loro comunità.

La necessità di garantire ai presbiteri la possibilità di esercitare adeguatamente il ministero dell’episkopé richiede allora di limitare il più possibile i loro compiti di tipo amministrativo e organizzativo. A tale scopo sarebbe funzionale la scelta di unire le parrocchie più piccole in un’unica comunità, anziché dar vita ad unità pastorali, anche se tale opzione si scontrerebbe necessariamente con il legittimo desiderio da parte dei cattolici di continuare a vivere il loro cammino di fede nel territorio in cui abitano e nelle strutture nelle quali sono cresciuti e a cui si sono affezionati. Tuttavia, proprio questa tutela di una presenza capillare delle parrocchie grava enormemente sulle spalle dei presbiteri, che vedono moltiplicati i loro impegni di carattere amministrativo e gestionale per ciascuna delle comunità che devono seguire.

In ogni caso, sarebbe auspicabile non lasciare sulle spalle dei presbiteri la responsabilità e la fatica di determinare le priorità del loro ministero. Sarebbe importante che le Chiese locali e la Chiesa italiana provassero coraggiosamente a ripensare l’esercizio del ministero presbiterale. Se, com’è ovvio, tale opzione non può che essere fatta a partire dal ritorno alle fonti, proprio il NT e la tradizione antica della Chiesa ci insegnano che è l’episkopé il compito originario per cui è nato il ministero ordinato e quindi l’aspetto da mettere al sicuro prima di ogni altro.

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