Ministero e carità

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ministero roberto davanzoNel 2005 don Roberto Davanzo succede a don Virginio Colmegna alla guida della Caritas ambrosiana, dove occuperà questo ruolo fino al 2016. Oggi è parroco di una comunità della diocesi milanese. Giordano Cavallari lo intervista sul rapporto fra esercizio del ministero e pratiche di carità.

  • Caro don Roberto, qual è stata la tua iniziazione alla carità nella vita cristiana e quindi nel ministero? Da direttori Caritas abbiamo spesso costatato una insufficiente preparazione dei presbiteri in fatto di pastorale della carità. Per cercare di ovviare, Caritas italiana promuove da anni corsi estivi per seminaristi, peraltro, da quanto ne so, non molto frequentati.  Qua e là, nelle diocesi, si sono sviluppate forme di incipiente collaborazione formativa tra Caritas e seminari. Molti preti dedicati ai poveri hanno appreso da alcuni maestri della carità piuttosto che da formatori istituzionali. A te come è andata?  

La mia generazione di preti non ha ricevuto una precisa formazione nella carità, sia nei termini di una formazione teologico-pastorale, sia di esperienza personale di servizio negli ambienti dedicati ai poveri. La carità, anche per i presbiteri, era concepita negli anni della mia formazione come un affare di coscienza e una virtù personale non necessariamente organica al ministero e soprattutto strutturante la vita della Chiesa e quindi della parrocchia.

Tanti preti hanno perciò sostanzialmente continuato a pensarla così. Io ho avvertito in seguito questa mancanza. Alla carità sono arrivato per altre vie. Ora penso che le cose siano cambiate. So che – nella diocesi di Milano – i seminaristi di IV teologia vengono avviati ad esperienze in ospedale, in carcere o altrove. C’è sicuramente una maggiore attenzione. Mi pare tuttavia che ci sia ancora molto da offrire alla preparazione dei preti.

Milano: Chiesa e carità
  • Sei stato direttore – da prete – di una Caritas delle proporzioni della Ambrosiana, dal 2005 al 2016. Io sono stato direttore – da laico -, dopo essere stato a lungo collaboratore, di una Caritas di molto più modeste proporzioni, a Mantova, dal 2009 al 2018. Io sono stato preso dal “campo”, per anzianità di servizio. Tu eri già parroco e ti eri prevalentemente occupato di altro. Come sei stato individuato proprio per quel compito presbiterale, ma forse non necessariamente presbiterale?    

All’ambito della carità sono arrivato per tappe e stagioni della mia vita e del mio ministero. Dapprima attraverso lo scoutismo, praticato sin da adolescente. L’educazione scout prevede evidentemente anche il servizio agli ultimi. Poi, in parrocchia, ho cominciato ad incrociare la Caritas. Erano gli anni in cui si stavano strutturando le Caritas parrocchiali.

Da giovane prete ho respirato il clima che il cardinal Martini aveva creato con la lettera pastorale Farsi prossimo e col convegno che ne era seguito. Nel 2000 sono diventato parroco e ho trovato nella mia prima parrocchia una Caritas già ben organizzata e dalla quale io stesso ho meglio capito che cosa potesse significare la carità nel mio ministero: in chiave comunitaria parrocchiale. Nonostante ciò, rimasi del tutto sorpreso dal cardinal Tettamanzi quando mi chiamò per farmi diventare direttore di Caritas ambrosiana. Chiesi che cosa c’entrassi io, perché evidentemente mi portavo ancora dentro l’idea che i preti più adatti fossero quelli già ben identificati col mondo della carità e dell’assistenza ai poveri.

Oggi ringrazio l’arcivescovo per aver pensato che anche un “normale” prete, già parroco, potesse e dovesse occuparsi della Caritas diocesana, ossia della parte essenziale della carità nella vita di una Chiesa. Ho potuto così calarmi nella profonda intuizione di papa Paolo VI che aveva voluto istituire la Caritas innanzi tutto per educare, per educare tutti nella Chiesa, all’attenzione agli altri, specie agli ultimi, organizzandoci appunto come Chiesa di fratelli e di sorelle in Gesù Cristo: non più quali singoli e meritori fedeli.

Ora – nuovamente parroco – penso di aver assimilato quella dimensione propria della carità nel ministero in parrocchia come una dimensione imprescindibile, in qualche modo obbligatoria: ciò che non pensavo nei miei esordi.

  • La pastorale della carità promossa da Caritas viene da Paolo VI e dal portato del Concilio, come più volte, insieme, abbiamo avuto modo di sentirci dire e di dirci. Ci siamo anche detti che le idee conciliari stentavano e stentano a trovare realizzazione. C’era ancora molto ritardo e molta continuità rispetto al passato: un ritardo sia rispetto all’idea di carità, sia rispetto al profilo del prete “conciliare” posto nella pastorale della carità.  

Condivido il rilievo del ritardo rispetto alle idee conciliari. Sono testimone della fatica che ancora oggi preti e, conseguentemente, laici fanno a ritrovarsi nel ruolo prioritariamente educativo, indicato da Paolo VI e dal Concilio, piuttosto che in un ruolo immediatamente operativo: è sempre più facile in fondo, anche per il prete, “muovere le mani”, fare subito delle cose che hanno le sembianze della carità, piuttosto di stimolare, di invogliare, incoraggiare, far crescere – lentamente e pazientemente – una sensibilità comunitaria e quindi un’organizzazione di comunità al riguardo.

Si tratta di arrivare al servizio dei poveri attraverso il servizio dei cristiani che frequentano le nostre parrocchie. Dopo tanti anni dall’istituzione della Caritas non siamo ancora arrivati a capire sino in fondo l’intuizione dei padri fondatori e – se pure l’abbiamo capita – non siamo ancora preparati a realizzarla con spontaneità.

Il “corto circuito” ha luogo in ogni momento: dare risposte immediate, mettendo in piedi delle opere per i poveri, senza pensare alla dimensione educativa e al coinvolgimento dei cristiani e di tutti, avviene più velocemente, sembra dare risultati immediati ed è, perciò, persino più gratificante, benché non cambi chiaramente il sistema che genera le povertà e non cambi neppure, in maniera significativa, la Chiesa stessa.

Pastorale e carità
  • L’idea forte portata dal Concilio, poi costantemente ribadita dal magistero, è che la carità è tanto importante e tanto costitutiva quanto lo è la liturgia e la catechesi. In un documento della Chiesa italiana degli anni ’90 si parlava di osmosi tra le tre dimensioni fondamentali.

La visione pastorale a cui mi rifaccio è – appunto – quella delle tre gambe, su cui poggia tutta la Chiesa. Sono tre gambe distinte ma ovviamente collegate tra loro, a sostegno di un unico piano. Penso che non si possa smettere di promuovere nei presbiteri questa convinzione. Mi sembra decisivo.

  • Ricordo che mons. Nervo e mons. Pasini che ho avuto modo di ascoltare direttamente dai primi anni ’80, raccomandavano ai preti e ai laici impegnati nella carità di essere attenti a non ricevere deleghe, né dall’interno della Chiesa, né dalle pubbliche istituzioni.

La Caritas rischia sempre di essere quel gruppo che non dovrebbe essere un gruppo, se non di animatori, a cui viene delegato il compito della carità. Mons. Nervo e Mons. Pasini ci hanno insegnato che la Caritas non deve ricevere la delega della carità dai cristiani della parrocchia o della diocesi, pena smentire sé stessa.

Ma ovviamente i primi a non servirsi di deleghe devono essere i presbiteri, specie se parroci: né possono delegare qualcuno ad occuparsi della carità e dei poveri, né possono assumere la delega in proprio, occupandosene da sé stessi, il che facilmente ancora avviene. La tentazione è peraltro molto forte. Lo dico pure per me. Mi è capitato di ascoltare tanti santi preti dire che non avevano bisogno della Caritas perché, ad esempio, ogni sabato ed ogni domenica si preparavano nel portafoglio tanti pezzi da 5 e da 10 euro da distribuire ai poveri che si sarebbero presentati alla porta della casa canonica. È un esempio estremo ma neppure troppo raro.

Ritengo che questo modo di intendere la carità sia persino pericoloso: oltre che non essere educativo per i cristiani, non è educativo per le persone beneficiate che andrebbero sempre aiutate a rimettersi a camminare sulle proprie gambe, piuttosto che consolidate nella posizione della loro dipendenza. Sappiamo poi che noi preti siamo facilmente abbindolabili e comunque non in grado di accompagnare puntualmente le persone in percorsi di emancipazione. Perciò la carità richiede organizzazione e ampio concorso comunitario.

  • Nella nostra comune esperienza abbiamo incontrato diversi modi – non uno soltanto – di essere prete impegnato per la carità. Naturalmente il discorso può valere anche per i laici.  

Grazie a Dio, ci possono essere tanti modi di essere e di fare il prete e il parroco. Io avverto francamente con preoccupazione un certo modo di identificarsi con un’opera o un insieme di opere di carità. Ci sono preti geniali, carismatici e capaci che sono stati in grado di realizzare tante opere e servizi per i poveri.

Ma lo hanno fatto in maniera tendenzialmente identificante con la propria persona, per cui non possono cambiare ruolo, non possono avere successione, altrimenti casca tutto. Queste opere – a specchio dei fondatori – mettono peraltro non poco in difficoltà i vescovi, quando viene il momento di rivedere il posto dei preti nel ministero.

Il prete e la strada
  • Abbiamo incrociato “preti di strada” o preti “partiti dalla strada” e giunti ad assumere riconosciuti e complessi ruoli dimostrando notevoli capacità manageriali.

Sì, con un certo rammarico osservo come il mondo dei media, anche cattolici, stia esaltando i cosiddetti preti di strada: questo sostiene un modello di prete che,  con tutto il rispetto e le doverose differenziazioni, fa passare solo quello come veramente bravo, come un eroe, un salvatore nelle circostanze estreme; nel mentre non vengono affatto considerati altri aspetti molto meno evidenti ma molto più importanti nella ordinarietà della vita di un prete, quali – come ho accennato – la capacità di spendersi per la crescita di una comunità tutta attenta ai poveri, con un lavoro ampio di animazione e di partecipazione della vita di carità da intendersi anche come azione politica quotidiana di richiamo delle istituzioni ai loro compiti.

  • Il termine chiave su cui si regge l’impianto della carità secondo questa visione ministeriale è comunità. Sarà capitato anche a te, tuttavia, sentir dire da molti preti che la comunità cristiana, se non idealmente, non è mai esistita, esiste sempre meno e non sarà mai come dovrebbe essere. Se questo è, non resta che la carità personale, sia pure intesa con connotazioni più fortemente relazionali ed affettive rispetto alla figura tradizionale, quale papa Francesco sembra sottoporre con insistenza a preti e laici col concetto di misericordia. 

Parlare di comunità significa certamente guardare al futuro della Chiesa occidentale, ormai così molto avanti nell’età. Io rendo grazie per i pensionati che, con estrema generosità, si sono messi a disposizione in tutti questi anni nei nostri servizi parrocchiali e diocesani per i poveri e non solo. Grazie a loro, si son fatte tante cose e tante ancora vanno avanti. Questa stagione sta per finire per ragioni semplicemente demografiche.

Perciò penso che questo sia il momento in cui le nostre Chiese devono cercare in fretta alcuni punti fermi per conservare l’essenziale della pastorale e del ministero, lasciando perdere molto altro. Questo passaggio per me deve significare un passaggio rilevante di corresponsabilità tra preti e laici. I preti che resteranno non potranno certamente fare tutto e non potranno ancora pensare di “farla da padroni”, per intenderci, per quanto padroni paterni e benevoli.

Noi preti dobbiamo avere il coraggio di fare ora decisi passi indietro, perché altri (laici) possano fare passi in avanti. Sappiamo quanto sia rischioso. Sappiamo che ci possono essere laici più clericali dei preti. Ma questa è la strada, anche per l’ambito della pastorale della carità, forse soprattutto per l’ambito della carità e a partire dall’ambito della carità di comunità.

Caritas ed Evangelo
  • Se cerchiamo di essenzializzare la carità spogliandola da propositi di carattere sociale e politico – peraltro comunque positivamente collaterali – possiamo dire che la carità promossa dal ministero è sempre per l’evangelizzazione?

Penso che il modo di evangelizzare le persone che non sono mai entrate in una chiesa – pure perché di altra appartenenza religiosa – debba essere molto rispettoso. Ricordo che mons. Nervo diceva che alcuni entrano in chiesa attraverso la struttura del tempio di pietra, altri attraverso le sale dell’oratorio o i campi sportivi, altri attraverso il centro di ascolto dei poveri. All’evangelizzazione di tipo verbale molte persone non arrivano forse mai.

Più importante è la percezione del mistero di Dio, del Dio di Gesù Cristo. Una tale percezione non può che attraversare gli incontri tra le persone umane: questo fatto misterioso accade o non accade o accade in qualche misura, nel nostro caso, anche in un centro di ascolto, oppure in una sede di aiuto e di accoglienza, ovvero in un dormitorio o in una mensa.

Perciò gli “operatori” della carità – ossia quelli che fisicamente stanno lì ad incontrare le persone – sono determinanti: la loro umanità credente è determinante. Non basta ovviamente che siano operatori capaci e professionalmente preparati, anche se per me questo è importante: nella loro preparazione deve trasparire altro. Io dico che sono dei cristofori.

  • La Chiesa che evangelizza con la carità non è cosa nuova. La cosa un po’ nuova è che siano i poveri ad evangelizzare la Chiesa.

Il senso di questa espressione, secondo me, sta nei volti – inattendibili e persino sfigurati – delle persone che si incontrano nella pratica della carità: nei loro volti c’è il volto stesso di Cristo. È bello da dire. In realtà un tale riconoscimento del volto di Cristo è la cosa più grandiosa che ci possa accadere come preti e, semplicemente, come cristiani.

Non penso che ci possano essere differenze tra preti, diaconi e laici. Quando sentiamo dentro di noi che quell’uomo o quella donna che ogni giorno chiede con insistenza, ci importuna o persino ci minaccia (perché ha una gran rabbia dentro) ha qualcosa del Cristo di Dio, non rinunceremo a prestargli attenzione, ad ascoltarlo, ad accompagnarlo, da comunità di credenti.

Cf. SettimanaNews

L’attenzione all’esercizio del ministero e al suo rapporto con la comunità cristiana rappresenta uno dei temi centrali seguiti da SettimanaNews, sia per offrire spunti di riflessione sia per aprire un dibattito pubblico sulle trasformazioni che il ministero sta conoscendo – e su quelle a cui la Chiesa dovrebbe urgentemente mettere mano in vista di una sua significativa presenza nella vita della fede nel prossimo futuro.

S. Armanni: Caro prete…
R. Zanon: Cara Sara…
L. Maistrello: Crisi dei preti, riflessioni e proposte
E. Petrolino: Cosa fanno i diaconi in Italia?
G. Pagano: Sul disagio dei preti

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