Narrare la fede ai genitori

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Lo spostamento di attenzione della catechesi dell’iniziazione cristiana ai genitori si è rivelata vincente o perdente? Cosa sta cambiando nei ragazzi, nei genitori, nella comunità? Cosa attendersi per il futuro? Ne ha parlato fratel Enzo Biemmi al convegno nazionale dei catechisti (Roma, 23-25 settembre).

«A poco servirebbe, in ordine alla fecondità degli itinerari di iniziazione cristiana, se a partire dai 6-7 anni di età i percorsi di gruppo dei bambini e dei ragazzi fossero interamente delegati ai catechisti, lasciando sullo sfondo il possibile apporto dei genitori e il contesto offerto dalla stessa vita comunitaria […]. L’accompagnamento dei genitori non potrà che continuare, evolvendosi nelle forme e negli stessi obiettivi […] In concreto, si tratta non solo di fissare veri e propri itinerari di catechesi per i genitori, ma anche e soprattutto di responsabilizzarli a partire dalla loro domanda dei Sacramenti» (Incontriamo Gesù, n. 60).

Tutta la riflessione e la sperimentazione fatta in questi anni sull’iniziazione cristiana, dopo le tre note che in qualche modo l’hanno sostenuta e incoraggiata, ci ha trovati concordi, tra l’altro, su questo punto: lo spostamento di asse dai soli ragazzi ai loro genitori. Se non raggiungiamo i loro genitori, il lavoro sui ragazzi rischia di non avere futuro, continuiamo a dire. E anche: i destinatari veri dell’iniziazione cristiana dei ragazzi sono i genitori, sono loro che hanno bisogno di essere reiniziati alla fede.

Gli Orientamenti CEI Incontriamo Gesù recepiscono e rilanciano questa convinzione. Questa consapevolezza non riguarda solo le comunità cristiane che hanno rinnovato l’impianto dell’iniziazione cristiana (IC), ad esempio secondo il modello catecumenale o quello dei quattro tempi (per citare i due più diffusi in Italia), ma anche tutte le parrocchie (e sono la maggioranza) che continuano con il modello consueto. Non c’è catechista che non si renda conto che la posta in gioco sono i genitori e non c’è comunità che non provi a mettere in atto qualche iniziativa, anche modesta, in questa direzione. Modello rinnovato o modello consueto poco importa: importa coinvolgere i genitori.

Eppure, proprio questo punto che ci trova concordi è anche quello che crea più difficoltà, sembra ottenere scarsi risultati ed è a rischio di non poche ambiguità, di messaggi e metamessaggi che rischiano di vanificare ogni buona intenzione, e quindi di frustrazioni pastorali.

Le comunità che hanno rinnovato l’impianto di IC hanno particolarmente puntato su questa scelta. Dopo una quindicina di anni di sperimentazione queste proposte costituiscono quindi anche un interessante punto di osservazione per capire che cosa sta veramente accadendo, che problemi stiamo affrontando nel coinvolgimento degli adulti, quali aspettative e quali obiettivi ci possiamo dare e quali no.

Per restare sul pratico: cosa siamo riusciti a fare fino ad ora; che cosa è effettivamente fattibile; che sguardo e che attese possiamo avere; quali attese non ci dobbiamo fare.

Sviluppo il mio pensiero in tre passaggi, i più ovvi e mi pare i più necessari: la realtà dei genitori; l’intenzionalità che ci anima; la proposta che mettiamo in atto.

1. Quali genitori? (la realtà)

Amoris lætitia (AL), dopo il primo capitolo che porta una sguardo sulla famiglia attraverso le pagine della Bibbia,[1] consacra un lungo capitolo alla situazione reale delle famigli attuali, «in ordine a tenere i piedi per terra», dice papa Francesco (n° 6). Che la realtà sia più importante dell’idea è ormai un acquisito nel modo di affrontare le cose da parte di papa Francesco, e il suo invito a non presentare un quadro ideale della famiglia, è forte e chiaro.[2] Si tratta di partire da quello che essa è e vive e accompagnarla verso “il bene possibile”. Questo discorso è decisivo, ed è il primo che dobbiamo fare quando parliamo del coinvolgimento dei genitori. Facciamo allora attenzione ai tre dati seguenti.

I genitori che hanno figli nel periodo del completamente dell’IC si collocano di media tra i trenta e quarant’anni e vivono un momento della vita particolarmente complesso, dovendo assommare diversi ruoli contemporaneamente: di padre e madre, di marito e moglie, di figlio e figlia che comincia a doversi occupare dei genitori, di impegni lavorativi onerosi e di altri interessi sociali. A questo si aggiunge la situazione sempre più diffusa di crisi o fallimento del primo matrimonio, di solo matrimonio civile o convivenza, di seconde unioni con famiglie allargate. Sono in un momento della vita dove si identificano con quello che devono fare, che li assorbe totalmente. Hanno poco tempo per se stessi, sono sempre di corsa. Il catechismo dei loro figli è solo uno degli aspetti (e certo non il più importante) di un insieme di impegni molto onerosi che devono onorare. Il dialogo di due mamme al supermercato è significativo: «Ma dai, porta pazienza, tra poco fa la cresima ed è finita». E questa frase non viene da persone lontane dalla Chiesa.

Per quello che riguarda la fede si trovano in situazioni molto differenziate. Sono tutti dentro un contesto di transizione culturale caratterizzato almeno per grande parte delle regioni italiane dal permanere di abitudini religiose che riguardano alcuni riti di passaggio, come appunto i battesimi, le prime comunioni e le cresime, domande di riti sempre meno accompagnate da un reale vissuto di fede. La maggioranza dei genitori ha contatti sporadici con la comunità cristiana e l’ultimo incontro personale per molti è stato quello veloce del battesimo dei loro bambini o della prima comunione nel caso della cresima. Ci sono poi genitori francamente indifferenti, attenti a tutt’altro nella loro vita, se non molto freddi nei riguardi della Chiesa. Ci sono infine genitori motivati, spesso impegnati nelle comunità, per esempio come catechisti. Ma per la stragrande maggioranza i genitori attuali rappresentano quelle generazioni in via di sparizione che ci tengono ancora ad alcuni momenti religiosi e che preparano le prossimi generazioni (forse già la prossima) di coloro che non chiederanno più i battesimi né i sacramenti successivi. L’onda lunga del cristianesimo sociologico sta per esaurirsi e questa forse è proprio l’ultima. Avremo meno problemi pastorali riguardanti le domande di sacramenti; saremo misurati ad altre sfide.

Perché li mandano a catechismo? Lo fanno per il loro figli, non per se stessi. Questa presa d’atto è fondamentale, e vale per tutti, anche per coloro che hanno un vissuto di fede. Tu puoi parlare a qualunque mamma e te ne rendi immediatamente conto. Anche le più motivate non pensano affatto che questo sia un momento per loro: è per i loro figli. Per se stesse non hanno né il tempo, né la testa. E il messaggio che noi immediatamente mandiamo loro è che questo è un momento per loro, per riprendere la loro fede in mano, per un cammino su di sé proprio nel momento in cui hanno pochissimo tempo per sé. Certo, per il bene dei loro figli.

È molto importante che siamo consapevoli di questo scarto intenzionale. Noi non ce ne rendiamo conto, perché siamo tutti sbilanciati sul compito, sulla missione, e diamo per scontato che questo sia scontato anche per loro. Il paradosso è che anche i catechisti genitori entrano in questo offuscamento della percezione.

Riassumo così: per la maggioranza è una domanda di riti, non di fede; in un momento della loro vita nel quale hanno poco tempo per tutto e non è il momento più adatto per un ritorno su di sé (lo era certamente di più al momento del matrimonio e della nascita dei loro bambini, per esempio; lo sarà molto di più in alcune fasi successive della loro vita); vogliono bene ai figli e pensano che questo sia un bene per i loro figli, ma non lo percepiscono importante per loro stessi. Salvo eccezioni, che confermano la regola.

Queste tre semplici considerazioni, per altro non esaustive, ci rendono attenti a come affrontiamo tutta la questione della proposta di fede ai genitori.

È uno sguardo realistico, che può apparire persino cinico, che non ci porta certo a rimangiarci le convinzioni con le quali ho iniziato, vale a dire che è indispensabile uscire da una catechesi di IC puerocentrica e spostare l’asse sugli adulti. Ma ci educa a calibrare gli obiettivi, a non farci delle attese sproporzionate che portano a mettere sulle spalle delle persone dei pesi che non siamo in grado di portare neppure noi e creare le premesse per non poche delusioni pastorali.

2. Quali obiettivi (l’intenzionalità)

Verifichiamo dunque l’intenzionalità che ci abita e gli obiettivi che abbiamo. È utile per questo interrogare quelle pratiche che hanno rinnovato l’impianto di IC e hanno fatto della proposta di fede ai genitori uno dei punti centrali e chiedere loro che cosa accade veramente. Questo non tanto per imitarle, quanto piuttosto per trarre qualche indicazioni di percorso che tenga insieme passione e realtà.

Riferendomi prevalentemente a tre verifiche riporto cosa sta emergendo sui tre soggetti implicati: i ragazzi, i genitori, la comunità (in particolare i parroci e i catechisti).

I ragazzi

Un dato che emerge con una certa crudezza dalle verifiche è che il rinnovamento messo in atto non cambia all’apparenza gran che per quanto riguarda i primi destinatari, i ragazzi. La continuità di appartenenza e di pratica sembra essere simile a prima del rinnovamento dell’IC, se non addirittura inferiore, non essendoci più la cresima a trattenere i ragazzi fino alla III media.[3] Risulta ad esempio che i ragazzi, terminato il percorso, disertano l’eucaristia domenicale come avveniva con il modello precedente, mentre manifestano una certa disponibilità a partecipare alle altre attività parrocchiali o di oratorio nei contesti in cui c’è un buon tessuto relazionale e una buona proposta di animazione. Nulla di nuovo sotto la luce del sole, si potrebbe dire.

La reazione immediata, e giustificabile, è di delusione: occorreva fare tutto questo lavoro per non ottenere nessun risultato? Sono state energie sprecate. Ma la lettura va fatta diversamente.

Che i ragazzi se ne vadano dopo la conclusione dell’IC (3 su 4 circa è la media italiana), è in fondo un dato fisiologico. Sono allontanamenti naturali, in qualche modo persino necessari per una interiorizzazione e personalizzazione di quanto si è ricevuto per tradizione. Qualcuno “se ne va” restando, altri se ne vanno andando via. Prendono le distanze. Le domande giuste da farsi sono le seguenti: «Come se ne vanno? Da che cosa? Con quale messaggio rispetto alla fede e alla comunità?». «Come se ne andavano prima e come se ne vanno ora?». Una cosa è certa: a differenza delle precedenti generazioni di ragazzi, questi hanno visto alcuni adulti (i loro genitori e quelli dei loro coetanei) parlare della fede, trovarsi attorno alla Parola di Dio, condividere la loro esperienza dentro la comunità ecclesiale, partecipare con loro all’eucaristia. Possiamo sperare che questo abbia perlomeno l’effetto di farli uscire da quel metamessaggio che essi coglievano chiaramente, perché non sono stupidi, vale a dire che la fede è una cosa utile fin che si è bambini. Se si vuole diventare grandi, occorrerà lasciarla perdere, come i loro genitori.[4] Ma ci sono altri messaggi importanti, prima di tutto la figura di fede che è stata trasmessa. Noi siamo delusi perché tre su quattro se ne vanno e ci rallegriamo per il quarto che resta. Ma la domanda vera dovrebbe essere: con cosa se ne vanno e con cosa resta? Perché se si allontano con il messaggio del kerigma nel cuore e l’esperienza di una comunità accogliente, questo costituisce il patrimonio perché ritornino, se la grazia di Dio e la loro libertà lo permetteranno. Se invece hanno dentro una visione di fede ridotta a morale e l’immagine di una comunità disinteressata, fondamentalmente rituale e poco interessante per il loro bisogno di vita, sarà difficile che tornino. Analogo è il discorso per il quarto (o il terzo) che resta.

La considerazione decisiva sugli gli effetti del rinnovamento per i ragazzi non è quindi quantitativa, ma qualitativa, e questo non può essere verificato nell’immediato. Il dato all’apparenza negativo va preso come un invito a stare attenti a ciò che è decisivo.

I genitori

I dati sui genitori sono più confortanti, ma presentano un’ambivalenza significativa, così riassumibile: il percorso rinnovato di IC non contribuisce a riavvicinare persone lontane, mentre rappacifica con la comunità e riapre un certo cammino di fede per i genitori già in qualche modo più vicini. Più che di conversione, quindi, parliamo di ricominciamento per un numero non alto ma significativo di genitori. Questo dato ci fa pensare due cose:

a) Se la proposta ai genitori riavvicina alla fede e rappacifica con la comunità alcuni genitori, questo è molto più significativo e importante del primo dato, quello sui ragazzi (il quale comunque non va sottovalutato), perché questa è la condizione per un possibile futuro della fede dei bambini. La quantità conta poco, perché la fede e il suo ricominciamento non sono dominabili in termini cronologici dalle nostre programmazioni: sono il mistero della grazia di Dio e della libertà umana.

b) Il secondo dato è altrettanto istruttivo. Non si sono avvicinati i genitori più lontani. Come leggere questo? Semplicemente prendendo atto che il rinnovamento dell’IC, nella fase attuale non può da solo assumere tutto il compito dell’annuncio del vangelo alla famiglia, e in particolare agli adulti. “Da solo” si riferisce a questo rinnovamento in prospettiva catecumenale quando esso viene messo in atto dentro una parrocchia la cui logica pastorale continua ad essere quella di conservazione dei già vicini. Per molti adulti, in particolare per chi si è marcatamente allontanato o è in questa fase della vita del tutto disinteressato alla fede, gli appuntamenti per un possibile kerigma vanno tenuti tutti aperti e riguardano i passaggi della loro vita, di cui uno è l’esperienza genitoriale, ma altri decisivi sono l’esperienza dell’amore, del fallimento di un matrimonio, della perdita di lavoro, della malattia, di un lutto, della propria fragilità, del proprio morire. Si tratta in sostanza di quelle soglie della fede che il Convegno ecclesiale di Verona del 2006 aveva indicato come sfida pastorale.

La comunità

Veniamo al terzo soggetto implicato, che è la comunità promotrice di questo rinnovamento. Parliamo dei preti, dei consigli pastorali e dei catechisti, e quindi di un nucleo piccolo ma vitale della comunità parrocchiale. Cosa cambia nel gruppo di catechisti e nelle nostre comunità grazie a questo rinnovamento?  È questa la questione fondamentale: non si rinnova se rinnovando un modello questo non rinnova coloro che lo propongono. Sarebbe una pura questione strategica, come se da una parte ci fossimo noi che abbiamo il Vangelo, dall’altra quelli che lo devono ricevere.

Dallo sguardo sul rinnovamento dell’IC in molte diocesi italiane possiamo vedere che il dato più sicuro è proprio questo: al di là degli effetti sui ragazzi e sui loro genitori, il grande cantiere del rinnovamento dell’IC con il coinvolgimento dei genitori ha rimesso in moto la comunità ecclesiale, ha restituito fecondità a un grembo da troppo tempo sterile. Sono diverse le testimonianze di preti che dicono che prima non ne potevano più e che ora hanno ritrovato il gusto del loro ministero, pur con le fatiche e gli scombussolamenti. E ancora di più i catechisti e gli animatori che dicono di essere usciti dalla solitudine e di avere ripreso il cammino di fede personale grazie in particolare agli adulti con i quali e non per i quali fanno catechesi. Insomma, occorre chiedersi se il rinnovamento dell’IC di questi anni ha confermato la verità della felice affermazione del n. 7 del documento sul volto missionaria delle parrocchie in un mondo che cambia: «Con l’iniziazione cristiana la Chiesa madre genera i suoi figli e rigenera se stessa».[5]

Come si può notare occorre dare peso inverso ai tre soggetti implicati: prima i protagonisti dell’iniziativa (la comunità), poi gli adulti genitori, poi i ragazzi. Se i primi due soggetti sono almeno parzialmente modificati, allora anche i ragazzi avranno davanti a sé un futuro possibile per la loro fede.

3. Il “kerigma della genitorialità” (la proposta)

È dentro questo quadro e questo sguardo che possiamo e dobbiamo attuare l’accompagnamento dei genitori. Il massimo e il minimo che possiamo fare con i loro è quello di riproporre il kerigma (annuncio evangelico), in questo incontro più o meno breve che hanno con la comunità cristiana.

Il kergima è quello che papa Francesco riassume con una semplicità disarmante:

«Sulla bocca del catechista torna sempre a risuonare il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”». (Evangelii gaudium, 164).

Al numero 165 Evangelii gaudium (EG) afferma che è sempre il kerigma che dobbiamo annunciare, ma in modo che si faccia carne dentro le situazioni concrete della vita delle persone. Un kerigma, quindi, che sia una buona notizia per dei trenta/quarantenni genitori, non importa se vicini o lontani. Lo potremmo definire il kerigma della genitorialità, visto che lo fanno per i loro figli e non primariamente per se stessi: Dio vi ama; egli sa che è facile mettere al mondo un figlio, molto più difficile essere padri e madri. È esperto nel generare. Non vi lascia soli nel vostro compito di educazione dei figli. La comunità cristiana è qui per esprimervi concretamente questa vicinanza di Dio.

Come declinare questo kerigma? Lo sguardo sulle pratiche in atto con gli adulti ci rinvia tre orientamenti molto importanti.[6] Esse ci dicono che il kerigma va a segno (senza poter mettere le mani sul risultato) quando incontrando i genitori più o meno disponibili noi facciamo loro tre sorprese.

– la sorpresa della comunità;

– la sorpresa di un linguaggio e di un contenuto che riguarda quello che vivono;

– la sorpresa di un Dio a favore dell’uomo, che si appassiona e ha compassione (la misericordia).

a) La sorpresa di un’esperienza ecclesiale diversa

I genitori vengono con un immaginario di Chiesa e si aspettano un certo tipo di discorsi, prevalentemente moralistici. Molti sanno di non essere del tutto a posto con la fede. Il kerigma passa per la porta di un’esperienza diversa di comunità ecclesiale, che in poco tempo può far crollare in loro resistenze e precomprensioni che, forse, li hanno tenuti lontani o indifferenti per tanto tempo. Questa rielaborazione non avviene per via intellettuale, ma relazionale, non parlando di Chiesa ma vivendo un certo stile di chiesa. Questo stile è caratterizzato da relazioni buone ispirate al vangelo, connotate da un’accoglienza incondizionata di tutti (sospendendo ogni giudizio morale o religioso), in un clima di ascolto e rispetto e dentro dinamiche di reciproca edificazione. Il primo obiettivo è di far fare un’esperienza di Chiesa diversa da quella che avevano lasciato, e non tanto di fare degli incontri di riflessione. Un aspetto molto importante, in questo, è che vedano non solo il presbitero, ma delle coppie come loro che li accompagnano camminando con loro.

b) La sorpresa di una fede come grazia di umanità (seconda sorpresa)

La seconda sorpresa (porta di ingresso o di ritorno) riguarda il linguaggio e il contenuto di quello che si annuncia. Di cosa si parla e come se ne parla?

I genitori non arrivano solo con un’idea precostituita di Chiesa, ma anche di fede. Per loro la fede è fondamentalmente una questione di dottrine, di riti e di comportamenti morali riassunti dai comandamenti. Si trovano invece di fronte a una proposta che si configura come esplorazione dell’esperienza che stanno vivendo (come adulti e come genitori), fatta con il linguaggio della vita ordinaria. Qualunque cosa si dice a loro è un aiuto a leggere in profondità quello che stanno vivendo. Questa proposta necessariamente dà un grande spazio ai racconti di vita delle persone stesse. Ci si mette in ascolto delle proprie storie. Sono dunque percorsi autobiografici e narrativi. Questo porta progressivamente a intuire prima e poi ad esplicitare che la propria vita è abitata dalla presenza di Qualcuno che la custodisce, la promuove, la protegge, la rimette in cammino. È una storia della salvezza in corso, anche se non ne eravamo consapevoli. Le persone possono allora arrivare a dire: «Dio era qui e io non lo sapevo».

Si tratta di una seconda sorpresa e un secondo spiazzamento, che riguarda la figura di fede. Potremmo dire che avviene un processo di secolarizzazione del messaggio cristiano, nel senso che esso appare non come un settore a parte (quello del sacro), ma come “grazia di umanità”, come offerta di vita buona rispetto ai desideri e ai problemi che ciascuno vive. La fede si presenta così come possibilità di vivere bene, di non sciupare la propria vita, di godere di quello che essa dona, di aprirsi alla responsabilità per non sprecarla e di sapere che “abbiamo sempre una seconda possibilità”, cioè siamo sempre rimessi in cammino e mai identificati con i nostri fallimenti.

c) La sorpresa della testimonianza in uno spazio di libertà

Un terzo aspetto riguarda direttamente lo stile degli accompagnatori. Si manifesta quando questi si implicano e testimoniano la loro fede e, proprio per questo, mettono in atto una proposta che non pretende risposta. La sollecitano senza imporla.  La testimonianza si presenta come attestazione. Il testimone pronuncia due parole: «Eccolo»; «Eccomi». Eccolo, come mi è venuto incontro; eccomi, come lui mi ha trasformato, come provo ad accoglierlo, come vivo la relazione con lui, con le mie gioie e le mie difficoltà.

Qui avviene una terza sorpresa, un terzo spiazzamento che ha effetto missionario. I genitori vengono con l’idea più o meno marcata dell’obbligo: per avere il sacramento occorre fare un corso. Si trovano invece di fronte a persone che non chiedono nulla, ma presentano (“presentare” nel senso di rendere presente, lasciando liberi). Si trovano di fronte a persone che danno ragione della speranza che è in loro, senza chiedere nulla, solo per la gioia che hanno e desiderano condividere.

Avviene in questo modo una terza riformulazione (dopo quella di Chiesa e di fede), che riguarda l’immagine di Dio. Vengono agli incontri segnati da una rappresentazione di Dio rispetto al quale bisogna fare qualcosa, occorre fargli dei sacrifici e delle offerte, perché sia buono con noi. Si trovano di fronte a un Dio, mediato dall’atteggiamento di coloro che lo rappresentano, che offre senza chiedere una controparte, che ama perché è la sua identità, che si rallegra del bene che le persone vivono e si rattrista delle loro sofferenze, che offre la sua grazia sempre, che non condiziona il suo amore alle prestazioni morali delle persone, ma vuole che tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.

Conclusione

Ormai ci stiamo rendendo conto che il modello attuale di IC è scarsamente riformabile. Anche dove viene rinnovato, resta un modello sfasato culturalmente. È nato e ha dato prova di efficacia pastorale per una cultura che non esiste più. È un modello messo a punto per un cristianesimo sociologico e si trova a fare i conti con una cultura plurale, differenziata anche all’interno della Chiesa stessa.  Coloro che lo stanno riformando stanno facendo l’unica cosa possibile, sensata e giusta che si possa fare, vale a dire provano a farlo gradualmente transitare verso un nuovo modello che non conosciamo ancora. Quello che chiamiamo “ispirazione catecumenale” è un modo di intuire e camminare concretamente verso un modello che presenterà sempre più le caratteristiche di una fede di scelta (e quindi di minoranza) e sempre meno una fede di tradizione sociale.

Uno degli elementi di transizione è di coinvolgere le famiglie che lo accettano, non solo i loro bambini, e quindi di tornare a percorsi di fede che riguardino gli adulti. In questa linea non è pensabile una catechesi degli adulti, tantomeno per gli adulti, ma con loro. Il che suppone adulti laici che con i loro presbiteri accompagnano altri adulti e riapprendono la fede insieme a loro. Questo si chiama testimonianza.

Infine, nell’accompagnare i genitori l’obiettivo ultimo non sono i genitori, né il loro figli, ma va fatto per noi stessi. Paradossalmente dobbiamo fare su di noi quello che chiediamo a loro. Noi li spiazziamo (e non poco, come abbiamo visto) quando vengono per i loro figli e noi diciamo che il cammino è prima di tutto per loro. Altrettanto dobbiamo accettare noi. Mentre proponiamo loro un cammino per loro, dobbiamo subito dirci che è per noi, non primariamente per loro. È per noi, comunità ecclesiale, perché reimpariamo a dire e vivere la nostra fede in questo tempo, con queste persone, perché reimpariamo l’alfabeto della fede in questo contesto culturale, perché ci alleniamo a riformulare la fede e a consegnarla alle nuove generazioni nel loro dialetto, nel loro modo di vivere, nella loro ricerca di felicità. Per farlo, dobbiamo farlo insieme ad adulti come noi, meglio se non troppo vicini, perché solo così può avvenire che la comunità cristiana mentre evangelizza viene evangelizzata da coloro insieme ai quali rilegge il vangelo. Questo è tutto quello che possiamo fare: poco e tantissimo allo stesso tempo.


[1] «La Bibbia è popolata da famiglie, da generazioni, da storie di amore e di crisi familiari, fina dalla prima pagina, dove entra in scena la famiglia di Adamo ed Eva, con il suo carico di violenza ma anche con la forza della vita che continua…» (AL 8).

[2] «Altre volte abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario» (AL 36).

[3] Così si esprime un questionario: «L’anticipazione del sacramento della Confermazione in V elementare rischia di far terminare la catechesi anticipatamente, per cui i ragazzi della scuola media disertano il catechismo e si allontanano dalla vita liturgica e catechetica della parrocchia. La strutturazione del catechismo nell’arco di 8 anni con al suo interno le 3 tappe dei 3 sacramenti (Penitenza, Comunione in terza elementare e Confermazione in terza media) aveva una certa logica e una propria funzionalità, agganciata ai rispettivi 8 anni della scuola elementare-media. Il cambiamento dettato da motivi più teologici che pastorali ha portato un certo disagio e disorientamento che produce i suoi effetti negativi».

[4] Si veda a questo proposito l’interessante indagine “Sentieri interrotti” curata dall’Osservatorio socioreligioso del Triveneto e coordinata dal Prof. Alessandro Castegnaro: Castegnaro Alessandro, La questione dell’iniziazione nell’età evolutiva all’interno di un contesto pluralistico, relazione tenuta alla XXVI settimana di studio della Associazione Professori e Cultori di Liturgia, Seiano di Vico Equense (Na), 31/08 – 5/09/1997.

[5] CEI, Il volto missionario delle parrocchie, n. 7.

[6] Non solo con i genitori di IC, ma anche con i fidanzati, i genitori al momento del battesimo, nel periodo 0-6 anni, al momento della cresima quando viene chiesta prima del matrimonio, ecc.

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Un commento

  1. Fabrizio Rinaldi 4 ottobre 2016

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