Quale “forma” deve assumere il prete?

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Per gentile concessione, riprendiamo dal n. 2/2018 di Presbyteri, il mensile edito dalla Congregazione di Gesù Sacerdote (Padri Venturini), questo articolo apparso con il titolo “La continua ricerca di una “forma”, a firma padre Fabrizio Valletti, gesuita. Autore per le EDB del libro Un gesuita a Scampia. Come può rinascere una periferia degradata, padre Fabrizio, dopo aver assolto varie mansioni, è stato inviato nella periferia della città partenopea. Nello scritto che pubblichiamo egli espone la sua idea di “formazione permanente” dei presbiteri.

Di fronte al ritornello «è colpa dei preti se si abbandona la Chiesa» spesso ci si arrende. Né pare servire che si rammentino tutte quelle esperienze che alcuni, veri pastori, tirano avanti anche fra immense difficoltà e che dimostrano quanto il Vangelo sia ancora vivo e praticato.

Conviene passare oltre e di nuovo mettersi in “cammino”, cercando di fare un po’ di ordine nelle idee. È quanto si propone la rivista con questo numero dedicato alla “formazione permanente” dei presbiteri.

Se abbiamo trovato qualche buon suggerimento nella lettura di quanto raccolto nel numero precedente a proposito della formazione nei seminari, vale la pena non arrendersi e, con coraggio, accompagnare il prete nella sua azione pastorale, sempre da aggiornare e incoraggiare. Da parte nostra vivere un’attenzione “permanente”.

Si tratta proprio di mettersi in “azione” sul piano culturale e spirituale. È interessante che molte espressioni consuete nel linguaggio che interessano la vita spirituale e pastorale siano parole composte: “voc-azione”, “medit-azione”, “contempl-azione”, “ador-azione”, “evangelizz-azione”…

Qualcosa di importante potranno pur dire. Per esempio, se ci si sente chiamati a fare una scelta di servizio totale come la “vocazione” comporta, la “valut-azione” della sua verità e della sua “realizz-azione” piena potrà essere riconosciuta nell’azione stessa che si sviluppa nella vita.

Mi viene spesso da pensare che anche l’“invoc-azione” che caratterizza la nostra preghiera ha il suo migliore compimento se siamo capaci di realizzare quello che siamo chiamati a compiere a favore degli altri, confortati nelle nostre capacità, pure importanti, ma sostenute dalla presenza dello Spirito.

L’“invoc-azione” nella preghiera del prete si può infatti tradurre nella risposta che si deve dare a chi ti chiama, ti cerca, oppure entra nel tuo pensiero proprio quando fai silenzio per pregare. Mi piace spesso confortare le suore che si confessano lamentando la distrazione nella preghiera, ricordando loro: «sorella… è segno che qualcuno ti cerca…».

Non c’è vera umanità se non si dà corpo a quello che pensiamo utile e necessario. È come far risuonare il mistero dell’“Incarn-azione” in noi stessi che diveniamo la più bella espressione della Parola che si è fatta carne. Paolo non avrebbe espresso la meravigliosa intuizione che ci fa essere partecipi di «ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo…» (Ef 1,3-4). Ed è nella carità che si dà compimento all’essere una sola cosa con Cristo.

Realizzare, dar compimento, concretezza e prassi… sono tutte espressioni di un unico disegno che vede nella persona la stretta unione fra pensiero e azione, fra spirito e corpo, fra sentimento e amore.

A che proposito queste riflessioni riguardo alla vita del prete? Ci sembra che rispondano alla necessità che la sua “form-azione permanente” nasca dalle esperienze più vive di incontro con chi desidera servire con amore e competenza. Può essere l’onesta presa di coscienza che in ogni esperienza sia necessaria una permanente “ricerca del meglio”. Ancora una volta si può usare il neologismo “ricerc-azione” riguardo a una missione che è tanto legata al tempo che cambia, ai luoghi che si vivono, alle persone che si intende incontrare.

Il «che cosa cercate» (Gv 1,38) che Gesù pronuncia per dare responsabilità ai discepoli del Battista che lo incontrano, potrebbe risuonare nelle coscienze di ciascun prete che affronta una scelta, che si trova a dover dare sempre nuove risposte nelle varie circostanze della vita.

Seguire Gesù vorrebbe dire saper individuare sempre la “Buona notizia”, saper trovare la novità liberante, la gioia piena di una nuova comunione e di un superamento di eventuali conflitti. È lo stesso spirito di ricerca che muove lo scienziato, che illumina la fantasia dell’artista, che stimola il migliore servizio di carità e la volontà di sanare le peggiori contraddizioni. Risultato di una ricerca che sia attinente al vissuto, alla domanda di senso, alla fecondità dello spirito; è sempre qualcosa di nuovo, espressione anche avvincente di una passione che prende forma.

È bello pensare alle più avvincenti forme espressive che accompagnano la nostra vita – dai gesti più semplici come una stretta di mano, un abbraccio e tenersi per mano, alla capacità di tessere una relazione, con l’ascolto, la comprensione e la solidarietà.

Per un prete è scontato che si debba impegnare in continue attività, frutto di un discernimento che risponda a reali situazioni di vita. Sta proprio nella “valut-azione” della loro efficacia che si può misurare il loro “valore”. Come sceglierle senza farsi prendere da un ritmo incalzante che non lascia tempo allo studio, alla preghiera, al confronto con i collaboratori o i confratelli? Come rispondere al senso di una missione che supera il semplice agire per interesse e per utilità personale? Il servizio a cui è chiamato il prete ha la caratteristica di riassumere una serie di valori che vanno dalle capacità umane alla trasparenza di quel dono di Grazia che gli viene affidato dallo Spirito attraverso la Chiesa.

Il suo servizio prende “forma” a seconda delle situazioni che incontra e nel rispondere, applicando quelle risorse che la tradizione apostolica prima e l’evoluzione dell’esperienza ecclesiale nella sua storia, mettono a sua disposizione.

Parliamo volutamente di “forma” e non di ruolo, di espressione sempre in divenire e non di pratiche ecclesiastiche o consuetudini radicate in particolari culture. Parliamo di forma e non di formalità. È facile accostare infatti al ruolo del prete una serie di “formalità” che sono volute da lui stesso o facilmente richieste o attribuitegli da chi lo frequenta, soprattutto dai più devoti e devote.

Il suo modo di vestire, di parlare, di intrattenersi… secondo la mentalità di tante persone deve rispettare una serie di norme che lo distinguano dai laici comuni. In tante circostanze si è anche attribuito al prete un’immagine che può avere poco a che fare con il suo servizio pastorale, ma che le condizioni sociali e culturali elaborano ed esigono nella ricerca di una protezione o di una tutela che non ha nulla di spirituale e di evangelico. Viene a mente quello che, soprattutto in piccoli centri, si verifica, accomunando il prete al medico, al farmacista, al maestro…, a persone che si distinguono per livello culturale e per posizione sociale.

Spiacevole è l’esperienza che accomuna il prete all’uomo di potere che, per le sue conoscenze e relazioni, è in grado di “raccomandare”, di favorire una posizione, un lavoro, un privilegio.

Formazione permanente può allora significare la costante ricerca della giusta forma da dare al proprio servizio e a quella presenza in mezzo alla gente che sia segno soprattutto di gratuità e di libertà. Un’attenzione continua a non cadere nel tranello della seduzione che tante forme di vita possono indurre per essere vicini, per non essere diversi dal comune stile di vita di chi frequentiamo. Soprattutto l’ambiente borghese è come una piovra che può condizionare con le sue apparenze e con quelle accomodanti abitudini al lusso, nella cornice del superfluo e dell’ambizione.

Quanto pettegolezzo e falso perbenismo si introiettano frequentando i salotti e le tavole bene imbandite, pure nella retta intenzione di portare la Parola o dei buoni consigli!

Una permanente attenzione ad essere sinceri ed efficaci portatori di bene va pure vissuta nell’incontrare e nel frequentare i poveri. Vanno privilegiati nel dedicare tempo ed energie, ma quanta sapienza è anche necessaria! Sono veri dispensatori di bene loro stessi quando rivelano tenacia nel sopportare la sofferenza di tante privazioni. Insegnano senza saperlo quando accolgono offrendo anche quel poco di cui dispongono. Diventano loro stessi testimoni di una Buona notizia nel rivelare una fede e una speranza che non è legata all’affermazione personale, ma spesso alla preoccupazione che i figlioli possano crescere sani, che possano studiare, che i vecchi siano assistiti e che ai malati non manchino le cure necessarie. Si coglie l’essenziale! Ma quanta attenzione va esercitata nell’impedire che i loro bisogni possano divenire pretesa, spesso anche aggressiva. È allora che scopriamo quanto in noi stessi sia sincero il desiderio di aiutare e non di creare dipendenza. L’opera di misericordia che il Signore ci invita a sperimentare non dovrà essere mai un motivo di auto compiacimento, di illusione che possiamo conquistare “punti per il paradiso”!

È un’autentica formazione permanente collegare l’azione di carità ad una effettiva promozione di giustizia, coinvolgendo laici e istituzioni che vanno adeguatamente preparate per superare la logica dell’assistenza, per elaborare progetti di sviluppo e di liberazione. Sono tante le possibilità che la società può offrire quando, entrando in contatto con le forze presenti nel territorio, possiamo scegliere e coinvolgere le più serie e strutturate. Le migliori esperienze sono proprio quelle che ci pongono in disinteressato ed efficace rapporto con chi ha più competenza e capacità organizzative.

Ci si può spesso lamentare però che siano assenti le istituzioni pubbliche o che sia inadeguato il loro intervento. Un intervento di supplenza può avere l’urgenza di sanare situazioni di grave disagio e povertà. La nostra presa di coscienza nasce da una sincera commozione quando ci incontriamo con persone reali nel loro dolore o nella gioiosa esperienza di affetti veri e sinceri.

Ci si interroga se questo sia il terreno di un giusto annuncio evangelico e di un servizio che colga il mistero dello Spirito di Gesù che, per fede, sappiamo essere nel cuore di ciascuno. Tornando alla domanda di quale “forma” sia migliore da vivere ed esprimere nel servizio di amore che è l’essere prete, sottovoce potremmo affermare che unire la fede al desiderio di far crescere le persone nella loro cultura e nella loro dignità sia la più giusta risultante di una formazione che non si ferma mai. Non è allora tanto importante preoccuparsi della propria formazione permanente, quanto di contribuire a dare continua e sempre nuova forma all’umanità che incontriamo, che spesso è tanto lontana da quella forma che il Creatore ha pensato, ancora prima della stessa creazione per l’umanità.

La vera forma diviene “segno”, diviene visibile possibilità di condividere la speranza che il male sia eliminato. Ma il discorso allora si amplia, perché investe quella necessità che i segni che la Chiesa offre, come i sacramenti, non siano staccati dalla vita delle persone. Non siano così staccati dal vissuto delle persone e solo simbolicamente rappresentativi, tanto che non riescano a comunicare la loro reale ragione di essere. Il discorso continua e richiede che la formazione-attenzione sia permanente!

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