Servire il popolo di Dio

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Due anni di lavoro seminariale, un gruppo in cui si sono intrecciate competenze diverse a livello teologico, ministeriale, di genere e generazionale, la precisa intenzione di raccogliere le suggestioni maggiori di papa Francesco per una riconfigurazione del ministero ordinato nella Chiesa, l’abbozzo di alcuni nuovi tratti per una teologia del ministero del prete.

Reso possibile dal Dipartimento di teologia e dalla Scuola di specializzazione in teologia e ministero di Boston College, i lavori biennali del seminario si sono mossi intorno al tema «prete e ministero per la Chiesa contemporanea». Su questa base è stato redatto collegialmente il documento finale Servire il popolo di Dio. Rinnovare il dibattito sul prete e il ministero (Origins 31/2018, 484-492).

Il testo è permeato dalla consapevolezza «che il ministero ordinato della Chiesa ha una storia precisamente perché si è trasformato nel corso del tempo. Questo fatto suggerisce che sono da attendersi ulteriori cambiamenti nel futuro. In particolare, è chiaro che la presenza e il dono di un grande numero di donne nel ministero oggi ha condotto la pratica del ministero stesso in nuovi territori (…)» (491).

Il modello e le trasformazioni

Ma questa consapevolezza da sé non basta a istruire una rinnovata visione della teologia del ministero ordinato nella Chiesa; non lo può fare perché le mutazioni del ministero avvengono nel cuore nel suo esercizio e solo in seguito possono essere registrate dalla teologia in forma riflessa. Questo è il doppio scacco sotto cui stanno sia il pregevole testo uscito dai lavori seminariali di Boston College, sia il vissuto effettivo del ministero ordinato nella quotidianità di vita delle comunità cristiane odierne.

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Ossia, si parte in ogni caso da un modello che precede l’esercizio – sia che si tratti di riformarne la figura, sia che si tratti di ricondurla nostalgicamente a tratti antichi apparentemente più sicuri.

Se previamente all’esercizio nella vita di fede delle comunità cristiane si è già deciso cosa è, e come deve essere, il ministero ordinato, allora sarà estremamente difficile cogliere le trasformazioni che lo stanno traghettando verso il futuro della Chiesa nel mondo. L’immaginario del modello proietterà inevitabilmente la sua ombra lunga sugli scarti maggiori che contraddistinguono un ministero in trasformazione, finendo per renderli impercepibili.

Dentro un vissuto di Chiesa

Anche il testo che abbiamo ora sotto mano fa fatica a uscire da questa logica, pur essendo pienamente consapevole del suo radicamento in un ben preciso contesto del vissuto della fede cattolica: «Questo contributo si radica nella Chiesa cattolica così come essa è negli Stati Uniti. Un radicamento i cui tratti maggiori richiedono un corrispondente approccio particolare al ministero e alla formazione dei preti diocesani» (485).

È alla comunità di fede nel suo complesso che pertiene una responsabilità storica e teologica «partecipando insieme nella vita e nei ministeri della Chiesa» (485). Si può già intuire da questo breve passaggio la struttura fondamentalmente relazionale che caratterizza l’intero documento: è dentro il plesso di relazioni che fanno la vita della Chiesa che sta e trova il suo senso anche il ministero ordinato del prete, così come lo trovano (allo stesso modo e con altra destinazione) tutti i ministeri laicali della fede. Ministeri che non sono un esercizio di supplenza temporanea di quello ordinato momentaneamente in carenza di numeri, e quindi costretto a ritirarsi da ambiti e pratiche pastorali una volta a lui abituali. Quanto, piuttosto, anche essi sono «un dono dello Spirito Santo e parte integrale della missione della Chiesa oggi» (486).

La comunità ecclesiale nel suo complesso è una comunità discepolare, in cui si intersecano diverse destinazioni della fede a favore della missione della Chiesa che è di tutti. Questo è il quadro all’interno del quale i redattori del documento desiderano inserire la specifica destinazione di quella forma di ministero ecclesiale che chiamiamo ordinato: «La promozione e la cura dei discepoli in vista dell’intero della Chiesa potrebbe essere un sacramento “per la vita del mondo” (Gv 6,51), ciò offre anche il contesto per la comprensione del ruolo del ministro nella comunità ecclesiale» (487).

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Il nodo della formazione

A cosa è destinato il prete nell’intreccio delle relazioni discepolari che fanno la comunità cristiana? Un’interessante interpretazione del «carattere» legato al sacramento dell’ordine orienta verso una «particolare relazione tra Cristo e il prete all’interno della comunità ecclesiale». Specificità che però non si ribalta in privilegio intimo, ma ha senso unicamente in vista della «missione della Chiesa. (…) Nella quale quest’ampliata identità dei preti, che li riposiziona all’interno della comunità di fede, si dà unicamente in ragione della missione della comunità» (488).

Vengono conseguentemente individuati cinque ambiti che delineano le abilità della fede che accede alla forma del ministero ordinato: predicazione; presidenza liturgica; collaborazione nella guida della comunità; rappresentanza pubblica della Chiesa; pratica quotidiana della carità pastorale. La forte enfasi sulla predicazione può essere riconducibile al contesto specifico statunitense, dove la messa in scena della parola fa parte della mediazione stessa del messaggio che si vuole veicolare.

Qualche perplessità mi lascia l’assorbimento di tutto l’agire liturgico e della preghiera della comunità nella presidenza/guida del ministero ordinato; perché questo tratto corrisponde a quella completa eucaristizzazione della liturgia che ha caratterizzato il divenire storico del cattolicesimo, facendo perdere di vista che la liturgia della Chiesa non si risolve né esaurisce nella celebrazione eucaristica.

È probabile che la piegatura dell’intero liturgico a una sorta di devozione presbiterale rappresenti un limite per una sana comprensione del ministero ordinato nella Chiesa in vista della sua missione, alla quale sono chiamati tutti i discepoli e le discepole.

bc3Se questo è il profilo del ministero ordinato all’interno di un determinato contesto di Chiesa, bisogna mettere mano a una formazione che accompagni costruttivamente in questa direzione.

Preoccupazione viene espressa verso il modello seminariale in quanto esso produce di fatto «un isolamento dalle condizioni di vita quotidiane» delle persone (490). Che il seminario assorba in sé «tutti gli aspetti della formazione, finendo col separare i seminaristi diocesani dai candidati al ministero laici e religiosi» (491), è una pratica che dovrebbe essere riconsiderata con urgenza.

Pur permanendo in una certa ambivalenza, si cerca di superare una visione della vocazione come auto-candidatura al ministero, la cui verifica viene del tutto sottratta alla comunità in cui essa ha preso corpo ed è giunta a consapevolezza. Il riscatto del ministero ordinato dalla privatizzazione della vocazione, nella riconsegna a un tessuto comunitario di relazioni della fede, rappresenta uno snodo chiave in vista di un esercizio del ministero in cui «la personalità umana [del ministro] diventi un ponte e non un ostacolo per gli altri nel loro incontro con Gesù» (490).

L’umano fragile

Conseguentemente, forte enfasi viene posta su una verifica di carattere psicologico e sullo sviluppo psico-sessuale dei candidati al ministero ordinato. Entrambi aspetti cruciali, da trattare però in maniera debita – ossia, non immaginandosi che possano essere la soluzione di tutti i problemi, o siano in grado di garantire la formazione del ministro ordinato perfetto senza macchia alcuna.

La psicologia consente un accompagnamento umanistico dell’itinerario di vita del ministro ordinato, ma non è una sfera di cristallo che permette di prevedere tutto magicamente. E lo sviluppo psico-sessuale è un cammino che dura tutta una vita, prendendo ogni volta di nuovo pieghe inattese col passare delle stagioni della vita. Entrambi possono supportare e far comprendere, a singoli e comunità, non solo la fragilità umana a cui nessuno sfugge, ma anche quelle fragilità che sono specifiche del nostro tempo e accompagnano tutto il vissuto di fede.

Per apprendere a riconoscerle, nominarle e accettarle come parte di ciò che siamo; non necessariamente un impedimento alla fede, anzi talvolta sorprendentemente esse possono significare una umanizzazione del ministero ordinato stesso – che proprio nella sua fragilità può farsi prossimo alla realtà di un Dio che si è identificato per sempre con la fragile provvisorietà della carne che tutti siamo.

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