Dire Dio in anuak /3

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Tra gli anuak sento spesso raccontare, con spontaneità, storie che coinvolgono, con la stessa naturalezza, i diavoli nelle vicende della vita quotidiana. Per me si apre pertanto, quasi ogni giorno, la questione del “diavolo” in terra africana, mentre in Italia quasi non ci pensavo.

La concezione africana del demonio non è evidentemente assimilabile a quella occidentale. Mi pare di aver capito che la visione africana non sia “dualista”, ossia per l’anuak non esiste un essere personale benigno, – “Dio, a cui si contapponga un essere personale maligno, il “Satan”, ovvero il “Diavolo”: bene e male, “Dio” e il “Diavolo”, sono qui due facce di una stessa medaglia.

Nell’esperienza quotidiana l’africano sa di dover affrontare molte difficoltà e di dover patire molto male. Nello stesso tempo è in grado di riconosce e apprezzare il bene che gli è dato di vivere. Una cosa sta inseparabilmente assieme all’altra.

Non esiste il “Diavolo” al singolare, bensì gli “spiriti maligni” al plurale, numerosissimi: questi spiriti provocano problemi, quali le malattie, le incomprensioni, le lotte, gelosie, insomma le negatività dell’esistenza. Ma tutto è organicamente dentro a questo mondo. Non c’è lotta di “spiriti” che vada oltre questo orizzonte di realtà.

Lo stesso termine “Satana” – oppure “Diavolo” – è entrato nel linguaggio africano con la colonizzazione, non è originario. Così sono stati tradotti termini che in realtà non hanno lo stesso significato, come quasi sempre accade. Questo è stato il modo – per noi occidentali – di rivestire le (supposte) arretratezze e le superstizioni delle native credenze.

Un proverbio africano dice: “fino a quando il leone non imparerà ad esprimere la propria narrazione, la storia della caccia esalterà, sempre il cacciatore”. Abbiamo spesso giudicato infatti le religioni tradizionali con parametri occidentali, senza realmente capire. Specularmente gli africani hanno accusato l’occidente di aver colonizzato e giudicato in modo del tutto pregiudiziale. Quante volte mi sono sentito dire: “tu non capisci la nostra cultura”, “tu stai giudicando”, “tu non stai ascoltando quello che ti sto dicendo”.

Il cristianesimo ha effettivamente apportato un giudizio negativo sulla percezione tradizionale africana degli spiriti del male. Ciò è divenuto tanto vero che – pur permanendo in ogni villaggio il guaritore tradizionale dai demoni che affliggono il corpo e l’anima – questi viene definito “satanico”, perché così è stato dipinto dagli occidentali. Eppure, gli anuak, – anche se cristiani frequentanti le chiese – facilmente ricorrono ancora a tale figura, specie in caso di fallimento della medicina occidentale (o del prete in veste di esorcista).

Gli anuak ovviamente temono il diavolo o i diavoli, vedono in ogni esperienza negativa una presenza demonica. Persino il furto di interesse delle sedie della mia parrocchia è stato interpretato come un intervento demoniaco dall’esterno all’interno dell’animo dei ladri e dei loro collaboratori, al punto da ritenere irrilevanti le responsabilità personali. Anch’io, ovviamente, vedo molto facile dare la colpa al diavolo per un’azione personale ben consapevole! Eppure, sono convinto che quel che accade in questi casi nella mente degli anuak sia del tutto autentico.

Faccio un altro esempio. Quando una persona entra in chiesa, non va mai a sedersi da sola in un banco, ma sempre accanto ad altre, anche a costo di far stringere tutti nella panca. Questo perché – nella mente degli anuak – chi siede lontano dagli altri ha qualcosa che nel suo intimo non va: uno spirito del male è dentro di lui. Di conseguenza tale persona viene temuta, isolata, lasciata sola.

Raramente ho visto altre persone avvicinarsi per chiedere se ci fosse un problema di salute, un dispiacere o che altro.  Come mi sarei aspettato. Spetta invece alla persona interessata prendere l’iniziativa, ovvero riconoscere il male prodotto dagli spiriti dentro di sé e quindi aprirsi alla comunità, per andare oltre. Penso: anche gli “indemoniati” di cui parlano i vangeli (quasi) sempre prendono da loro l’iniziativa di raggiungere Gesù.

Il dialogo – seduti a cerchio sotto un albero, simbolo della vita e della comunicazione col cielo – associato all’ascolto dei consigli dei saggi anziani, è la pratica che l’anuak ha quindi a disposizione per individuare la causa del suo malessere e per trovare la via della riconciliazione. Ovviamente, in questi casi, esistono anche rituali tradizionali di esorcismo, a cui tutta la famiglia allargata è chiamata a sottoporsi.

Il demoniaco è naturalmente presente anche nei fenomeni cosmici: il tuono e il fulmine sono fortemente temuti perché sono interpretati quale lotta tra il bene e il male. I mulinelli di aria possono significare il passaggio degli spiriti maligni: sono da temere perché possono portare via con sé. La morte violenta è interpretata quale effetto di una maledizione, come pure la perdita di un bimbo durante la gravidanza o la nascita con disabilità fisiche e mentali.

I demoni possono essere invocati contro chi provoca il male. Possono essere esorcizzati e resi “domestici”, ovvero trasformati da spiriti avversi a spiriti protettori. Non esiste pertanto un solo principio del bene nettamente distinto dal male. Il contrasto e la commistione sussistono: gli spiriti avversi convivono e possono trasformarsi gli uni negli altri.

Penso, nonostante tutte le differenze, che una simile percezione possa conciliarsi col cristianesimo. Il male non è da Dio e non può essere posto sullo stesso piano di Dio. Il Satan rimane nell’ordine creaturale. Non si crede al “Diavolo”, ma si crede solo in Dio. Il male c’è – chiaramente – ma il Dio dell’amore è più forte del male. Da parte umana il male va affrontato senza fatalismi. Possiamo lottare col male – da cristiani – perché il Signore Dio ci dà la grazia. Non abbiamo il problema di dare una spiegazione razionale al male, ma solo la possibilità di scoprire il senso molto positivo della nostra vita nell’amore.

Così, in fondo, fa anche l’africano: il male lo incontra ogni giorno in varie forme e manifestazioni; lui lo accetta, talvolta con (eccessiva) rassegnazione, ma nello stesso tempo sa di avere la facoltà di allontanarlo e di sconfiggerlo, anche se sembra soccombere. Ricordo il libro di Giobbe e leggo: “Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?” (2,10) e ancora “nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”. “In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto” (1,21-22). Mi pare che la concezione africana non si discosti di molto dal “pensiero di Giobbe”. Certamente questa è una concezione incompleta, perché solo in Cristo si può dare un senso (non razionale) al male.

In fondo, anche noi – cristiani occidentali – attendiamo di “sapere” semplicemente attendendo il massimo bene, amando: “fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato… lo vedremo così come egli è” (1 Giovanni 3,2).

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