Africa: corsa a pane ed energia

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La guerra che si sta consumando in Ucraina ha gravi conseguenze in tutto il Continente africano. E se la penuria di cibo sta diventando un problema sociale, la crisi energetica potrebbe fungere da volano per quei Paesi che sono ricchi di gas. Ma a quale prezzo?

I grandi e affollati mercati africani sono i fedeli sismografi che registrano le scosse percepite nel Continente dell’invasione russa dell’Ucraina. In Kenya un pacco di farina di frumento costava meno di un euro, con l’inizio del conflitto ha toccato un euro e 50 centesimi.

I commercianti hanno lamentato una vertiginosa scarsità di clienti in coincidenza dell’inizio del Ramadan, quando tutti fanno scorte per la cena. Già prima della guerra sui social era in corso una campagna per chiedere al governo di fermare i rincari poiché l’inflazione sta erodendo da tempo il potere d’acquisto.

Due anni fa a Khartoum un panino costava due sterline sudanesi, oggi è schizzato a 50 sterline. L’aumento dei prezzi di grano e cereali minaccia di trascinare l’Africa subsahariana (che nel 2020 ha importato prodotti agricoli per 4 miliardi di dollari dalla Russia e per 3 miliardi dall’Ucraina) in una gravissima crisi alimentare con un perverso effetto domino.

Il Paese più a rischio è proprio il Sudan, dove si prevede che per la fine dell’anno quasi metà dei 45 milioni di abitanti patiranno la fame. Già oggi un sudanese su 3 necessita di aiuti. Il colpo di Stato militare del 25 ottobre 2021 ha riportato indietro la nazione, reduce da 30 anni di dittatura islamista. La giunta al potere è molto vicina a Mosca (da tempo presente sul territorio con la società Wagner che schiera mercenari) ma sicuramente Russia e Nazioni Unite saranno costrette a ridurre l’invio di aiuti alimentari. Una crisi – che secondo gli analisti – farà crescere abbandono scolastico, lavoro minorile e matrimoni precoci.

Eppure la fame di gas (conseguenza del conflitto russo-ucraino) sta spostando l’attenzione dell’Europa sull’Africa che ne possiede ricchissimi giacimenti. Paradossalmente la crisi energetica mondiale potrebbe far da volano allo sviluppo trasformandosi in una opportunità per l’Africa.

In Mozambico è infatti concentrato il 52% delle riserve, seguito da Senegal e Mauritania con il 20% e Tanzania con il 12%. Ma anche Gabon, Nigeria e Sudafrica possono contare su buone riserve.

Prima dell’invasione dell’Ucraina, gli esperti ipotizzavano il raddoppio della produzione di gas in Africa entro il 2030. A fronte della massiccia richiesta avanzata dal mondo ricco, ci sono però molti ostacoli.

Mancano innanzitutto le infrastrutture necessarie perché non ci sono stati investimenti stranieri. Le grandi potenze sono rimaste impantanate nel dibattito planetario sullo sviluppo delle energie rinnovabili che ha fatto venire meno l’attenzione verso l’esistente. La Nigeria (che è anche il più grande produttore di petrolio del Continente e l’ottavo al mondo) chiede da tempo finanziamenti per la costruzione di un gasdotto trans-sahariano per portare il prodotto fino all’Algeria e quindi in Europa.

Il Nigal, questo il nome del gasdotto, potrebbe diventare un’arteria cruciale per la distribuzione di materie prime energetiche. Dal 2009 si progetta la costruzione di pipelines ma a bloccarne la realizzazione ci sono dispute territoriali (come quella che oppone il Niger all’Algeria) e anche condizioni di sicurezza problematiche che non garantiscono quindi la garanzia dell’investimento.

Problemi di sicurezza ci sono anche in Mozambico, dove la provincia settentrionale di Cabo Delgado (ricca di riserve di gas che si trovano nello specchio di mare antistante) è squassata dalla violenza islamista che ha messo nel mirino proprio gli interessi delle grandi compagnie francesi, italiane e statunitensi che hanno ritardato l’investimento di 50 miliardi di dollari in progetti legati al gas. Analoghe incertezze si registrano anche in Nigeria dove da anni è in corso un conflitto a bassa intensità lungo l’inquinatissimo delta del fiume Niger che oppone le popolazioni locali alle compagnie impegnate nell’estrazione.

Ma non è tutto oro quello che riluce. Documentati rapporti delle organizzazioni ambientaliste affermano che i progetti estrattivi varati a Cabo Delgado (dove si concentrano 5mila miliardi di metri cubi di gas, nona riserva più grande del mondo) hanno il potenziale di rilasciare nell’aria 49 volte le emissioni annuali di gas serra del Mozambico e 7 volte quelle della Francia. Gli studiosi la bollano come una vera e propria bomba climatica.

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