Francesco e la Chiesa statunitense

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Il recente viaggio di Francesco in Cile e Perù è stato seguito con attenzione da parte del cattolicesimo statunitense, ed è anche nella prospettiva del rapporto con questa Chiesa locale che si devono inquadrare le osservazioni critiche mosse a seguito delle parole del papa sul caso del vescovo di Osorno, J. Barros. Non si tratta solo dell’intervento del card. O’Malley, subito dopo che esse erano state pronunciate; ma anche, e soprattutto, di un disagio proveniente da quella parte del cattolicesimo statunitense più sintonica con l’ideale di riforma pastorale della Chiesa perseguito da Francesco.

Sorvegliare il linguaggio

Visto dagli Stati Uniti, linguaggio e forme di trasparenza procedurale efficaci in materia di abusi sessuali in ambito ecclesiale rappresentano una sorta di cartina di tornasole dello stato di avanzamento dei processi di rinnovamento che Francesco aspira a introdurre nel corpo della Chiesa cattolica. Lo si può percepire chiaramente leggendo l’articolo del gesuita Th. Reese, pubblicato il 25 gennaio su “National Catholic Reporter” (https://www.ncronline.org/news/opinion/signs-times/pope-francis-blind-spot-sexual-abuse).

Reese può essere considerato come un indicatore non solo del sentire responsabile di una Chiesa locale profondamente segnata dalla violenza degli abusi sessuali al suo interno, ma anche della consapevolezza del rigore e dell’attenzione che devono contrassegnare la parola e i gesti della Chiesa cattolica quando affronta pubblicamente temi o aspetti legati a questo argomento.

Questo anche qualora vi possano essere riserve, rispetto a casi concreti, da parte della Chiesa e delle sue autorità. Bruciate tutte le riserve di credito, non vi è più spazio per la dialettica: il linguaggio e i vocaboli scelti devono poter essere udibili da parte delle vittime di abusi sessuali, a meno di questo si rischia di cadere di fatto nel cono d’ombra di un atteggiamento di non giustificabile ambivalenza.

A partire dalle vittime

La misura della parola (ecclesiale) è data dalla lacerazione del vissuto, umano e credente, della vittima; prodotto non solo dall’abuso in sé, ma anche dalle (non) procedure con cui la Chiesa cattolica ha per troppo tempo gestito questi fatti al suo interno.

Solo imparando a parlare, in ogni caso, a partire dall’esperienza della vittima la Chiesa cattolica potrà riacquistare una qualche credibilità linguistica in materia. Questo processo di apprendimento deve essere portato avanti da tutta la Chiesa e dal suo personale, anche nel caso in cui vi possano essere ragioni per una sua maggiore circospezione a motivo di specifiche situazioni locali.

Su questo punto è possibile che si giochi l’equilibrio futuro tra Francesco e quella parte di cattolicesimo americano che ancora guarda a lui come a una credibile istanza di riforma della Chiesa cattolica.

La Chiesa e il cattolicesimo statunitense

All’interno di un cattolicesimo dove una larga rappresentanza lo coglie come un corpo estraneo, una sorta di scheggia impazzita davanti alla quale non bisogna fare altro che aspettarne l’uscita di scena (come è quello statunitense), Francesco dovrebbe fare attenzione a non abbassare mai il livello di legittimazione civile ed ecclesiale di quella parte del mondo cattolico che cerca di realizzare, a livello locale, il progetto di un modo, altro e nuovo, di essere Chiesa nel contemporaneo.

Ed è all’interno di questo mondo a lui affine che l’esigenza di un passaggio strutturale si fa sempre più forte. La configurazione istituzionale dell’aspirazione evangelica che muove il ministero di Francesco è nelle sue mani: se inizierà a darle corpo non si troverà solo nell’attraversata.

Per non disaffezionare definitivamente questa parte del cattolicesimo statunitense a lui sintonica, Francesco deve trovare vie per dare forma istituita a un genuino rinnovamento e cambiamento di una Chiesa che vuole essere qualcosa di diverso da una mera corporazione clericale.

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