Il papa alla curia: sì alla crisi, non al conflitto

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discorso natale

Non una parola conclusiva in ordine alla riforma strutturale della curia come alcuni attendevano, ma una riflessione sul tema della «crisi»: il discorso del papa alla curia (21 dicembre) ha qui il suo centro tematico.

Se, nel 2013, primo anno di pontificato, l’occasione per gli auguri natalizi si concentrò sulla professionalità del servizio curiale, nel 2014 sulle malattie curiali, nel 2015 sulle virtù nel servizio al papa, nel 2016 sui criteri del lavoro, nel 2017 sul servizio curiale, nel 2018 sulla questione degli abusi e nel 2019 su alcuni aspetti della riforma, quest’anno l’elemento caratteristico è appunto la crisi.

«Questo Natale è il Natale della pandemia, della crisi sanitaria, della crisi economica sociale e persino ecclesiale, che ha colpito ciecamente il mondo intero. La crisi ha smesso di essere un luogo comune dei discorsi e dell’establishment intellettuale, per diventare una realtà condivisa da tutti».

E se l’appello alla fraternità e all’amicizia sociale di Fratelli tutti può essere considerato la risposta alla pandemia, la crisi ecclesiale trova riscontri e risposte anzitutto nella Scrittura. Essa è una tappa fondamentale del cammino e la trepidazione, l’angoscia e lo squilibrio che l’accompagnano fa parte di «quel setacciamento che pulisce il chicco di grano dopo la mietitura».

I segni del Regno

Abramo conosce questo momento  quando esce dalla sua terra, Mosè quando cerca di sottrarsi alla missione, Elia quando chiede di morire, il Battista quando fa i conti con la misericordia predicata da Gesù e Paolo di Tarso quando da persecutore diventa apostolo. Gesù stesso conosce la crisi fin dalle tentazioni nel deserto, ma poi soprattutto nel Getsemani e sulla croce.

«Questa riflessione sulla crisi ci mette in guardia dal giudicare frettolosamente la Chiesa in base alle crisi causate dagli scandali di ieri e di oggi». Ogni analisi realmente ecclesiale è sempre ispirata dalla speranza. Essa «dà alle nostre analisi ciò che tante volte i nostri sguardi miopi sono incapaci di percepire». I segni del Regno sono già in mezzo a noi e sono molti coloro che ne danno testimonianza con un lavoro umile, discreto, leale, onesto.

«Siamo spaventati dalla crisi non solo perché abbiamo dimenticato di valutarla come il Vangelo ci invita a farlo, ma perché abbiamo scordato che il Vangelo è il primo a metterci in crisi». In realtà il tempo della crisi è il tempo dello Spirito. Fragilità, contraddizioni e smarrimento non ci schiacceranno se «conserveremo costantemente un’intima fiducia che le cose stanno per assumere una nuova forma, scaturita esclusivamente dall’esperienza di una grazia nascosta nel buio».

È quindi necessario distinguere la crisi dal conflitto. Non si tratta di cercare i colpevoli e la loro sconfitta. «La Chiesa, letta con le categoria di conflitto – destra e sinistra, progressisti e tradizionalisti –, frammenta, polarizza, perverte, tradisce la sua vera natura: essa è un Corpo perennemente in crisi proprio perché è vivo, ma non deve mai diventare corpo in conflitto, con vincitori e vinti».

Ogni autentica novità ecclesiale nasce dalla sua tradizione e risponde alla logica evangelica del chicco che muore per essere fecondo. «Se un certo realismo ci mostra la nostra storia recente solo come la somma di tentativi non sempre riusciti, di scandali, di cadute, di peccati, di contraddizioni, di cortocircuiti nella testimonianza, non dobbiamo spaventarci, e neppure dobbiamo negare l’evidenza di tutto quello che in noi e nelle nostre comunità è intaccato dalla morte e ha bisogno di conversione».

La riforma non è un progetto, ma una vita

La riforma ecclesiale non è un rattoppo e neppure «la semplice stesura di una nuova Costituzione apostolica. La riforma della Chiesa è un’altra cosa». È capire che la grazia non è un nostro possesso, che «la Chiesa è sempre un vaso di creta, prezioso per ciò che contiene e non per ciò che a volte mostra di sé». È fallimentare pensare di metterla in atto attraverso strappi.

«Il comportamento giusto è invece quello dello “scriba, divenuto discepolo dei Regno dei cieli”, il quale “è simile a un padrone di casa che estrae del suo tesoro cose nuove e cose antiche”». La tradizione è una corrente viva che, nel cambiamento, resta ancorata alla sua fonte. Anche una dimensione essenziale come la sinodalità, se declinata nella formalità di maggioranze e opposizioni, implode su se stessa.

La crisi va anzitutto accettata e compresa come grazia e la sua forza propulsiva è legata alla preghiera. «Per questo sarebbe bello se smettessimo di vivere in conflitto e tornassimo invece a sentirci in cammino, aperti alla crisi. Il conflitto è spreco di energie e privo di finalità. La crisi è invece feconda». «E il primo male, a cui porta il conflitto e da cui dobbiamo cercare di stare lontani, è proprio il chiacchiericcio: stiamo attenti a questo! Non è una mania che io ho, parlare contro il chiacchiericcio; è la denuncia di un male che entra nella curia; qui a palazzo ci sono tante porte e finestre ed entra, e noi ci abituiamo a questo; il pettegolezzo, che ci chiude nella più triste, sgradevole e asfissiante autoreferenzialità, e trasforma ogni crisi in conflitto».

Il segno di una crisi salutare è la fedeltà alla priorità dell’annuncio e dell’evangelizzazione assieme all’accoglienza del povero. «I poveri sono il centro del Vangelo. E mi viene in mente quello che diceva quel santo vescovo brasiliano: “Quando mi occupo dei poveri, dicono di me che sono un santo; ma quando mi domando e domando ‘Perché tanta povertà?’, mi dicono comunista».

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Un commento

  1. Bregolin don Adriano 22 dicembre 2020

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