Sette anni di Francesco: un nuovo magistero (positivo e negativo)

di:

7 anni Francesco

Oggi, alle 20.11, saranno passati 7 anni da quella benedetta sera del 13 marzo, dall’evento inatteso che non potremo mai dimenticare. Un bilancio del pontificato di Francesco, per quello che abbiamo visto fino a qui, ci impegna in un giudizio che deve tentare di andare al cuore dell’evento.

Dopo aver letto il più bel libro che sia stato scritto finora – Ghislain Lafont, Piccolo saggio sul tempo di papa Francesco. Poliedro emergente e piramide rovesciata, EDB, 2017 – ho trovato, su Settimana News, la bella introduzione che Marcello Neri ha premesso a un volume miscellaneo, in uscita per l’occasione, che si intitola Profezia di Francesco. Traiettorie di un pontificato, sempre per le EDB. In questo testo introduttivo breve, ma denso, Neri dice una cosa di grande importanza, e dalla quale vorrei prendere l’avvio per qualche ulteriore considerazione.

Marcello Neri concentra la sua attenzione su ciò che di specifico possiamo identificare in questi 7 anni di pontificato. E lo esprime così:

«Il punto di rottura rispetto ai suoi due predecessori non sta tanto, o non solamente, nella visione della Chiesa ma, in primo luogo, nella consapevolezza storica della fine di alcuni processi secolari e dell’avviamento di altri che stanno portando a trasformazioni profonde della socialità umana e dell’antropologia moderna».

Questo implica, inevitabilmente, un profondo mutamento, che in Francesco trova il suo inizio, e che può essere descritto bene con queste parole:

7 anni Francesco«Rispetto a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI, Francesco non pensa e non agisce più come se la modernità esistesse ancora; e, quindi, inizia a delineare una visione della Chiesa e del cattolicesimo coerente con l’effettività storica all’interno della quale essi disegnano la loro fedeltà al vangelo del Regno e alla creazione desiderata da Dio. Fedeltà che non può più essere univoca e uniforme, la stessa e medesima ovunque la fede si trovi a vivere nel quotidiano degli uomini e delle donne di oggi».

Tutto ciò comporta, come conseguenza, una “riscrittura” della tradizione, una tradizione, che rinunci ad alcuni dei “luoghi comuni moderni”, che dopo Trento si erano imposti a tal punto, da identificarsi con l’essenza stessa della fede:

«La decisione di Francesco è esattamente questa: sostenere l’uscita della Chiesa cattolica dalla lotta contro i mulini a vento della modernità, riattivando, nel cuore istituzionale della Chiesa, la dinamica originaria della notizia evangelica di Dio. Per lungo tempo, la condizione storica ha permesso al cattolicesimo latino (quello che si è diffuso in tutto il mondo) di costruire un apparato concettuale, istituzionale, canonico e pastorale che poteva formalmente rinunciare al corpo a corpo quotidiano con le Scritture testimoniali».

Questo è il quadro di comprensione, che Neri delinea come portante nel pontificato, almeno nei suoi primi sette anni di esercizio. Mi sembra che si tratti di una analisi molto lucida e convincente, dalla quale farei derivare, quasi come corollari, due conseguenze assai rilevanti: da un lato, il superamento del “dispositivo di blocco”, che aveva caratterizzato la stagione di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI; dall’altro, l’affermarsi di un “nuovo equilibrio” tra magistero positivo e magistero negativo.

Per precisione, chiarisco che utilizzo le espressioni “magistero negativo” e “magistero positivo” in senso “tecnico”: ossia come quel magistero che consiste nel “condannare proposizioni erronee” o nel “definire proposizioni di fede”. Il primo è “negativo”, perché nega errori, il secondo è “positivo” perché pone proposizioni di verità.

La tradizione non è più bloccata

Il primo aspetto del magistero di Francesco che è bene mettere in rilievo è il fatto che, fin dall’inizio, esso si muove in vista del recupero urgente di un concetto “dinamico” di tradizione. Molte delle espressioni più caratteristiche di Evangelii Gaudium, già nel 2013,  discendono precisamente da questa lettura “non statica” della tradizione.

In questo intento Francesco non fa altro che riprendere la grande intuizione del Concilio Vaticano II, che già alla fine del papato di Paolo VI, ma soprattutto durante i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, aveva subito un drastico ridimensionamento, fino a trovare, indirettamente, la sua smentita nella implicita teorizzazione di un “dispositivo di blocco”, mediante il quale la Chiesa poteva trovare la tradizione solo nel suo passato, spogliandosi di ogni autorità sul nuovo.

La riscoperta della autorevolezza del presente e del futuro per istituire pienamente l’esperienza della tradizione mi sembra il più grande guadagno ecclesiale di questi sette anni. La rilevanza del tempo per lo spazio e della realtà per la idea – secondo due dei famosi principi introdotti da EG – sono la traduzione più chiara proprio di questa prospettiva, che reagisce in modo autorevole contro la tendenza alla spazializzazione e alla idealizzazione della tradizione. La resistenza e la opposizione a Francesco, lungo questi sette anni, può essere compresa come la inerzia di una visione della Chiesa in cui il “controllo dello spazio” esclude la rilevanza del tempo e in cui la “difesa della idea” immunizza dalla realtà.

Aver dato nuova evidenza ai “segni dei tempi” e alla “forza del reale” nell’annuncio del Vangelo è la prima cifra qualificante l’esercizio del magistero di questo settennio.

Nuovo magistero positivo, nuovo magistero negativo

Il secondo aspetto che vorrei mettere in luce, e che è connesso con il primo, implica un ripensamento della “forma magisteriale”.

Per intenderlo bene, occorre una premessa. L’esercizio del “magistero pontificio” è stato caratterizzato, lungo la storia, dal prevalere di un “magistero negativo” rispetto al “magistero positivo”, secondo il significato dei termini che ho già chiarito sopra. Poche infatti sono state le “formulazioni dogmatiche”, ma numerosissime le “condanne”. E questo non era solo un limite dell’esercizio classico del magistero. Un magistero che “condanna proposizioni”, condanna solo quelle. Non altro. Lascia uno spazio di libertà molto grande. Fino al Concilio Vaticano I così si è mosso il magistero.

Con i due concili Vaticani le cose cambiano radicalmente, fino all’emergere, con il Vaticano II e dopo di esso, di una prevalenza assoluta del magistero positivo sul magistero negativo.  Anzi, uno dei fenomeni più interessanti, dagli anni Sessanta in poi, è la progressiva estensione della competenza positiva del magistero, che diventa addirittura “invasivo”. E questo non è un fenomeno privo di limiti. Potremmo dire che, paradossalmente, l’estendersi del magistero positivo non è solo un fatto positivo. Perché ciò modifica profondamente le logiche ecclesiali, determinando una rilevanza spropositata del magistero pontificio, rispetto alle altre forme di esercizio della autorità ecclesiale. Ed è, in fondo, l’ombra lunga della logica ordinamentale imposta dal Codice di Diritto canonico, del 1917 come nel 1983. Si  è creato, così, dopo il Vaticano II e fino a Benedetto XVI, un “sistema” in cui il magistero papale assorbiva in sé ogni autorità, fino a definirsi  non solo  positivamente, ma anche negativamente: dove non si riconosceva autorità, non esisteva altra autorità.

Con Francesco mutano entrambi i fronti di questa composizione istituzionale e ideale. Da un lato, infatti, il magistero positivo di Francesco si interpreta con nuova libertà, sia linguistica sia istituzionale. È evento linguistico ed evento esperienziale. D’altra parte, egli assume l’elemento “negativo” non più in termini di “condanna di proposizioni erronee” (secondo la soluzione classica), ma neppure in termini di “esclusione di autorità” (secondo la soluzione prevalente nel post-concilio), ma come rimandando ad “altre autorità” (e questo appare evidente – e perciò imbarazzante – soprattutto in Amoris Laetitia e in Querida Amazonia). Un “magistero papale” che “non deve risolvere tutte le questioni” è una lettura “classica” della funzione magisteriale, che riconosce il proprio limite, alla quale però non eravamo avvezzi da almeno 2 secoli. Ci sembra una rivoluzione, o una sovversione, solo perché siamo tutti cristiani  e cattolici dalla memoria corta.

Potrei così dire che, lungo questi 7 anni di cui oggi ricorre l’anniversario, abbiamo conosciuto, gradualmente, una forma nuova e antica di esercizio del magistero papale, che si sta rinnovando sia dal punto di vista dell’esercizio del “magistero positivo”, sia dal punto di vista dell’esercizio del “magistero negativo”.

Non deve sorprendere che queste novità non solo lascino il corpo ecclesiale con qualche imbarazzo, ma che incontrino una obiettiva difficoltà ad essere elaborate in modo pienamente efficace. Tuttavia bisogna riconoscere con gratitudine che l’orizzonte è aperto, il linguaggio è inaugurato, i gesti sono forti e belli, e i principi di attuazione non mancano. Questi sette anni sono stati non solo “l’inizio di un inizio”, ma anche, e forse ancor più, un “punto di non ritorno”. Del quale possiamo rallegrarci. Anche se, immediatamente, questo “inizio” crea per tutti soltanto una complicazione, per quanto meravigliosa. Essa implica, infatti, il ripensamento di un apparato concettuale, istituzionale, canonico e pastorale, al quale ci dedicheremo – a partire da noi fino ai nostri pronipoti – per almeno un secolo.

Questi sette anni di grazia hanno il dito puntato su almeno 4 generazioni a venire: così funziona il primato del tempo sullo spazio.

Pubblicato nel blog Come se non, 12 marzo 2020

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