“Ultime conversazioni” di J. Ratzinger

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Non vi è dubbio che, nel libro uscito il 9 settembre u.s., si possano identificare almeno due percorsi diversi. Da un lato una serie di “ritrattazioni”, con cui J. Ratzinger – il “terzo” Ratzinger – torna allo stile degli esordi della carriera teologica, prima che assumesse qualsiasi tipo di “ministero pastorale”: ha quindi pienamente ragione Massimo Faggioli nel concludere il suo commento al libro con queste giuste parole:

«Benedict does not speak at all of the Bishops’ Synods of 2014 and 2015 or the apostolic exhortation Amoris lætitia. Those who were hoping for an intervention by the former pope in the debate on family and the divorced and remarried will be disappointed. If you are one of those traditionalists considering the “schism option” (formally or silently), don’t look to this book for support from Benedict XVI. He now describes himself as a rebel who has always enjoyed contradicting (“die Lust am Widerspruch”), and now he has contradicted, and distanced himself from, some of those he appointed and promoted during his thirty-one years in Rome before becoming “emeritus”».

È vero: J. Ratzinger nel libro ha preso le distanze da alcuni di coloro che negli ultimi trentun anni aveva appoggiato e promosso a Roma, prima di diventare “emerito”.

Ma, pur tenendo conto di questa condizione favorevole di “emerito” – liberato da ogni diretta responsabilità pastorale e pontificale – è possibile rilevare nel libro un altro versante di estremo interesse, utile a comprendere meglio le ragioni che lo hanno portato ad assumere posizioni in campo liturgico di cui la Chiesa continua obiettivamente a “soffrire”, proprio a causa della distanza tra le sue “intenzioni” – che qui troviamo apertamente riproposte – e gli effetti non voluti e non considerati. In effetti alle pp. 186-190 troviamo riproposte con sostanziale continuità rispetto al passato le “ragioni” che – ad avviso di J. Ratzinger – hanno giustificato il MP Summorum Pontificum del 2007. Vorrei presentare qui queste ragioni, con le parole con cui oggi vengono ripetute, insieme alle loro intrinseche debolezze:

a) «Ciò che prima era sacro non può diventare da un momento all’altro sbagliato» (190)

Questo assunto, che è ben presente fin dall’origine come “motivazione-chiave” di Summorum pontificum, appare di una disarmante debolezza. È stato “sacro” pregare per i “perfidi giudei”? è stato “sacro” che “solo il prete celebrasse”? è stato “sacro” ripetere ogni giorno feriale la medesima liturgia della parola? è stato sacro recitare il rosario durante la messa? È stato “sacro” spostare la comunione dopo la fine della messa? Mi chiedo: perché mai qualcuno dovrebbe avere oggi il diritto di “restare fermo” a questa forma del “sacro”? Qui il “piacere della contraddizione” si identifica con la “ostinazione nel medesimo”. Ostinazione obiettivamente cieca e viscerale, dal momento che può guardare ad ogni mutamento liturgico come ad una “catastrofe irreparabile”. Certo, Ratzinger non smentisce mai la Riforma, ma la comprende e la ammette solo in quanto resti “senza effetto”, salvaguardando la “sostanza” della liturgia.

b) «È importante che si cominci a vedere da dentro ciò che è la liturgia» (190)

Ecco un secondo aspetto da considerare. Per Ratzinger, anche da “emerito”, la liturgia deve essere colta rigorosamente “da dentro”. Ma qui si pone un secondo problema decisivo. La liturgia non è un concetto o una idea: è fatta in modo tale che “dentro” e “fuori” non si possono isolare. Solo se posso prescindere dall’esterno, se oso ridurre la liturgia solo ad punto interiore, posso illudermi che la “continuità” risulti indifferente alle mutazioni esterne. E posso allora sostenere la “irrilevanza” della riforma rispetto alla “sostanza” della liturgia. Solo a questo prezzo posso arrivare ad affermare – con grande gusto per la contraddizione – l’identità del diverso. E a chiedere che “l’identità interna dell’altro deve rimanere visibile” (189).

c) «Adesso non c’è un’altra messa. Sono due diverse forme dell’unico e medesimo rito» (189)

Ma non era stato proprio J. Ratzinger a dire, agli inizi degli anni 80, che la più grande idea elaborata dalla teologia liturgica nel XX secolo era stata proprio il cambiamento del concetto di forma? Se questo è vero, come è possibile che ci sia “una sola messa” in forme tanto diverse? Se la differenza di forme si comprende bene nel divenire della storia, come è possibile che possa essere contemporaneamente vigente l’una e l’altra e che ogni prete possa, nella sua singolarità, optare per l’una o per l’altra, in modo assolutamente arbitrario, almeno finché vive il rapporto singolare con la liturgia? In questo “diritto clericale” alla indifferenza per la forma si nasconde la contraddizione più rischiosa e anche l’ostinazione più “seducente”.

d) «La vecchia liturgia del Venerdì santo non è davvero accettabile. Mi meraviglio che non si sia fatto nulla prima per cambiarla» (186)

Il gusto per la contraddizione conduce anche ad una ricostruzione storica assolutamente paradossale. In effetti, leggendo il resoconto con cui J. Ratzinger presenta la vicenda della “preghiera per i giudei”, c’è da restare letteralmente senza parole. La distorsione dei fatti è davvero clamorosa. Non si dice nulla sul fatto centrale: ossia che è stato il MP Summorum Pontificum a rendere immediatamente utilizzabile, da tutti i preti, la vecchia formula della “oratio pro conversione judaeorum”. Nessuno lo aveva pensato prima! Nemmeno il papa di allora! Il quale dice di non avere “nulla” contro la nuova formula del 1970, ma confessa di essersi dedicato in prima persona a formularne una diversa, che non fosse più quella del 1962, ma che fosse anche diversa da quella del 1970! Nel 2008, quindi, si è dedicato tempo e ingegno per introdurre una formula “intermedia” tra quella del 62 e quella 70! E questo atto azzardato sarebbe stato criticato solo “per mala fede”, soltanto per “distruggere Benedetto XVI”? Il papa emerito, incurante di questi fatti che pesano come macigni, si attribuisce il merito di aver sostituito la vecchia formula «con una preghiera migliore per il gruppo ristretto di chi utilizza il messale antico». In realtà, si può affermare esattamente il contrario: che con il MP del 2007 un certo numero di cattolici può ritenersi pienamente autorizzato ad astenersi dal pregare secondo la formula comune, rinunciando pericolosamente alla pienezza del rispetto e del riconoscimento tra “fratelli minori e maggiori”. La mancata considerazione di questa prospettiva è pastoralmente un piccolo grande dramma di insensibilità e di autoreferenzialità.

e) «In Germania alcune persone cercano da sempre di distruggermi» (187)

A onor del vero va aggiunto un aspetto curioso: tutto questo “dramma” sarebbe solo frutto di una «montatura dei teologi tedeschi che non mi sono amici». È del tutto singolare che questa delicata vicenda, segnata da una lettura astorica e puramente interiore della tradizione liturgica – come se 50 anni dopo la riforma si potesse assicurare continuità con un semplice MP – possa essere ricostruita, nella sostanza, come una questione di “personale inimicizia”. La ammissione di “mancanza di relazioni” – che Benedetto confessa cavallerescamente all’inizio del volume – qui appare come uno scotto troppo alto che la tradizione liturgica ha dovuto pagare, e che continua a pagare anche oggi, senza che questi motivi abbiano più alcun fondamento istituzionale, data la condizione di emeritato.

In conclusione, all’interno di un testo che contiene anche affermazioni sorprendenti, dobbiamo riconoscere con onestà che il “tema liturgico” risulta pressoché immutato. E che su questo punto la “teoria” del prof. Ratzinger si è presto allontanata dalla realtà e continua a farlo, anche dopo la fine delle proprie responsabilità dirette. Tuttavia, la ripetizione di un argomento debole, anche dopo la fine del pontificato che lo ha espresso e utilizzato, non lo rende certo più forte. L’operazione di “liberalizzazione” del “rito antico” non solo non è giustificata dalla “sostanza” della liturgia, o da una liturgia compresa “da dentro”, ma risente pesantemente di opzioni soggettive e di idiosincrasie personali, che hanno appesantito e complicato la gestione concreta della liturgia ecclesiale.

«Die Lust am Widerspruch», la “voglia di contraddire”, ha avuto un prezzo troppo alto per la vita liturgica ecclesiale. A ciò occorre porre oggi rimedio senza indugio, perché il “piacere della contraddizione” ha generato, malgrado le migliori intenzioni, negli ultimi 30 anni, “la negazione del magistero”. E questo non è accaduto solo in ambito liturgico, ma anche nelle decisioni sul ministero maschile e femminile, sul modo di considerare e di attuare il Concilio Vaticano II e il suo significato, sulle priorità della identità ecclesiale, sul rapporto della Chiesa col mondo e sul dialogo ecumenico e interreligioso. Questa tensione irrisolta, questa fragilità di argomentazioni accanto ad una certa pre-potenza delle determinazioni, appare, nell’ultimo libro, disegnata con profilo chiarissimo, in un misto di disarmata arrendevolezza e di irriducibile e ostinata determinazione.

Quasi come la cifra di questo approccio irrisolto appare l’ultima parola che chiude questa parte del libro, quando, di fronte alle difficoltà di recezione del MP, J. Ratzinger ribadisce, con forza, la «impotenza papale», negando per due volte che il papa possa realmente incidere sulla realtà liturgica: «Non è così», «Certo, è impossibile» (190).

Forse l’irrigidimento maggiore, nella vicenda biografica di J. Ratzinger è dovuto proprio a questa confessata “impotenza”. Il massimo della sua “potenza” – prima come prefetto e poi come papa – si è tradotta in una sostanziale impotenza del magistero. Il suo magistero è divenuto gradualmente ma irrevocabilmente contraddizione del magistero, quasi gusto e voglia di un’assenza di magistero.

Forse in questo modo il “gusto della contraddizione” ha finito sostanzialmente col bloccare il magistero ecclesiale per 30 lunghi anni. La massima affermazione di potere è stata forse quella di “non avere potere”? O, meglio: nella negazione di ogni spazio di movimento per l’autorità della Chiesa ci si è ridotti sempre più ad una versione autoreferenziale dell’autorità. Che si affermava solo nella negazione di ogni possibile novità.

L’apparizione di Francesco, restituendo al magistero la sua autorità efficace – autorità di affermare piuttosto che di contraddire –, ha  iniziato a superare la contraddizione che paralizza, e ha riaperto la strada alla vita vissuta, all’uscita rischiosa e alla cura senza misura.

Forse questo è il motivo centrale e il punto decisivo di fronte al quale anche Benedetto – proprio lui e senza finzioni – ha potuto confessare così apertamente – e quasi spudoratamente – la sua ammirazione per un Francesco non solo come papa “attivo”, ma anche per il suo lato “riflessivo”, nel quale si può riconoscere che «la Chiesa è in movimento, è dinamica, aperta, con davanti a sé prospettive di nuovi sviluppi» (43). Un Francesco che fa prevalere sul negativo della contraddizione il positivo dell’azione e dell’affermazione: rispetto al “gusto di contraddire” – del quale evidentemente non manca nemmeno lui –  dà il primato al “piacere di uscire” e al “desiderio di incontrare”.

Pubblicato il 17 settembre 2016 nel blog: Come se non

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2 Commenti

  1. Andrea 18 settembre 2016
  2. carchia 17 settembre 2016

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