Chronicon – 31. Meschinerie

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Mi è venuto il nervoso durante la messa. È una questione banale e mi vergogno di parlarne. Capita che il rito si inceppi al momento dell’offertorio. Ci sono delle volte in cui nessuno si alza dal posto, la suora incaricata di seguire la liturgia dorme e io resto fermo come un palo in mezzo all’altare ad attendere che qualcuno mi porti il pane e il vino.

Oggi è successo il contrario. Davanti al tavolino delle offerte si è creata la ressa, con conseguente rissa. Erano in quattro a contendersi i pochi doni e nessuna voleva mollare. Meschinerie.

Probabilmente il nervoso mi è venuto perché questo episodio è solo l’ultimo di una lunga serie. Tra l’altro, spesso, teatro di queste baruffe da pollaio è proprio lo spazio sacro della chiesa e protagonisti e soggetti sono le persone più devote.

L’altro giorno, in sacrestia, Elena è venuta a dirmi di non sgridare Silvana, lettrice di turno, perché «sa, don Giuseppe, Silvana è in un momento difficile, la deve scusare se è distratta quando legge e non si capisce cosa dice, ma ha tanti problemi in casa… è un vero peccato che la parola di Dio venga così bistrattata…». Tutte cose buone, ma il timbro di voce di Elena tradiva il suo interiore godimento nel rimarcare lo sfacelo che era avvenuto nella lettura di san Paolo ad opera della sua “amica” Silvana (tutti sanno che non si sopportano). Meschinerie.

E che dire di Elisa, una delle generose volontarie che mi aiuta per la sacrestia e la pulizia della chiesa? Quando è il suo turno, non manca di farmi notare di come abbia pulito bene il tabernacolo e di come sono ordinati i fiori, salvo poi aggiungere che Loredana, di turno il giorno prima, ha lasciato i ceri in disordine e la finestra della sacrestia aperta. Meschinerie.

Angela, una delle segretarie storiche della parrocchia, ha deciso di interrompere il suo servizio. Lo ha fatto dopo che, per mesi, si era resa protagonista con Pinuccia di continui reciproci dispetti. Non si passavano le comunicazioni, le chiavi venivano dimenticate nei cassetti, non rispondevano alle telefonate e si accusavano reciprocamente del disservizio… Ad andarci di mezzo è stata la parrocchia. Fa male vedere Angela e Pinuccia, vecchie amiche, che durante la messa non si salutano e non si scambiano il segno di pace. Meschinerie.

Potrei andare avanti a parlare dei litigi e delle cattive parole, delle gelosie tra i gruppi parrocchiali ma mi fa male e rischio di inacidirmi mentre continuo a scriverne.

Come interpretare la presenza di queste piccolezza? E che cosa fare?

Mi ha soccorso il Vangelo di qualche giorno fa. Io penso che sia opera del diavolo. La sua strategia non è quella di opporre al bene clamorosi gesti o episodi di male. Di fronte a questi, il corpo ecclesiale sarebbe portato a reagire mettendo in gioco il meglio di sé. Il tentatore, invece, si diverte a seminare zizzanie. Piccoli grani ben sparpagliati che si diffondono e crescono in un attimo, mescolandosi al buon grano al punto che non riesci a distinguere uno dall’altro. Robe da nulla che, all’inizio, non sembrano importanti, piccinerie, meschinità; ma, quando crescono, soffocano il bene.

La tentazione – come racconta il Vangelo – è quella di estirpare il male con un colpo secco. Invece, la parabola insegna a «lasciare che grano e zizzania crescano insieme». Che significa imparare a pazientare e a convivere, a non agire mai con precipitazione o sull’onda del risentimento o del nervosismo.

Il padrone della parabola non si stupisce di fronte alla notizia della zizzania seminata nel campo, si limita a dire che «un nemico ha fatto questo». E ciò ai suoi occhi non toglie la bontà del terreno e soprattutto del grano che vi è stato seminato. La nostra pur “buona natura umana” rimane incline alla piccolezza e al peccato e nessuno può dirsi esente da forme “meschine” di azioni capaci di “tirar fuori il peggio”. Occorre abbracciare la natura umana per quello che è e imparare a sopportare. Ma basta?

La questione non è semplice. Io voglio bene a Elena, a Silvana e a tutte le altre. Riconosco che, senza di loro, probabilmente la parrocchia non potrebbe andare avanti. Sono devote e “fedeli”, sempre presenti, e quando le chiamo per un servizio e un aiuto sono di quelle che dicono sempre di si. È però altrettanto vero che alcune di queste “fedeli devote” si aggrappano alla parrocchia come ad un’àncora di salvataggio. Niente di male in questo, ma sicuramente le motivazioni non sono tra le più nobili. Come dice Teresina con disarmante franchezza: «Io vengo in chiesa perché a stare in casa mi viene la malinconia». Come giudicare male una spontaneità così? A me è chiesto di accogliere con benevolenza ogni briciola di bene, anche quando le motivazioni – lo vedo chiaramente a volte – sono un miscuglio di bisogni irrisolti e di buone intenzioni.

Ma forse non basta accogliere. Come responsabile di una comunità, mi è chiesto di vigilare perché i servizi non diventino forme di potere, e di operare un discernimento rispetto alle persone e alla loro responsabilità. Qualche volta mi è chiesto di “contenere”: si tratta di “tenere dentro” per non perdere le persone, ma contemporaneamente di “arginare”, perché le meschinerie non corrompano il clima e nessuna di loro prenda spazi e occupi responsabilità che diventino di impedimento e di scandalo.

Nel vangelo, le piccolezze dei discepoli vengono fortemente redarguite dal Maestro perché non impediscano ai piccoli di accedere a lui. Così nelle nostre comunità ci deve stare a cuore che la debolezza della nostra umanità non diventi un impedimento perché il Vangelo sia ascoltato da tutti.

Più positivamente, queste piccolezze rappresentano una buona occasione per dei veri e propri esercizi spirituali.

Insieme alla pazienza che queste situazioni richiedono (i pesi vanno semplicemente portati e sopportati), non guasta un po’ di ironia capace di disinnescare le tensioni e di lasciar cadere tante cose inutili. Qualche volta mi riesce di prendere in giro con benevolenza molte delle persone che lavorano in chiesa, e una risata val più di una sgridata.

Insieme ad una buona dose di fermezza, con la quale occorre in certi momenti saper dire semplicemente “basta!”, comprendo che occorre soprattutto curare il clima della mia parrocchia e delle relazioni. Ci sono dei malfunzionamenti che non si affrontano di petto e direttamente: per sanarli occorre disintossicare il clima e far respirare aria buona. I semi buoni della preghiera, dell’ascolto della Parola, del perdono e della carità, sono più forti, e bastano perché il malessere delle meschinerie venga disinnescato.

Penso che dovrò seminare ancora a lungo e con generosità.

don Giuseppe

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