Creatività pastorale nel tempo di Francesco

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Una parrocchia capace di “creatività missionaria”

1. Francesco chiede per la parrocchia spirito creativo. Papa Francesco vede la parrocchia della “chiesa in uscita” come una comunità dotata di dinamicità pastorale e missionaria: «La parrocchia – si legge nel “manifesto” del suo pontificato – non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità».[1]

La creatività di cui parla papa Francesco non ha niente a che vedere con l’eccentricità o con l’allontanamento dai grandi tracciati della Tradizione, ma è piuttosto la capacità profetica di aprire orizzonti nuovi, di saper adattare alle croci dell’ora la parola consolatrice del Vangelo, di creare nuovi modelli e forme di pastorale e di rinnovare il linguaggio con cui annunciare agli uomini del nostro tempo la Parola che non passa mai (cf. Mc 13,31), che altro non è se non il continuare a realizzare l’intuizione decisamente profetica avuta da Giovanni XXIII con l’idea dell’«aggiornamento», il papa di cui ha rievocato l’evangelico ottimismo, ossia lo sguardo di misericordia sul mondo e sul tempo d’oggi.

Si discetta talora se papa Bergoglio ispiri il suo pontificato a papa Roncalli. Paolo Rodari l’ha chiesto a uno che lo conosce assai bene, un vescovo teologo, il rettore della Pontificia università cattolica di Buenos Aires, che così ha risposto: «Francesco è molto diverso rispetto ai papi che l’hanno preceduto, sebbene sia vero che possa avere i tratti di uno o dell’altro. La cosa più importante è che egli segue sempre la strada che il concilio ha aperto. Senza dubbio preferisce restare fuori dalle discussioni teoriche sul concilio, perché ciò che a lui interessa è proseguire nello stesso spirito di rinnovamento e di riforma. […] Piuttosto applica il concilio in tutta la sua interezza, senza pause e senza passi indietro, con l’intento di traghettare la Chiesa fuori da se stessa, affinché arrivi a tutti».[2] Ritorna così il tema della “chiesa in uscita”, che evidentemente s’estende anche all’idea di “parrocchia in uscita”.

2. La creatività porta il cuore in cielo e i piedi sui vicoli. Una pastorale creativa della parrocchia, fra le molte condizioni che richiede, deve comprendere una condizione imprescindibile, quella della sua prossimità o vicinanza alla gente, che papa Francesco così esprime: «Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi».[3] Ciò spiega nel modo più sorprendente che lo slancio creativo non allontana la parrocchia dalla propria storia e dalla propria geografia, ma, al contrario, l’avvicina ad esse.

Si diceva che questo è sorprendente, ma a ben vedere è solo normale. Quand’è che una persona la si sente estranea, una proposta la si sente estemporanea, un linguaggio lo si percepisce desueto, un’istituzione la si trova lontana? Sempre e solo quando ci passano lontano, di là dei nostri bisogni, delle situazioni di vita e dei desideri del cuore. La buona novità evita tutto questo perché s’industria di trovare i modi di avvicinamento, le forme di prossimizzazione per risolvere distanze e lontananze.

In quest’ottica si capisce che papa Francesco chiami al rinnovamento anche le parrocchie: «La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione».[4]

Si tratta, tuttavia, non della realizzazione automatica d’una formula, ma di uno sforzo pastorale mai compiuto che bisogna sostenere con costanza, accrescere con generosità, coinvolgendo, al suo interno, tutti i soggetti della parrocchia: «Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione».[5]

Di più. L’unità di misura per fare comunione nella parrocchia non è data più dai singoli, né dalle sole famiglie, ma da soggetti potenzialmente più grandi. Per Bergoglio la parrocchia «è comunità di comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario».[6]

Ragionando sulla creatività evocata da Francesco

1. La valenza pedagogica della “creatività missionaria” chiesta da papa Francesco. Risulta subito facile capire che la creatività – nella sua proposizione, nella sua motivazione, nella sua pratica – può essere complesso o assai difficile poterla utilizzare sempre e in tutte le situazioni parrocchiali per scarsezza di risorse umane e d’altra natura. Eppure, alla creatività la parrocchia (anche la più piccola e modesta) non deve mai rinunciare: particolarmente urgente, in questi casi, sarà raggiungere tutti gli operatori pastorali con aiuti e impulsi opportuni da parte della diocesi e delle zone pastorali e delle foranie, creando integrazioni utili possibili. La creatività non è un talismano, ma è utile alla pastorale.

Evidentemente la capacità d’interpretare creativamente gli atti pastorali nelle parrocchie sono differenti, ma è importante saper aderire, umilmente e con buonsenso, alla legge del possibile, della gradualità e perfino della parzialità. Non bisogna dimenticare che l’opera cristiana ha bisogni delle forme creative a tanti livelli: nella scelta dei tempi giusti nello scegliere codici linguistici elaborati più adatti per trasmettere messaggi di pre-evangelizzazione, di evangelizzazione; nel porre i segni più significativi di testimonianza, di missione e di pastorale; nell’esemplificare nel modo più significativo; nell’usare senza equivoci il grande registro del silenzio.

In un modo interessante, la creatività aiuta a vedere al di là dei confini dell’esistenza, scombinando e ricombinando, oltre i modi consueti e standardizzati, schemi pastorali, strutture organizzative, modelli di stare al mondo e nella Chiesa, e soprattutto cercando di usare lo sguardo adatto (come papa Francesco insegna nella sua raffinata “pastorale dello sguardo”) sugli uomini del proprio tempo e di cogliere – almeno un poco – il mistero che essi portano con sé e l’anelito che li anima e li strazia nel cercare Dio, il suo nome e il suo volto.[7]

2. Bene la creatività, ma attenzione alle insidie del pensiero liquido. Viviamo in un contesto socio-culturale dove tutto viene ridotto a forma cangiante e strutturalmente mutabile. È necessario oggi stare attenti dal concepire la fede nelle forme labili del pensiero debole e del pensiero liquido, occorrendo perciò distinguere il credere dal credere di credere, il credere dal sentire di credere. Ora, il linguaggio non preciso, desunti da diversi contesti linguistici, cedenti alla moda, aforismatici, a effetto, civettuoli, da super mercato posso incidere sulla purezza del pensiero cristiano cui bisogna evidentemente tenere.

È vero: molti cessano di credere perché non sentono o non sentono più la loro fede. Questa è una delle contraffazioni attuali del credere più insidiose che trovano facile accoglienza nel nostro contraddittorio mondo post-moderno, così avido e goloso di sensazioni e di esperienze cangianti e inconsistenti, “liquide” appunto, effimere e transeunti, come da anni avverte il sociologo anglo-polacco Zygmunt Bauman.[8]

3. Impegnare intelligenza e sapienza pastorali, evitando i “killer” della creatività. Infine, anche pastoralmente la creatività ha bisogno d’imporre i suoi tempi e addirittura le sue lentezze, evitando quelli che sono comunemente chiamati i killer della creatività:

1) la sorveglianza (eccesso di controllo);
2) la valutazione (la preoccupazione del giudizio degli altri);
3) la ricompensa (impostare infantilmente o interessatamente la pastorale per compiacere al superiore);
4) la competizione (concepire l’opera pastorale senza rispetto dei ritmi dei soggetti pastorali, delle comunità cristiane ecc.);
5) l’eccessivo controllo (concepire la pastorale come un impositivo dettato e non come un tema da svolgere appellando a tutte le risorse umane, carismatiche, ambientali che si possiedono);
6) il limitare le scelte (suggerire sempre, in modo spesso ossessivo, nelle intraprese pastorali, titolo, mete, mezzi, tempi…);
7) la pressione (premere con insistenza sui mezzi, sui tempi di realizzazione e di verifiche, tutto progettando al minuto, tutto organizzando a puntino, imponendo anche mete eccessivamente grandi da premettere così le condizioni per fallimenti e delusioni);
8) l’abitudine (che comporta il pensare secondo schemi abitudinari che chiamano alla ripetizione stantia);
9) la paura in metastasi (che crea l’ansia di sbagliare, di perdere qualcosa, di regredire, di esporsi, di fare brutta figura, di essere giudicati, di non essere all’altezza delle situazioni);
10) il complesso dell’edera (che porta ad aggrapparsi agli idoli, agli stereotipi, ai pregiudizi, ai totem, al contrario di ciò che è vivente e in evoluzione);
11) la scarsa autostima (il tono basso nella stima di sé che depriva della motivazione e dello slancio necessari per operare in impegnativi progetti).


[1] Lettera apostolica Evangelii gaudium (24.11.2013), n. 28. Da ora in poi: EG.
[2] V.M. Fernandez (In dialogo con Paolo Rodari), Il progetto di Francesco. Dove vuole portare la Chiesa, EMI, Bologna 2014, p. 27.
[3] EG, n. 28.
[4] EG, n. 28.
[5] EG, n. 28.
[6] EG, n. 28.
[7] Cf. M.G. Masciarelli, Il mistero del volto. Piccola teologia del volto del Signore, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2008.
[8] Cf. Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002; Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Roma-Bari 2005; Paura liquida, Laterza, Roma-Bari 2008; si veda anche S.M. Perrella, «L’amore agapico cristiano in un contesto di cultura “liquida”: l’insegnamento di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI», in F. Ceravolo, Sulle ali della carità, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2008, pp. 7-52.

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