Annunciare le “Realtà ultime”

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Quando si predica senza fedeltà alla Parola

Nei predicatori si richiede la fedeltà alla Rivelazione divina: 1Cor 4,1-2; la «custodia del deposito» (1Tm 6,20) e la sua fedele trasmissione (1Cor 11,23; 15,1-3; 2Ts 2,15). Per loro vale l’affermazione paolina, perché ne interpreta la condizione vocazionale: «Avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete» (1Ts 2,13).

Gesù insegnava «con autorità» (Mt 7,29; Mc 1,22.27; Lc 5,32) e il predicatore, suo strumento, deve insegnare Cristo (Gv 14,6; 18,37) senza tentennamenti, esitazioni, perplessità, ma con un annuncio che non sia una somma di “opinioni” o “proposte” dubbiose (cf. Mt 28,18-20; 2Tm 4,1-4); egli deve predicare «squadrando in maniera dritta la parola della verità» (2Tm 2,15), alla quale occorre prestare fede, perché rivelazione divina (verbum Dei: Lc 5,1). La fede nasce dall’ascolto della predicazione; anzitutto agli inviati di Dio è dovuta l’obbedienza della fede (cf. Rm 10,14-16; 1,5; 16,26).

Quando si predica senza basi teologiche

Prima di entrare nel tema dell’evangelizzazione delle «ultime cose» e, segnatamente, del giudizio, è necessario annotare alcuni limiti vistosi della predicazione dal punto di vista teologico. L’odierna predicazione, oltre ad essere eccessivamente breve, è troppo generica e più o meno improvvisata; è carente di organicità, di sistematicità e di completezza; si attarda in un vago biblicismo che sfocia in considerazioni e applicazioni prevalentemente moralizzanti, psicologizzanti e sociologizzanti; difetta di istruzione catechetica; insiste, in maniera unilaterale, sulla bontà, sulla misericordia, sull’amore di Dio senza approfondire tali attributi divini, mancando di inquadrarli nell’insieme della Rivelazione e di collegarli con tutti i suoi dati.

Si ha l’impressione che i predicatori non dispongano sempre di una sintesi teologica solida, di cui è uno splendido esempio la Lettera ai Romani di san Paolo: peccato-morte-redenzione-grazia-speranza-salvezza. In questo modo i predicatori non onorano il loro impegno di fedeltà a Gesù Maestro: il servizio della Parola è un atto di ubbidienza a lui e, in più, il predicatore si realizza in una vera imitazione di lui.

Quando si tace sulle Realtà ultime

Molti sono i vuoti tematici che si constatano nella predicazione d’oggi.[1] Qui ci si limita a riflettere sul vuoto di temi riguardanti le «cose ultime», ossia il mistero di Dio come Signore del futuro. È noto, infatti, come il discorso sul futuro ultimo sia stato fatto coincidere, come è giusto che sia, con il discorso su Dio: è evento che ci riguarda di fronte a Dio, in teologia tutto parla sempre di Dio e in questo si concentra.

Conseguentemente, l’escatologia è un rigoroso discorso su Dio prima che sulla creazione, sulla storia e sull’umanità: «è Dio il “fine ultimo” della sua creatura. Egli è il cielo per chi lo guadagna, l’inferno per chi lo perde, il giudizio per chi è esaminato da lui, il purgatorio per chi è purificato da lui. Egli è colui per il quale muore tutto ciò che è mortale e che risuscita in lui e per lui».[2]

Come si vede, perfino l’inferno è pensato in termini teologici: è la perdita di Dio, la sua definitiva assenza dalla sua creatura. Questa carenza d’annuncio diventa manifesta nella predicazione sul tema del futuro ultimo, in occasione dei funerali, che raramente divengono un’ora preziosa per evangelizzare e catechizzare quei “lontani”, che entrano in chiesa quasi esclusivamente in tali circostanze.

Quando l’omelia diventa un “elogio funebre”

L’omelia delle esequie cristiane spesso diventa un “elogio funebre”, mentre, fra l’altro, occorrerebbe che sapesse anche istruire bene sui Novissimi, dei quali purtroppo si parla oggi molto poco anche negli altri servizi della Parola.

Talora i sacerdoti, durante i funerali, quasi si scusano per il fatto della morte, senza collegarla con il peccato (cf. Rm 5,12.21; 6,23); celebrano quasi per cordoglio verso i superstiti e poco o nulla dicono della necessità del suffragio per le anime del purgatorio, mentre è un punto fermo del magistero della Chiesa dagli inizi della sua storia. Andrebbe celebrato meglio pastoralmente anche il 2 novembre, che non è una generica commemorazione dei morti, ma la commemorazione dei fedeli defunti, cioè il giorno dei suffragi per le anime del purgatorio.

Nelle celebrazioni di tale giorno, si nota spesso che l’omileta passa subito a parlare della risurrezione, trascurando l’annuncio della verità sulla risurrezione come frutto del sacrificio di Cristo che si rinnova sull’altare. L’omileta si dedica sovente a “canonizzare” il defunto, non limitandosi a parlare delle verità della fede che sono nel diritto dei fedeli (cf. cjc, can. 213). Certo, si può accennare con sobrietà alle virtù del defunto per additarlo ad esempio, ma senza esaurire tutta la predica in un panegirico. Ci si riunisce per la celebrazione eucaristica e i funerali non servono anzitutto per “salutare” il defunto e consolare i parenti, ma soprattutto per pregare per lui e meditare sul morire in Cristo.

Riprendere un saggio annuncio delle Realtà ultime

L’annuncio della Parola deve essere completo, perché la rivelazione non è un’antologia di notizie o di appelli sapienziali in cui si può liberamente scegliere: è invece una profezia organica che pervade la verità del singolo, della comunità degli uomini, della creazione e della storia, con un piano salvifico che non si riduce all’annuncio di parole, ma implica eventi, profezie, consegne missionarie.

Si tratta di un corpus che non ammette sbriciolamenti, sfilacciamenti e tanto meno sottrazioni di temi, di brani di messaggio salvifico. Fra l’altro, proprio l’annuncio sul futuro ultimo non tollera riduzioni e manomissioni, dal momento che sono le verità che riguardano le cose e le situazioni decisive e definitive: ne va della credibilità dell’intero cristianesimo (il cristianesimo si giudica dalla fine) e ne va di noi, del destino estremo dell’uomo (quando saremo in cielo saremo pienamente uomini).

L’omelia non basta

Si sente il bisogno di una bella ripresa e di un’attenzione speciale dei temi che hanno come contenuto i “novissimi”, in tutti i servizi della Parola. Alcuni di essi hanno riassunto con molta determinazione i temi delle realtà ultime fra i loro oggetti d’insegnamento (il magistero) e di ricerca (la teologia), ma resta debole il loro recupero da parte di altri: catechesi, omelia, formazione ascetica.

Nella storia della spiritualità, anche recente, è significativo come il tema escatologico rappresentasse un punto fermo del sentire, del pensare e della pietà dei cristiani.[3]

Basti un solo esempio, quello di san Giovanni XXIII: nel suo Giornale dell’anima, appare con bella evidenza come egli avesse una visione soprannaturale ed escatologica dell’esistenza e di tutta la storia, per cui egli camminava alla luce dei Novissimi e della “teologia dell’aldilà”. Ne è scaturita un’esperienza di fede da lui intimamente gustata come verità che permeava ogni angolo della sua esistenza umana e cristiana, esprimendosi anche con soavità e confidenza nelle pratiche di pietà, che alimentavano la sua vita cristiana: fra esse non mancavano le devozioni agli Angeli, ai santi e il costante ricordo delle anime del Purgatorio.[4]

I presbiteri tornino ad essere maestri di speranza

L’annuncio cristiano ha bisogno di un sussulto: vanno immaginati e pensati più in alto l’ambone, più estesa la folla degli uditori della Parola, più lunga l’eco del Vangelo nel cuore dell’uomo e soprattutto più dirompente la sua forza. Gli è che davanti ai servi della Parola, al loro ministero, alla loro missione non c’è più solo la comunità ecclesiale, solo una porzione del popolo di Dio. Essi sono di fatto chiamati a portare segni di giustizia, pace e riconciliazione all’intera famiglia degli uomini e, in questa ai più deboli dei suoi membri (gli sventurati, gli ultimi, gli esclusi, i violentati, gli emarginati, gli umiliati), siamo chiamati per agire e per parlare, per annunciare il giudizio di Dio su chi non opera secondo la giustizia, e per annunciare il suo Regno di salvezza.

I presbiteri, primi servi della Parola, sono mandati in «tutto il mondo» (cfr. Mt 28,20), il loro pulpito dal quale predicare è posto sulla tolda del mondo; a loro è affidato il compito di annunciare il giudizio di Dio su ogni uomo e su tutta la comunità degli uomini, su ogni cosa e sull’intera creazione.

Tracce di aiuto per recuperare pastoralmente il tema delle Realtà ultime

Al cospetto dei mali e dei pericoli che lo minacciano l’uomo contemporaneo appare disorientato. Va individuato nel “nichilismo” la causa essenziale di questa condizione di in-certezza e di precarietà. L’uomo contemporaneo ha compiuto un vero «itinerarium mentis in nihilum».[5] I vari servizi della Parola debbono e possono contribuire a ricostruire le condizione della speranza. In quest’opera non debbono mancare i sacerdoti con la loro predicazione e con la loro catechesi.

Essi possono così aiutare a prendere coscienza della perdita del senso, a reagire alla cultura nichilistica, a incoraggiare gli uomini d’oggi a riconquistare i valori che hanno smarrito nella nebbia del nulla. Un singolare contributo debbono proporsi di darlo sul terreno della crisi di futuro che l’uomo contemporaneo patisce, essendosi irretito nelle maglie del presentismo. In concreto, il loro compito profetico sta nel saper dare sette aiuti sul fronte della crisi di futuro che affligge l’odierno uditore della Parola:

Aiutare a profetizzare il futuro ultimo. Il nichilismo non è del tutto indisponibile all’annuncio di Dio; anzi si è potuto perfino affermare che «ciò che si incontra alle radici del clima nichilistico dei nostri giorni è fondamentalmente la sete dell’Assoluto che l’uomo esperimenta».[6] Il cristianesimo, con la sua proposta escatologica, può offrire uno sbocco al vicolo cieco di una cultura prevalentemente presentistica.

Aiutare a riconquistare la forza della memoria. è in crisi la memoria: «ciò che rischia di sparire oggi è il passato, come continuità dell’esperienza, concatenarsi di significati».[7] Non sarebbe più possibile, in tempi di post-modernità, sviluppare grandi narrazioni. Il cristianesimo deve aiutare la riconquista della memoria è pretesa dalla speranza in un futuro ultimo: non si dà escatologia senza protologia; ma anche nell’escatologia c’è tutta la protologia. «L’uomo ha se stesso, dispone di se stesso, comprende se stesso intendendo anamnesticamente il suo passato e attualizzando prognosticamente il futuro».[8]

Aiutare a liberarsi dal frammentarismo della storia. La storia oggi è pensata come una serie puntiforme di flashes, privi di qualsiasi vero filo conduttore. È possibile cogliere evangelicamente il senso kairotico del momento che stiamo vivendo: la crisi di futuro forse ci ricorda che non ha senso angustiarsi per un futuro di cui Dio solo è il Signore che provvederà ai bisogni dell’uomo, come già fa con i gigli del campo e gli uccelli del cielo (cf. Lc 12,27). C’è un “oggi” di Dio che ogni uomo è chiamato a vivere in spirito d’abbandono, facendo della sua volontà, come Gesù, cibo e bevanda, e rinunziando a sovrapporre alla realtà del presente i rimpianti del passato e l’ansietà per il futuro.

Vincere la paura del futuro. Dopo l’entusiasmo utopico, s’insinua nella psicologia della cultura occidentale il sospetto sulla tenuta del principio speranza e sulla credibilità delle sue promesse, concepite in una visione sostanzialmente immanentistico-marxista:[9] «Ubi Lenin ibi Jerusalem».[10] Nascono delusioni, prostrazioni, il generale ritirarsi nel privato: vengono ricordati perciò i limiti da rispettare, viene invocata la misura. Tra «l’Ottocento e il Novecento, l’uomo ha sognato di mettersi al posto di Dio, ma ha pagato e sta pagando a caro prezzo tale illusione. Ora, per salvarsi – ammonisce Abbagnano –, non ha altra alternativa che quella di rientrare in se stesso, di accontentarsi di essere soltanto un uomo».[11]

 Aiutare a non affidarsi ai “futuri brevi”. Nello spazio della post-modernità sono diventate più strette le strade dell’umanesimo plenario e paiono chiuse quelle che portano alla trascendenza e all’escatologia.[12] La ragione si dice incapace di impegnarsi in grandi previsioni. Una delle connotazioni deboli della post-modernità è proprio la perdita del senso del futuro ultimo, al cui annuncio il cristianesimo non deve mai rinunciare. La post-modernità critica soprattutto l’immobilismo ideologico della modernità: in luogo di riconoscere il proprio fallimento, essa si limita a rinviare di continuo la realizzazione della propria utopia ad un “futuro prossimo”.

Aiutare a resistere alla tentazione del neo-paganesimo. Anche in territorio cristiano si nota un vistoso sintomo di crisi, lo smarrimento pratico-esistenziale della dimensione escatologica. Se non siamo escatologici, siamo i “nuovi pagani”.[13] Futuro breve e insufficiente è, perciò, anche il futuro concepito dall’attuale vitalismo. È una tentazione tipica di questo periodo di crisi: «Ora, proprio nella fine della cristianità, mentre il cristianesimo si riformula per gli uomini come problema, il paganesimo riaffiora di nuovo come un possibile modello: una vita lunga, non una vita eterna».[14] Ma il presbitero predicatore deve attirare l’attenzione sulla domanda: Che senso ha una speranza il cui vettore si conficca nel recinto di un cimitero?

Aiutare ad abbandonare il cinismo di una vita senza “giudizio finale”. Il post-moderno implicherebbe anche l’estrema che non sarebbe più possibile sapere e insegnare «dove si è diretti», ma solo «vivere nella condizione di chi non è diretto da nessuna parte».[15] Un uomo che vive senza la speranza in un futuro ultimo e nel convincimento conseguente di non dover rendere conto a nessuno alla sera della sua vita, cade nelle fauci della tigre cinica. Oggi diviene sempre più palese la “crisi” dei valori e delle fedi moderne, per l’offuscarsi dell’orizzonte di senso: «è la nascita di un cinico mondo senza speranze, senza futuro e sembra portare in sé i germi della sua stessa fine».[16]


[1] I temi carenti nella predicazione sono numerosi; se ne ricordano qui alcuni, tra i più vistosi: la misericordia di Dio quale sorgente del dono del Salvatore e suo effetto, in quanto questi ha soddisfatto per i nostri peccati alla giustizia divina; la remissione dei peccati unicamente in Gesù Cristo, o mediante il battesimo o attraverso la riconciliazione con la Chiesa nel sacramento della penitenza (cf. Concilio Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 11b), da cui deriva la necessità per i battezzati della confessione dei peccati; la ferita della natura umana in seguito al peccato, con la conseguente necessità della lotta spirituale per curarla (cf. Concilio di Trento, Sess. V, 5: DS 1515), della preghiera, della vigilanza cristiana, dei sacramenti (specie di alcuni: matrimonio, penitenza, unzione degli infermi), della Chiesa con i buoni esempi, dell’aiuto degli angeli custodi (contro le insidie e le tentazioni del demonio); la natura della fede e le ragioni per credere a Gesù Cristo, oltre che in Gesù Cristo; la natura della giustizia secondo la sacra Scrittura (essere giustificati e giusti: Rm 3,24; 5,1 ss.; 6,13.18), il santo timore di Dio (tra i doni dello Spirito Santo), l’osservanza dei comandamenti di Dio (cf. Gv 14,21; 15,10; 1 Gv 5,3) e la possibilità di osservarli (cf. Mt 11,30; 1 Gv 5,3; Concilio di Trento, Sess. VI, 11: DS 1536); la coscienza e la legge (cf. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Veritatis splendor (6.8.1993), in particolare il Cap. II).
[2] H.U. von Balthasar, I Novissimi nella teologia contemporanea, Queriniana, Brescia 1967, p. 44.
[3] Cf. J.L. Sánchez de Alva – J. Molinero, I Novissimi. Introduzione all’escatologia, Ares, Milano; Aa.Vv., Aldilà & dintorni. Dieci dialoghi sulle “cose ultime”, Interviste a cura di R. Righetto, San Paolo, Milano.
[4] Cf. Giovanni XXIII, Il giornale dell’anima, a cura di Loris F. Capovilla, Abete, passim.
[5] F. Volpi, Il nichilismo, Roma-Bari 1996, pp. 3-10.
[6] G. Lorizio, Prospettive teologiche del postmoderno, in Rassegna di Teologia 30 (1989) pp. 550 ss.;
[7] G. Vattimo, Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, Milano 19903, p. 14.
[8] K. Rahner, Principi teologici dell’ermeneutica di asserzioni escatologiche, in Saggi sui sacramenti e sull’escatologia, Roma 19692, p. 413.
[9] Cf. E. Bloch, Dialettica e speranza, Firenze 1967; Ateismo e cristianesimo, Milano 1971; Religione in eredità. Antologia dagli scritti filosofici della religione, Brescia 1979.
[10] J. Pieper, Speranza e storia, Morcelliana, Brescia 1969, pp. 71-92.
[11] Le promesse futurologiche di un O. K. Flechteim si sono solo parzialmente realizzate e si chiama a vigilanza circa i pericoli che incombono sull’umanità giunta ormai a un punto cruciale della sua evoluzione storica.
[12] Queste strade si aprono e si chiudono insieme, benché le prime vadano verso l’alto e le seconde rechino verso l’Orizzonte ultimo: «la dialettica del finito, nel suo farsi religiosa, si pone kierkegaardianamente come il salto nella trascendenza: la dialettica della “distanza infinita” tra l’uomo e Dio, tra la “miseria” del presente umano e l’“assolutamente nuovo” del regnum venturum» (P. Prini, Cristianesimo e ideologia, Fossano [CN] 1974, p. 57).
[13] Si chiede Salvatore Natoli: «Nella dissoluzione della cristianità può ancora riemergere la verità del cristianesimo? È ancora possibile credere che questo mondo deve finire? È ancora possibile annunciare questo messaggio? In fondo vorrei sapere quanti sono oggi i cristiani che sono davvero persuasi e pronunciano con fede le parole del credo: et exspecto resurrectionem mortuorum et vitam venturi saeculi: attendo la resurrezione della carne e il ritorno definitivo del Signore?» (S. Natoli, I nuovi pagani. Neopaganesimo: una nuova etica per forzare le inerzie del tempo, Milano 2000, p. 15-16).
[14] S. Natoli, I nuovi pagani, p. 16.
[15] G. Vattimo, Al di là del soggetto, cit., p. 12.
[16] G. Penati, Modernità e postmodernità nel pensiero filosofico attuale, in Communio, n. 110, marzo-aprile, 1990, 19. Su questo tema del cinismo come ulna delle forme di crisi del pensiero escatologico, o come uno degli sfondi di quella crisi, cfr W. Muhs, Gli aforismi del cinico, Milano 1992; P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica, Milano 1992; E.M. Cioran, Sillogismi dell’amarezza, Milano 1993; P. Landi, Il cinismo di massa, Milano 1994.

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