Borras: i preti che mancano

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Alphonse BorrasAlphonse Borras, vicario generale della diocesi di Liegi (Belgio) e professore emerito di diritto canonico all’università di Lovanio, affronta i temi connessi al ministero presbiterale oggi. Per le edizioni dehoniane ha scritto Il diaconato, vittima della sua novità? (Bologna, 2008). Sulla mancanza di preti e su come affrontare questa emergenza gli abbiamo sottoposto alcune domande.

– Mons. Borras, lei ha scritto per le edizioni Mediapaul un testo illuminante Quand les prêtres viennent a manquer (Quando i preti vengono a mancare), riprendendo un tema già affrontato da p. J. Kerkhofs nel suo volume del 1995, Europa senza preti. Perché ritiene illusoria l’attesa di un rialzo significativo delle vocazioni presbiterali in Occidente?

«Sul finire degli anni ’50 Karl Rahner per primo e dopo di lui altri teologi hanno diagnosticato la fine della cristianità – ossia una Chiesa in diaspora – e poi, in forma crescente, negli anni ’90 molti episcopati dell’Europa Occidentale e quello del Québec (Canada) ne hanno condiviso la diagnosi; Giovanni Paolo II l’ha fatta sua per le Chiese di antica cristianità in Novo millennio ineunte (n. 40). Se il reclutamento sacerdotale della Chiesa latina, a partire dal secondo millennio e in particolare dal concilio di Trento, si rivolge a giovani celibi, ciò è dovuto in parte alle condizioni culturali ed ecclesiali di un mondo di cristianità.

Ammettere che tale condizione è superata, significa riconoscere i limiti di un reclutamento che corrispondeva a condizioni specifiche della Chiesa nella christianitas. Nei secoli della cristianità, dove lo spazio religioso tendeva a coincidere con quello civile, il clero era in una condizione che, nella società in simbiosi con la Chiesa, donava uno statuto giuridico e un ruolo sociale. Statuto e ruolo che andavano al di là – e talora a lato – della missione strettamente ministeriale al servizio della Chiesa e della sua missione.

Nessun rimbalzo prevedibile

A mio modesto avviso, è illusorio prevedere una ripresa significativa delle vocazioni presbiterali tenendo conto di diversi fattori. Qui ne ricordo tre che meriterebbero un’analisi più approfondita.

Vi è anzitutto il fattore socio-culturale, e cioè la consunzione della cristianità come regime sociologico in connessione con l’evoluzione socio-culturale della post-modernità e della mondializzazione.

Vi è poi l’evoluzione delle giovani generazioni: demograficamente i giovani sono molto meno numerosi in proporzione a soli 40 anni fa; nella loro evoluzione psico-affettiva non si troveranno più, come succedeva  allora, giovani 18enni che percepiscono l’astinenza sessuale come plausibile culturalmente parlando.

Dal punto di vista ecclesiale, i processi catechistici e la vita della comunità  sono centrati sulla crescita spirituale in termini di cammino personale e di esperienza di fede a iniziativa del singolo che costruisce in maniera dinamica – e talora dialettica – la propria identità. Il singolo deve, in questo senso, “diventare” cristiano – e possibilmente restarlo! – principalmente per sua iniziativa e non più anzitutto in ragione di una socializzazione sulla base di una religiosità civile; i giovani e gli adulti che “decidono” di diventare cristiani – e di restarlo – sono “in cammino”, mettendo in questione e approfondendo la loro esperienza, e talora ponendosi “in sospeso”; iscrivono la loro evoluzione religiosa in forma dinamica come una spirale e non in una prospettiva lineare ove tutto converge in una costruzione stabile della propria identità personale e cristiana.

Se, come ha detto Benedetto XVI, ci troviamo ormai in un cristianesimo di scelta, è ingenuo pensare, per la maggioranza delle persone, che la scelta avvenga all’uscita dall’adolescenza: la realtà ci mostra – in particolare nell’esperienza dei “ricomincianti” – che l’esperienza cristiana si spalma lungo una maturazione a tappe nel tempo. L’ora delle grandi scelte non è più fissata nel periodo degli studi superiori…

Questo non significa che non vi siano dei giovani capaci di rispondere a un appello per investire la loro vita a servizio del Vangelo, della Chiesa e della sua missione; ma essi sono e saranno assai meno numerosi di un tempo. Non credo che debba passare un decennio per consentire un dibattito aperto sulla questione, considerando che, con papa Francesco, se ne può parlare più liberamente. La sua recente intervista a Die Zeit è indicativa…».

–- La distinzione fra“«precarietà relativa” nel numero dei preti in una Chiesa locale e “precarietà assoluta” che cosa significa?

«È un distinzione che riprendo da due colleghi teologi francesi, sr. Marie-Thérèse Desouche, e il prof. Jean-François Chiron. In una diagnosi dei cambiamenti in corso in Francia, essi distinguevano nel 2011 due situazioni di penuria dei preti; da una parte, la “precarietà relativa” con un numero di preti minori di quanto si vorrebbe, ma con altre risorse, in particolare laici disponibili per l’animazione pastorale; e, d’altra parte, la situazione di “precarietà assoluta” dove il vescovo diocesano non potrà a breve “disporre del minino dei preti capaci di assumersi le missioni essenziali”. Cosa fare nell’uno e nell’altro caso? Ciò che può valere per la prima situazione non è detto che debba valere anche per la seconda.

Il mio libro è un invito a riflettere su una Chiesa che avrà meno preti. La realtà ci costringe a farlo, in Francia come in altri paesi dell’Europa Occidentale e dell’America del Nord. La diminuzione numerica dei preti si va accentuando in un certo numero di diocesi e anche in alcune provincie ecclesiastiche. In forme particolari, nei contesti rurali e lontani dalle città. In simili circostanze, si è già oltre la “precarietà relativa”; in certe diocesi ci si troverà ben presto in situazioni di “precarietà assoluta”. Con i due teologi ricordati credo che si imponga una sana presa d’atto del principio di realtà. Altrimenti si continuerà a peccare per accecamento… volontario!».

Uomini, non territori

– Sono stati messi in opera diversi tentativi per ovviare al venire meno dei sacerdoti. Potrebbe specificare qualche elemento per ciascuna soluzione?

«Prima di specificare alcune piste, vorrei sottolineare l’assioma che attraversa tutta la riflessione del mio libro: “La Chiesa è lì dove ci sono i battezzati; la parrocchia è lì dove ci sono i parrocchiani”. È di primaria importanza considerare anzitutto e prima di tutto la comunità ecclesiale; essa riceve, porta e trasmette il Vangelo annunciato, celebrato e testimoniato. Dobbiamo partire dal primato del “soggetto” ecclesiale al cui interno prendono il loro posto battezzati, pastori e altri ministri e, nella diversità delle loro vocazioni, carismi e ministeri.

Personalmente insisto sui battezzati “nella loro diversità” di percorso e di cammino dentro una Chiesa che si comprende come corpus permixtum, come amava dire sant’Agostino, dove ci sono, ad un tempo, fedeli ferventi, impegnati, occasionali, stagionali, militanti, mistici ecc. Ne vediamo i segni precorritori nel Nuovo Testamento, in particolare nei Vangeli, in cui insiemi diversi e diversificati di persone si riferiscono a Gesù di Nazareth, come la folla, gli anonimi in contatto con lui, i discepoli, i dodici apostoli e alcuni più prossimi come Pietro, Giacomo e Giovanni. Amo insistere sul carattere variegato, misto, meticciato del popolo di Dio per evitare la tentazione dei puri e la minaccia settaria. Ciò vale per ogni comunità ecclesiale, compresa la parrocchia. Le persone che si riferiscono in una maniera o in un’altra alla Chiesa, come quelle che vi si impegnano, lo fanno su basi motivazionali diverse, che determinano la loro identificazione o almeno il loro rapporto con la Chiesa cattolica. L’appartenenza ecclesiale è dinamica in termini di itineranza, di cammino, di percorso. Oggi più che mai. Ma ognuno è in cammino,  perché chiamato sempre alla conversione per diventare e restare cristiano. È dunque un lavoro di  fondo che dovrà essere messo in opera per nutrire e sviluppare la fede dei fedeli sostenendo e incoraggiando la testimonianza delle comunità nel loro ambiente rispettivo. Senza questa considerazione del soggetto primario della missione, cioè la comunità ecclesiale, ogni pista perde la sua consistenza e, soprattutto, pertinenza».

Coordinatori pastorali

E il ricorso ai laici come coordinatori delle équipes pastorali?

«Ci sono due ipotesi. Sia l’ipotesi in cui questi coordinatori assumano un ruolo di coordinamento del lavoro dell’équipe pastorale per favorirne la missione di collaborazione stretta nell’incarico pastorale del parroco, nella preparazione delle riunioni, nella loro animazione, nel loro seguito ecc.; sia la seconda ipotesi, in cui i coordinatori esercitano il loro ministero quando il parroco non c’è più nel senso proprio del canone 519, ma nel contesto delle formula di supplenza secondo il canone 517 § 2, di un prete “moderatore”, cioè responsabile del servizio pastorale ma senza essere parroco.

Nella seconda ipotesi, il coordinatore assume la funzione di direzione della vita e della testimonianza delle comunità interessate, gestendo l’impegno dei laici volontari e degli operatori pastorali (cioè eventuali stipendiati). In Francia numerose diocesi, non avendo più preti sufficienti per il ruolo di parroci per le unità pastorali o nuove parrocchie – nei due casi realtà che accorpano molti campanili –, hanno messo in campo questa nuova figura del coordinatore pastorale.

È una soluzione per far fronte alla penuria… ma, a breve termine, solleverà problemi perché, malgrado l’utilità del servizio dei coordinatori, si arriva alla frattura fra la direzione pastorale e la presidenza dell’eucaristia. Nella tradizione ecclesiale la presidenza dell’eucaristia tocca a colui che assume la presidenza della comunità e non l’inverso. L’eucaristia non è semplicemente per la soddisfazione delle devozione individuale, ma è l’azione attraverso cui la comunità ecclesiale prende forma come corpo di Cristo. La partecipazione o comunione al corpo eucaristico di Cristo dà luogo alla comunione o partecipazione al corpo ecclesiale di Cristo».

Preti stranieri

– L’incardinazione diocesana di preti dall’estero (prima dall’Europa dell’Est, ora dall’Africa e dall’Asia)…

«È evidente l’utilità del ricorso a questi preti: le diocesi ne hanno bisogno. Generalmente si inseriscono bene nelle comunità ove le loro qualità umane e sensibilità particolari per gli anziani li rendono simpatici. Sono ancora più apprezzati perché permettono la continuità  dell’eucaristia che, senza di loro, sarebbe ancora più rara. Ma non si possono negare i problemi di inserimento nel presbiterio e, da lì, nella realtà della diocesi, nella sua storia, cultura, usi e tradizioni ecc. La loro presenza richiede evidentemente il discernimento, ma domanda anche l’accompagnamento e la formazione. Poiché le diocesi non sono più in grado di darsi i loro preti autoctoni, a cosa fare attenzione ricorrendo a preti altri?

La prima questione è di sapere se la presenza di questi preti alloctoni contribuisce alla cattolicità delle nostre Chiese locali. Questo suppone la volontà di inserirsi in questo luogo, prendendo effettivamente parte alla realtà della diocesi e al suo destino. In quest’ottica va sottolineata la memoria della Chiesa locale: in quale misura potrà essere assunta da un clero alloctono sempre più numeroso? Bisogna fare affidamento sulla sua capacità di entrare pienamente nello spirito della Chiesa diocesana, di percepire ciò che caratterizza la sua originalità propria nel contesto più largo della cultura ambiente. Al di là della loro buona volontà e delle condizioni favorevoli al loro inserimento, questi preti – quanto meno quelli chiamati a restare stabilmente presso di noi – saranno e resteranno dei “meticci”, in parallelo agli altri immigrati; non del luogo e neppure estranei.

Necessario discernimento

Per questo è decisivo operare il discernimento necessario al loro inserimento, in particolare se si annuncia durevole, se non perpetuo. Tale discernimento non può dunque limitarsi alle qualità umane e spirituali dei preti stranieri. Dovrà verificare la loro attitudine a iscriversi in un nuovo universo culturale e, in particolare, sulla loro capacità di entrare nell’ethos democratico che caratterizza anche le nostre pratiche ecclesiali in Europa Occidentale. È necessario interrogarsi sul necessario radicamento di questi preti alloctoni nelle nostre diocesi per condividerne la memoria ecclesiale e promuoverne la cattolicità. Ma, nello stesso tempo, questi preti venuti da altrove, apportano per la loro parte propri carismi, specifici itinerari personali, cammini di fede, esperienze di Chiesa ecc. Detto in altre parole, radicati nelle nostre diocesi, essi contribuiscono allo scambio dei beni spirituali con i fedeli autoctoni, al loro arricchimento evangelico e alla comunione delle nostre diocesi con l’insieme della Chiesa. Papa Francesco ci ricorda con forza che la “diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa” (EG 117).

La seconda questione è dunque di sapere in quale misura le nostre comunità possono lasciarsi toccare e interpellare o trasformare dall’apporto di questi preti, ma anche, considerato il flusso migratorio, degli altri fedeli alloctoni. Una volta che questi altri fedeli, preti compresi, sono fra noi, come comunicare assieme a loro il Vangelo qui e adesso? È un vero “lavoro” analogo alla gestazione. È un lavoro di lunga durata, perché può portare frutti non in qualche anno e neppure in uno o due decenni.

Tenendo conto del già detto, l’apporto dei preti alloctoni deve aiutare a vivere “la conversione pastorale e missionaria” (cf. EG 5-27, 30-32, 97). È con loro che è necessario lavorare alla cattolicità della Chiesa locale, e in particolare al “noi” del presbiterio che non può più pensarsi in maniera divisa fra autoctoni e alloctoni. Davanti alla diminuzione di preti locali, l’accoglienza di questi preti da fuori non risolve da sola la precarietà delle diocesi. Queste devono favorire le condizioni per accogliere candidati locali al presbiterato».

Diaconi e religiose

– Investire sui diaconi come responsabili della cura pastorale territoriale?

«I diaconi non sono destinati ad sacerdotium, alla presidenza ecclesiale ed eucaristica (cf. i canoni 1008 e 1009 § 3). Vi è tuttavia una diversità di profili diaconali, in funzione dei bisogni della comunità; un certo numero di essi si colloca più facilmente in un profilo d’animazione delle comunità e di direzione della preghiera. Il Vaticano II non escludeva  questo ruolo dei diaconi in ragione del fatto che i padri conciliari avevano come modello i catechisti delle giovani Chiese per immaginare il ristabilimento del diaconato permanente. Similmente oggi non si deve escludere questa eventualità ma, se tutti i diaconi cominciano ad esercitare un ruolo di direzione, ci sarebbe da inquietarsi sulla tenuta del ristabilimento del diaconato permanente. Sarebbe teologicamente più coerente che dei cripto-presbiteri siano ordinati preti».

– Riconoscere una responsabilità pastorale alle religiose?

«Non lo escludo. Nei paesi dell’Europa del Nord il crollo delle vocazioni femminili “apostoliche” rende questa eventualità poco probabile. Secondo il carisma della loro congregazione, per esempio di sostegno alla pastorale parrocchiale, queste religiose  possono trovare il loro posto in un’équipe pastorale, eventualmente come coordinatrici dell’unità pastorale (vedi sopra). Sarebbe problematica una generalizzazione del ricorso alle religiose davanti allo scoglio già richiamato, e cioè la separazione  fra presidenza ecclesiale e presidenza eucaristica. Sottolineo che non è sufficiente “distribuire la santa comunione” come si fa nelle comunità latino-americane… Ciò che va salvaguardato è l’azione eucaristica nel suo insieme attraverso cui il popolo di Dio “prende corpo”, nel Cristo attraverso lo Spirito, attorno alla duplice tavola della Parola e del pane!».

– Perché ritiene credibile come soluzione “di eccezione” il ricorso ai “viri probati” e suggerisce di farlo prima dello sfinimento di una Chiesa locale?

«Penso che lungo i secoli la disciplina del clero celibatario si è generalizzata  dopo le decisioni del concilio Laterano III (1179) e IV (1215) e rilanciata dal concilio di Trento, epoca in cui c’erano ancora, nonostante la legislazione canonica, preti concubini. Il fatto di riservare il presbiterato ai celibi è stato il frutto di un approfondimento spirituale e pastorale del legame fra ministero e celibato: è un tesoro della Chiesa cattolica latina che può ancora mostrare tutta la sua ricchezza di senso: disponibilità professionale, dedizione più intensa ai fedeli, solidarietà con i celibi “forzati” dall’esistenza, espressione di un dono di tutta la propria persona per un attaccamento al Cristo, segno che Dio può riempire una vita, significato escatologico che rivela il carattere effimero dell’esistenza e anticipa la speranza di una pienezza di vita – Dio tutto in tutti – ecc. Un tesoro da valorizzare.

D’altra parte, Chiese o comunità ecclesiali non cattoliche riscoprono l’interesse e la portata di un ministero ecclesiale vissuto nel celibato. Sarebbe disdicevole che la Chiesa cattolica latina cambi la sua disciplina generale. Ma, in ragione di circostanze pastorali e soprattutto di bisogni effettivi di presidenza ecclesiale ed eucaristica, non si impongono per il bene delle anime – legge suprema nella Chiesa – delle possibili eccezioni? Anche se fossero numerose, esse rimarrebbero eccezioni mutatis mutandis, come, ad esempio, i numerosi matrimoni misti per disparità di culto che non sono la regola, ma frutto di un’eccezione per dispensa dalla legge ecclesiastica. Il numero di questi matrimoni oggi più frequenti non rimettono in causa il buon fondamento della regola.

“Viri probati”

Per il bene dei fedeli e delle loro comunità, si possono prevedere ragionevolmente delle eccezioni al celibato sacerdotale. Io mi auguro che il papa, attraverso ad esempio un motu proprio, possa dichiarare che non riserva più a se stesso la dispensa dell’impedimento al matrimonio e che dà la possibilità di accordarla alle Conferenze episcopali o alle provincie ecclesiastiche. Già nel suo discorso del 17 ottobre 2015 papa Francesco aveva detto che questioni disciplinari, secondo i bisogni della Chiesa locale, avrebbero potuto essere risolte dalle Conferenze episcopali.

Accordata la dispensa, i vescovi interessati potrebbero tracciare insieme i profili di uomini sposati che desidererebbero ordinare. In alcune diocesi particolarmente povere i vescovi si rivolgerebbero ai propri diaconi che già conoscono, e di cui apprezzano la fede e lo zelo pastorale. Ciò suppone un solido discernimento per non mettere fine al rinnovamento del diaconato permanente. È quindi molto importante che tutto questo sia discusso a livello di Conferenze episcopali o di provincie ecclesiastiche per evitare il caso per caso, con vescovi che presenterebbero direttamente a Roma i loro viri probati. Infine, fra il momento in cui il papa prende questa decisione e l’ordinazione del primo uomo sposato ci vorranno alcuni anni. Tempo utile per interrogarsi: di quale presenza di Chiesa abbiamo bisogno? Quale tipo di prete vogliamo e per quale missione nel mondo di oggi?… In breve, chiamare l’uno o l’altro uomo sposato all’ordinazione presbiterale pensando che un giorno sarà possibile, non dovrebbe avvenire a scapito di una riflessione generale sul senso della missione della Chiesa e del suo servizio di presidenza ecclesiale ed eucaristica.

Il padre H. Legrand scriveva già nel 1978: “intervenendo troppo tardi, con comunità più anemiche, quando gli strumenti formativi si sono rarefatti, una tale decisione rischia di rimanere inoperante”. E il collega aggiungeva: “una legge generale in merito non è l’ideale: l’analisi rigorosa delle situazioni locali sembra cristianamente e pastoralmente più prudente”. La mia proposta di affidare alle Conferenze episcopali la dispensa all’impedimento matrimoniale va precisamente in questo senso».

Donne preti

– Cosa si può dire, stando al magistero e alla coscienza ecclesiale di oggi, sull’ordinazione delle donne?

«È un tema “inevitabile”: proteggersi con la categoria del “definitivo” può dare l’impressione che la Chiesa sia intellettualmente incapace di pensare le condizioni della sua missione. Le mutazioni antropologiche in corso – l’uguaglianza dei sessi è diventata una sorta di “virtù cardinale” – sollecitano l’esperienza cristiana e la sua capacità di reinterpretare se stessa a contatto col mondo ambiente. La teologia non è stata una ripetizione di verità assestate e a-temporali, ma dialogo e reinterpretazione costante con la società coeva.

Un dialogo non sempre onorato; la storia della teologia attesta, purtroppo, l’esistenza di periodi di “ripetizione autoreferenziale” di affermazioni dottrinali. Questo non è senza conseguenze quando si tratta di pensare teologicamente di nuovo l’ordinazione di donne cristiane. Ne va non solo della credibilità della teologia, ma della capacità della comunità ecclesiale di ripensarsi nel mondo di oggi. Il dibattito sull’eventualità dell’ordinazione deve (o dovrà) affrontare anzitutto l’androcentrismo ambientale, le tracce della discriminazione patriarcale legate alla differenza e soprattutto alla subordinazione sessuale delle donne. È tempo di impegnarsi in una critica – teorica e pratica – dell’androcentrismo e delle sue conseguenze nella vita ecclesiale.

La seconda tappa della riflessione teologica in materia è di considerare i diversi argomenti portati per negare l’ordinazione di donne cristiane e soprattutto i loro presupposti ermeneutici. La Chiesa non si ritiene “autorizzata” a cambiare la sua posizione…, ma una considerazione serena, posata, riflessa dei presupposti argomentativi portati, aprirà la via ad un più equilibrato apprezzamento in materia. Nell’immediato il sacerdozio resta riservato ai maschi. Per il nostro intento, non vi è a breve alcun rimedio alla carenza di preti esplorando l’eventualità dell’ordinazione delle donne.

Le donne costituiscono, tuttavia, la grande maggioranza dei laici che portano quotidianamente la testimonianza del Vangelo. Anzi, sul piano dei servizi indispensabili alla missione della Chiesa, esse rappresentano un corpo importante di collaboratrici pastorali. La loro collaborazione è legata alla loro personalità, gusti e affinità, esperienza di vita, storia personale e non solo al loro sesso, qui inteso come genere (o “sesso sociale”), né alle caratteristiche culturali (stereo)tipiche della femminilità.

Il loro contributo non si riduce alla pretesa natura “femminile” di compiti e responsabilità loro consentite. Certo, si riconosce loro un tipo di leadership più dinamica perché più relazionale, trasformatrice, capace di coinvolgere emotivamente attraverso l’attenzione, la disponibilità, la gratuità, l’empatia, ma anche attraverso la capacità di costruire l’insieme e di tessere legami. La loro leadership più interattiva incoraggia la partecipazione e favorisce la risoluzione dei conflitti. Nell’attuale contesto di cambiamento e in funzione di un’ecclesiologia partecipativa non è forse questo lo stile di leadership più atteso? Tutto questo ci riporta al dato fondamentale della corresponsabilità battesimale di tutti alla missione».

Oltre la paura

– In ordine a possibili scelte future quanto può pesare il tradizionalismo, l’ecclesiocentrismo e il clericalismo?

Riflettendoci bene, mi sembra che il denominatore comune di questi tre atteggiamenti che attraversano la vita ecclesiale sia la… paura!

Anzitutto il tradizionalismo. È la paura di affrontare con fiducia il presente, cioè il tempo che ci è dato da vivere, concretamente, la presenza di Dio nel mondo d’oggi. Non c’è ragione di pensare che il Dio cristiano – il Dio di un popolo abramitico – sia oggi meno fedele di un tempo.

L’ecclesiocentrismo è la paura di affrontare la presenza del mondo dentro il quale la Chiesa è chiamata ad annunciare le meraviglie della salvezza, paura di entrare in dialogo con l’oggi, di apprendere dai nostri contemporanei per cercare e scoprire con loro le tracce del Regno; è anche la paura di uscire, la paura di vivere il nostro DNA, cioè la missione. Come dice papa Francesco, la Chiesa non ha il suo fine in se stessa!

Il clericalismo, infine, è segnato anch’esso dalla paura: quella dei laici, la paura di perdere il potere, la paura di lasciarsi interpellare o rimettere in questione, la paura di camminare umilmente con i nostri fratelli e le nostre sorelle nella fede, come anche di lasciarsi ammaestrare da loro, dal sensus fidei fidelium. In sintesi, la paura di essere un battezzato come gli altri, all’ascolto della Parola, mendicante del pane eucaristico, nutrimento di tutto un popolo in cammino!

– Il modello di esercizio del ministero presbiterale si concentra sempre di più sul parroco. Potrebbe diversificarsi?

«La diversità è sempre esistita. Non va pensata “in sé”, ma in funzione delle comunità, cioè sulla disposizione della Chiesa locale – in questo luogo – attraverso una pluralità di comunità. E anzitutto la parrocchia: essa garantisce per gran parte la visibilità della Chiesa locale; è la “casa aperta”, la “fontana per tutti”, l’“ovile” per chiunque arriva. Il ministero in parrocchia, più chiaramente che nei movimenti e nelle associazioni, ci mette in contatto con le persone che non abbiamo scelto, che ci sono state affidate, così come sono e non come vorremmo che fossero (o come le sognerebbe il movimento). Come dice François Moog, un collega pastoralista di Parigi, essa è il “privilegio concesso ai poveri”: chiunque è “da qualche parte” e per il fatto stesso che è “da qualche parte” può essere a casa sua, così nella Chiesa in virtù del semplice domicilio.

La parrocchia non è certo il solo luogo per fare parte dell’Evangelo annunciato, celebrato e testimoniato. Papa Francesco ci ricorda: “La parrocchia non è una struttura caduca” (EG 31). L’istituzione parrocchiale si ricompone in nuove figure. Ma, come nel passato, bisogna anche contare sulla presenza e sull’irradiamento di altre realtà di Chiesa che, per la loro parte, permettono alla Chiesa di realizzarsi in un luogo: santuari, istituzioni scolastiche, ospedali, cappellanie ospedaliere, del carcere, scolastiche e altre, media cattolici, centri di formazione, monasteri e abbazie ecc. Diversamente dal passato, queste realtà ecclesiali sono talora la porta per un primo o abituale accesso alla vita della Chiesa e al tesoro della fede.

Sono luoghi che non escludono la parrocchia che mantiene la sua originalità, ossia la territorialità e cattolicità. Ma oggi, più di ieri, soprattutto nelle città, è in questi luoghi che i nostri contemporanei, sul filo delle vicende della vita, scoprono qualche cosa della ricchezza del Vangelo, camminano assieme ad altri credenti e professano la fede della Chiesa. Questi luoghi vanno compresi dentro lo spiegamento plurale dell’annuncio del Vangelo in una Chiesa locale. Tocca all’autorità episcopale in ragione del suo ministero d’unità promuoverne e garantirne l’articolazione, o meglio la comunione fra le diverse realtà ecclesiali.

Di passaggio, va detto che non sfugge a nessuno come queste altre realtà ecclesiali non possano contare su preti numerosi come nel passato. Ma l’esperienza ci insegna che, nella maggior parte di esse, i fedeli che vi partecipano contribuiscono personalmente alla loro vitalità e sviluppo. I preti sono ancora riconosciuti  nel loro ruolo: essi le mettono in relazione con il resto della diocesi in virtù della loro appartenenza al medesimo presbiterio, presieduto dal vescovo».

carenza di preti

Pulpito di Donatello e Michelozzo – Duomo di Prato

Prima l’annuncio

– L’urgenza dell’evangelizzazione e delle decisioni in ordine al futuro può sostenere una discussione coraggiosa e libera sul ministero ordinato?

«Oltre l’irradiazione mediatica e magisteriale di papa Francesco, ci si può domandare se le Chiese locali e i loro pastori siano sufficientemente coscienti dell’indispensabile discernimento per trovare nuove vie alla missione. Ho l’impressione che ci si senta rassicurati ascoltando il papa, ma che non si prendano sufficientemente sul serio le condizioni della missione, le domande dei nostri contemporanei “dimoranti fra noi”, le esigenze concrete del divenire “discepoli-missionari” (EG 120). Ciò che è determinante nell’intenzione del mio libro non sono le soluzioni o le ricette per fare la stessa cosa con meno preti, ma di coinvolgere l’intrinseca natura di tutta la comunità ecclesiale.

L’urgenza dell’evangelizzazione apre una discussione coraggiosa sulla missione. Abbiamo certo bisogno di preti. Ma per quale\i missione\i? Il testo suggerisce una seconda questione altrettanto essenziale: preti sì, ma per quali comunità? Questo interroga la Chiesa e la testimonianza dei battezzati nel mondo di oggi. Davvero dobbiamo preoccuparci della carenza di preti? Non dobbiamo forse inquietarci della comunicazione del Vangelo, nel senso letterale del termine (essere o restare senza riposo, e dunque senza tregua)? È un’inquietudine che dobbiamo vivere nella folla di un immenso corteo di testimoni – di “discepoli-missionari” – che, al seguito di Paolo, non hanno cessato di dire: “Guai a me se non annuncio il Vangelo!”.

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