Cristianesimo alla Peter Pan

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Leggere i saggi teologici di Armando Matteo, presbitero della diocesi di Catanzaro-Squillace dal 1997, docente di Teologia fondamentale alla Pontificia Università Urbaniana di Roma e neo sottosegretario aggiunto della Congregazione della dottrina della fede, è sempre un grande piacere.

Non solo perché la sua è una scrittura scorrevole ed elegante, a tratti financo spiritosa, ma soprattutto perché le sue analisi della situazione ecclesiale nella quale ci tocca vivere e le sue proposte colgono nel segno e sono ampiamente condivisibili: esplicitano in termini chiari ciò che molti pensano, ma non riescono sempre a dire.

L’ultimo suo libro, pubblicato dalla casa editrice milanese Àncora, vien voglia di leggerlo anche solo a causa del titolo intrigante, Convertire Peter Pan – Il destino della fede nella società dell’eterna giovinezza.

La “sindrome di Peter Pan”

A tutti sarà capitato e capita, di tanto in tanto, di incontrare adulti che si comportano come bambini. La chiamano ”sindrome di Peter Pan”.

Traendo spunto dal personaggio di Peter Pan creato dallo scrittore e drammaturgo britannico James Matthew Barrie, ne ha parlato, per primo, nel 1983 lo psicologo americano di scuola junghiana Dan Kiley nel suo libro The Peter Pan Syndrome: men who have never grown up, tradotto in italiano dalla Rizzoli nel 1985 con il titolo Gli uomini che hanno paura di crescere.

In lingua inglese viene usato un termine molto esaustivo per definire chi soffre della sindrome di Peter Pan: “manolescent”, una fusione fra “man”, uomo e “adolescent”, adolescente, che indica l’attitudine di un adulto a rifiutare l’avanzare della propria età, non tanto dal punto di vista anagrafico, quanto più da quello legato al proprio stile di vita.

La “sindrome di Peter Pan” descrive bene l’atteggiamento di chi vive un’eterna fanciullezza, rifiutandosi di crescere, di assumersi responsabilità, di fare delle scelte. Al posto di individui maturi, abbiamo a che fare con strani bamboccioni ripiegati su se stessi, egolatri e narcisisti, cinici e manipolatori: non vogliono l’uscita dalla minorità, non ritengono di doversi impegnare più di tanto per partecipare alla costruzione del bene comune, non credono alla possibilità di creare un mondo migliore e più giusto, considerano pure illusioni le grandi mete, non desiderano legami a lungo termine, si guardano continuamente allo specchio sino a non essere in grado di rivolgere gli occhi verso gli altri e verso il mondo…

Chi ne è colpito finge di essere grande, ma in realtà si comporta come un bambino viziato e senza regole, perché queste non gli sono mai state insegnate o inculcate.

La “sindrome di Peter Pan” colpisce gli uomini, ma non ne sono esenti le donne: uomini e donne – scrive Matteo – della post-modernità che vivono e respirano a pieni polmoni «l’inedita ed eccitante libertà» di essere liberi e di essere unici (p. 14), «adulti senza trascendenze, senza verità, senza limiti, senza morale e senza politica» (p. 43) che «imbecillemente vivono pensando che fuori della giovinezza non c’è salvezza» (p. 57). Adulti che, non sapendo più educare e trasmettere valori (p. 72), vengono meno al loro compito generativo e generazionale. «Peter Pan non solo non vuole crescere. Peter Pan non fa più crescere nessuno» (p. 65).

I cristiani adulti “alla Peter Pan”

Con riferimento alla situazione ecclesiale (non solo) italiana, la “sindrome di Peter Pan”, secondo Armando Matteo, sta facendo strage tra chi oggi ha un’età compresa tra i quaranta e i sessant’anni, cioè tra la fetta di popolazione adulta più numerosa. Secondo i dati stimati dall’Istat relativi alla popolazione italiana residente al 1° gennaio 2021, infatti, gli adulti di età compresa tra i 35 e i 64 anni sono circa 25,6 milioni, a fronte di una popolazione complessiva di 59 milioni e 258 mila.

È proprio tra questa fetta di popolazione che sono rinvenibili gli adulti – uomini e donne – che «hanno smesso, in larghissima maggioranza, di ritenere la comunità cristiana il luogo dove poter trovare risposte pertinenti alle loro domande di senso», frequentandola rarissimamente, per lo più in occasione di battesimi, matrimoni e funerali, con apparizioni fugaci a Natale e a Pasqua e soprattutto quando si tratta di iscrivere il figlio «alla scuola (sic!) del catechismo» (p. 59). Ed è quella adulta «la quota di popolazione che, nel corso del tempo, ha dismesso con maggiore incisività la pratica della preghiera» (p. 29) che è il respiro della fede.

Sono questi adulti anagrafici e bambini di fatto che sembrano «aver trovato solo nel mito dell’eterna giovinezza l’unica religione in grado di rispondere alla domanda di senso» (p. 14). E la domanda di senso più che nella responsabilità sociale e nella pratica religiosa pare trovare risposta adeguata «nella movida, nel campionato di calcio, nelle discoteche, negli aperitivi serali e negli impianti sciistici e balneari» (p. 23).

Armando Matteo condivide l’opinione di chi ritiene che la presenza massiccia di cristiani peterpanici vada attribuita non tanto ad influenze esterne come la secolarizzazione (p. 20), ma al «cambiamento d’epoca», di cui parla con insistenza papa Francesco. Un cambiamento d’epoca che, da un lato, segna la fine di un capitolo della storia del cristianesimo, dall’altro, costringe a prendere atto che è tempo di dare volto e forma ad un cristianesimo nuovo, mettendo un vestito nuovo a quel Corpo di Cristo che è la Chiesa (p. 16).

«Se la Chiesa non trova una parola per gli adulti e per le adulte, non ne avrà mai una a disposizione per i giovani e le giovani» (p. 52). La sfida più grande che da tempo il cristianesimo ha davanti a sé «è quella di trovare una parola di Vangelo per l’adulto di oggi. Per l’adulto postmoderno» (p. 14). Non è una questione di oggi, ma una questione che oggi non può più essere rinviata (p. 24). Ne va di mezzo la trasmissione generazionale della fede (p. 74).

L’autentico vuoto delle chiese non è quello causato dalla pandemia da covid-19, ma piuttosto quello determinato dall’assenza di relazioni significative della Chiesa con il mondo adulto (p. 67), da quell’«autentico gap di comunicazione tra universo adulto e comunità cristiana» che impedisce all’attuale azione pastorale «di far rilucere la grazia del Vangelo come a tutti disponibile per una vita umana pienamente fiorita e compiuta» (p. 95).

Il saggio di Matteo «mira ad offrire una possibile forma di inculturazione della fede cristiana dentro le pieghe e le piaghe di questo nostro tempo postmoderno, profondamente segnato da un radicale cambiamento dell’essere al mondo della popolazione adulta, trasfiguratasi sempre più a immagine e somiglianza di Peter Pan» (p. 108).

L’Opzione Francesco

In presenza di questa situazione, due sono i passi da compiere, da parte delle comunità dei credenti, per riavvicinare «universo della fede cattolica e universo degli adulti contemporanei»: definire compiutamente il profilo degli adulti che ci mancano e attribuire nei fatti assoluta importanza alla conversione della mentalità pastorale, richiesta con insistenza da papa Francesco, che ha la portata di un’autentica rivoluzione copernicana del nostro essere e fare Chiesa oggi (p. 56).

Armando Matteo non ritiene che gli adulti che ci mancano siano i cosiddetti “credenti non praticanti”. Accettare questa convinzione, «alla fine dei conti, dispensa i credenti e i loro pastori dall’assumere un rinnovato atteggiamento missionario» e «alimenta una strategia di attesa che fa sì che tutto rimanga inalterato nel nostro progettare e agire pastorale» (p. 63). Gli adulti che oggi non ci sono più nelle nostre comunità sono i «diversamente credenti non praticanti», cioè i credenti nel dio della giovinezza, adulti alla Pater Pan, che considerano irrilevanti le aperture al divino, non necessarie le ricerche di una verità unica o di un’unica verità, inarrestabili i processi tecnologici che sottraggono terreno a ciò che il linguaggio classico definiva “natura”, trascurabili le istanze etiche, anacronistico ogni tentativo di concepire la politica come strumento indispensabile per la costruzione del bene comune.

Per far fronte alla crisi ecclesiale, «iniziata da almeno quattro decenni», dovuta all’assenza «di relazioni significative della Chiesa con il mondo adulto» e per avviare una vera conversione della mentalità pastorale che metta al bando ogni furbizia gattopardesca, il prof. Matteo sottolinea l’urgenza di assumere quella che chiama Opzione Francesco (p. 67), la quale ha tre colonne portanti: riconoscere il nuovo contesto culturale nel quale ci troviamo a vivere; ammettere senza risentimento la fine della cristianità; accettare con coraggio la necessità di un nuovo paradigma pastorale (p. 69).

I credenti e le Chiese devono non solo lasciarsi interrogare dalle sfide poste dal cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, ma soprattutto impegnarsi a coglierle con le virtù del discernimento, del coraggio, della pazienza e della perseveranza (p. 72).

I credenti e le Chiese devono poi accettare che non siamo più in un regime di cristianità. Le popolazioni che non hanno ancora ricevuto l’annuncio del Vangelo non vivono solo nei cosiddetti “paesi di missione”, ma anche nel nostro mondo occidentale. L’adulto peterpanico ha mandato definitivamente in soffitta la cristianità.

Questo aspetto dell’Opzione Francesco mette in luce che le attuali forme di trasmissione della fede, l’azione concreta dell’intera vita parrocchiale e la mentalità pastorale vigente, in quanto legate all’epoca della cristianità e ad una sensibilità dell’umano tipica del tempo della cristianità, non sono più idonee a rivestire con un vestito nuovo quel corpo di Cristo che è la Chiesa, di modo che la parola del Vangelo che i credenti custodiscono come tesoro prezioso possa apparire veramente a disposizione di chiunque, nella sua bellezza e nella sua grazia (p. 55).

Il terzo e decisivo elemento dell’Opzione Francesco è costituito dall’urgenza di una conversione della mentalità pastorale. «Serve una mentalità pastorale nuova che non faccia mancare agli uomini e alle donne del nostro tempo ciò di cui hanno più bisogno: Gesù e il suo Vangelo. Si tratta concretamente di trovare un modo nuovo per far sorgere nel cuore degli adulti attuali un rinnovato desiderio di Gesù e del suo Vangelo» (p. 78).

Dalla consolazione alla mitezza

La conversione della mentalità pastorale potrebbe – secondo Armando Matteo – prendere forma con il passaggio da un cristianesimo della consolazione a un cristianesimo della mitezza.

Ai tempi in cui «vigeva una riuscita sintonia tra il senso dell’umano della vita e le forme storiche della religione cristiana», gli operatori ecclesiali hanno saputo offrire luce, speranza e incoraggiamento a intere generazioni di uomini e donne obbligati a «far fronte al duro mestiere di vivere, senza cadere sotto il peso della frustrazione e del risentimento» (p. 81). Lo hanno fatto grazie alla “pastorale della consolazione” (p. 81) che metteva in luce «un’immagine del cristianesimo profondamente assestata sui temi dell’aldilà e del giudizio finale, sull’imitazione di Cristo sofferente e sull’esaltazione della prontezza con la quale Maria obbedisce a Dio, sul senso della colpa e del peccato – originale e personale – e sul precetto: cose tutte che hanno portato in non pochi casi pure a deformare il volto di Dio stesso, così come ce lo ha rivelato Gesù» (p. 82).

Tramontata la cristianità, credenti e Chiese devono riuscire a trovare forme di collegamento tra il cristianesimo e la domanda di senso degli adulti e delle adulte di oggi e a individuare nuove sintonie tra modo attuale di vivere e rinnovate proposte di fede cristiana, mettendo al centro di ogni azione pastorale «la consegna amorosa di Gesù», “mite e umile di cuore” (Mt 11,29), e del suo Vangelo (p. 83).

Passare da un cristianesimo della consolazione a un cristianesimo della mitezza è la proposta del prof. Matteo che è, peraltro, profondamente consapevole che «ogni stagione e ogni forma concreta di inculturazione del Vangelo non ne potrà mai esaurire completamente la bellezza e la profondità» (p. 108).

Ad imitazione di Gesù, un cristianesimo della mitezza lascia essere l’altro per quello che è, creando lo spazio per una relazione veramente libera e liberante (p. 86), partecipa ed è in sintonia con chi è colpito dalla sofferenza e dal dolore (pp. 87-88), non permette che l’odio o la violenza spengano l’amore (p. 90), non incoraggia nessuna forma di remissività di fronte alla prepotenza del male, anticipa la possibilità di un mondo diverso dove la gentilezza dei costumi è pratica universale, apre ad un modo diverso di abitare la terra (p. 91), può scatenare dentro gli adulti «quel carattere samaritano del DNA spirituale della specie umana» (p. 104) che permette loro di «sedere nel consesso degli umani» negato a chi è capace di amare solo se stesso (p. 105).

È «con le risorse che la virtù della mitezza mette a nostra disposizione e che brillano in Gesù in tutta la loro forza» che, come credenti, possiamo «andare incontro alla domanda di senso che abita gli adulti contemporanei» (p. 92).

La pastorale che serve è questa: «agire in modo tale che ogni gesto posto in atto dai cristiani, singolarmente o insieme, diventi occasione, per chiunque, di incontrarsi con il Risorto e innamorarsi di lui, ricevendo la grazia di potersi finalmente spogliare dell’uomo vecchio, come dice san Paolo. Di potersi finalmente spogliare di Peter Pan e rinascere da buon samaritano, aggiunge chi scrive» (p. 105).

Cose che si possono fare subito

Il saggio di Armando Matteo si conclude, elencando «dieci cose che si possono fare subito» per dare fisionomia al «sogno di una Chiesa per gli adulti e le adulte di oggi» (p. 110).

Ne voglio richiamare solo due che a me sembrano di straordinaria importanza.

Primo. Dal momento che nessuno può diventare cristiano senza conoscere il modo concreto con cui Gesù ha visto e apprezzato la realtà, aprendovi uno spazio di salvezza e di piena fioritura dell’umano nel segno dell’amore ricevuto e donato, ogni comunità parrocchiale è chiamata a diventare «casa e scuola di lettura della Parola e casa e scuola di preghiera». Il Vangelo e la pratica della preghiera sono la «cosa migliore» che credenti e Chiese possono e devono dare «a chiunque si accosti all’universo ecclesiale» (p. 115).

Secondo. «Depressi perché credenti o credenti perché depressi?» (p. 122). La domanda è intrigante. «Oggi – scrive Matteo – quando si pensa a temi come la gioia, la festa, il godimento, nessuno quasi più pensa al mondo della Chiesa e della religione». Raccontare di un Dio e di una fede senza gioia e senza festa alimenta la considerazione diffusa per la quale la festa e la gioia si debbono vivere lontano da dove Dio abita. «In breve, un Dio che continua a essere celebrato senza gioia dà luogo alla corrente convinzione che la gioia sia da celebrare proprio senza Dio» (p. 123). Un cristianesimo fatto di mitezza è un cristianesimo fatto di gioia, di quella gioia che nasce quando si incontra il Risorto. Papa Francesco, nell’Angelus del 13 dicembre 2020 l’ha detto con chiarezza: «La gioia deve essere la caratteristica della nostra fede… Se la fede è triste, è meglio non averla» (p. 124).

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3 Commenti

  1. Marco Ansalone 24 ottobre 2021
  2. Fabio Cittadini 23 ottobre 2021
  3. Giuseppe 22 ottobre 2021

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