Di fronte alle proprie colpe

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Chi è in carcere lo è perché è ritenuto colpevole. Ma come si pongono i carcerati di fronte alla loro colpa? Che valore ha per loro il perdono e che cosa fanno quando non riescono a riparare lo sbaglio commesso? Sono domande che Johanna Heckeley ha posto in un intervista per katholisch.de (07.11.2017) – che qui riprendiamo – ad Axel Wiesbrok, referente pastorale e attualmente cappellano nella struttura carceraria Heidering di Berlino.

i carcerati di fronte alla loro colpa

Lei come cappellano delle carceri parla regolarmente con coloro che sono in prigione. C’è in loro il desiderio del perdono?

I carcerati vengono da me a colloquio con molti desideri, di vario genere. Dietro a questi desideri si cela spesso anche quello del perdono, spesso tuttavia basato su ragioni diverse: a volte proviene dal cuore; talvolta dal voler salvare determinate forme oppure anche per cercare una scusa per se stessi. Qualche volta esprimono anche il desiderio di prendere contatto con la vittima del loro reato.

Come reagisce lei a questi desideri?

Io sono molto riluttante e sconsiglio al carcerato di prendere contatto diretto con la vittima. È infatti una cosa abbastanza complicata che non ha necessariamente una prospettiva di successo: ci sono molte cose in gioco, come le emozioni o i vecchi conflitti così che un eventuale incontro potrebbe risolversi piuttosto in una terribile delusione per tutti gli interessati.

Quale alternativa ha il colpevole quando cerca il perdono?

Io credo che sia più importante prima di tutto che i colpevoli si confrontino con ciò che hanno commesso. Devono riflettere come vogliono gestire questo problema. È un compito difficile per il quale occorre prendersi molto tempo. E ciò ha inizio molto prima del problema della colpa. Molti sono in senso vero e proprio costernati perché sono finiti in questa situazione e anche ne soffrono.

Ma i carcerati sono stati condannati per essere stati ritenuti colpevoli.

Meglio dire: sono stati condannati perché è stata riconosciuta loro una colpa. Ma ci sono alcuni che all’inizio la rifiutano, per esempio, perché non vogliono esporsi alla situazione e negano l’accaduto anche a se stessi. Molti sono anche spaventati per le conseguenze provocate dalla loro azione. Per quanto riguarda il problema della colpevolezza, e quindi anche per chiarire la domanda del perdono, devono anzitutto far chiarezza con se stessi. Devono giungere a capire di essere stati capaci di commettere quell’azione e riconoscerne la realtà. È infatti qualcosa di profondamente umano, quando ci si è comportati così, spaventarsi solo dopo. Nei carcerati non è diverso. Molti sono davvero sconcertati per essersi trovati in quella situazione e ne soffrono. Mi ricordo ad esempio un carcerato che per il vizio della droga aveva strappato la borsetta dalla mano a una anziana signora per rubarle il denaro. Mi ha raccontato che di notte faceva fatica a dormire perché di continuo gli risuonavano dentro le grida di quella donna.

E dopo come procedono le cose?

È diverso naturalmente da uno all’altro. Ma nella maggior parte dei casi il confronto con se stessi comincia con la domanda del perché si è fatta quella cosa. Poi si tratta di sviluppare la possibilità di perdonare se stessi. Soltanto così infatti uno può giungere ad ammettere di essere stato capace di un’azione così detestabile. Chi non compie questo passo rimuoverà molti aspetti oppure non li vorrà riconoscere. Ma perdonare se stessi è il presupposto per i passi ulteriori. Solo allora forse si potrà pensare ai danni o a ripararli.

Si tratta soprattutto di riparare un reato?

Non ne sono affatto sicuro. Trovo questi sforzi altamente problematici; spesso è un affronto alla vittima poiché ciò significa avere un nuovo contatto con l’autore del reato. In situazioni del genere si può giungere molto in fretta a far rivivere il trauma. Ci sono dei casi in cui i carcerati mi dicono che incontrerebbero volentieri la vittima. Ma la protezione di quest’ultima viene prima. Bisogna che nella preparazione sia chiaro prima di tutto se la vittima ne è interessata. Questo desiderio del perdono e della riparazione può inoltre apparire cinico agli occhi della vittima. A chi infatti ha vissuto degli avvenimenti drammatici non si può chiedere di perdonare. Il perdono sarebbe certo l’ideale, come insegna anche la Bibbia. Ma io non avrei il coraggio di spingere una vittima a volerlo dare.

La riparazione tuttavia spesso è ciò che molti esigono, oltre alla punizione

Si, la riparazione nell’opinione pubblica è un tema importante quando si tratta di un delinquente. Anche la punizione inflitta da molti viene intesa come un riconoscimento della sofferenza della vittima. Ma, come detto, molte cose non si possono riparare. E a volte non è possibile il perdono da parte della vittima o dei parenti, perché rifiutano il contatto o perché sono morti. Perciò l’unica possibilità per chi ha commesso il reato consiste nel purificare se stesso. Non bisogna tuttavia intendere ciò falsamente: non si tratta di dire che tutto non è stato poi così male. I colpevoli devono trovare il modo di andare avanti nella vita convivendo con il peso dell’azione commessa, accettandola come parte della loro realtà.

Come vive lei il momento in cui un carcerato può esperimentare il perdono?

Io accompagno il carcerato spesso per un lungo tempo. Ma se uno possa alla fine parlare di perdono non è mai possibile prevederlo. A volte capitano effettivamente questi attimi luminosi in cui posso osservare che uno prende coscienza e comincia ad essere più autentico. È una cosa buona. Io sono del resto profondamente convinto che il desiderio del perdono e il modo di rapportarsi con la colpa o il fatto di essere colpevole non è diverso guardando a chi è dietro i muri della prigione e a chi è fuori. Forse c’è una reale difficoltà umana a riconoscere la nostra realtà.

Lei in che modo accompagna i carcerati su questa strada?

I carcerati naturalmente non vengono a dirmi: «parliamo un po’ della mia colpa». Ci arriviamo più lentamente, per esempio fumando una sigaretta. Quando i carcerati parlano con me non c’è nessun protocollo. Il nostro dialogo non ha nessun significato per i loro fascicoli. Il mio compito come pastore d’anime è che ambedue, cioè chi mi sta di fronte e io stesso, possiamo sentirci ed essere come siamo. Io non li giudico ma cerco di capirli. In questo, io anzitutto ascolto e faccio delle domande quando nel racconto c’è qualcosa che mi colpisce. Io concepisco il mio ruolo particolare come quello di uno che stando di fronte all’altro mette a disposizione il suo ascolto come uno specchio. Si svolge un dialogo in cui ci si rivela vicendevolmente. Si apre una comprensione. Non c’è un obiettivo da raggiungere; in definitiva io non sono un terapeuta. Anch’io del resto ricevo molto dai dialoghi e scopro i miei stessi abissi personali.

Che ruolo ha la fede in questi dialoghi?

La fede è effettivamente importante. I carcerati mi percepiscono come un “uomo di Dio”: mi riconoscono nella messa in istituto e ascoltano l’annuncio la parola di Dio. Ma coloro che vengono da me sono alla ricerca, in senso ampio, anche di qualcosa come Dio. Sono religiosi esteriormente e hanno la speranza che succeda qualcosa che metta tutto a posto. Ma si tratta spesso di forme di fede molto vaghe. Io troverei difficile rapportarle a una religione. Il mio desiderio è di far sentire l’amore di Dio. Forse a volte riesce meglio nel contatto con me in carcere, in un clima di apertura e di benevolenza, sentirne il soffio, percepirlo e sperimentarlo. In teologia ho imparato che l’uomo è buono. Lo costato continuamente nel mio lavoro. Io in carcere non ho ancora trovato nessun individuo che sia fondamentalmente cattivo.

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