La leadership nella Chiesa /7

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Per chi è chiamato a ruoli di leadership nella Chiesa l’umiltà, unita al coraggio dell’obbedienza a Dio, diventa un farmaco che immunizza dal potere.

Quando, all’interno di un’organizzazione, qualcuno cerca di fare carriera e di conquistare un ruolo di maggior prestigio non nel quadro di una sana competizione incentrata sulle capacità di ciascuno ma servendosi della compiacenza, della manipolazione e dell’inganno, suscita un senso di irritazione nelle persone che gli vivono attorno.

Questo tipo di dinamiche sono ben presenti anche nel contesto ecclesiale, e sin dall’inizio. Ad esempio, in Mc 8,41 si parla dello sdegno degli apostoli nei confronti di Giacomo e di Giovanni che avevano cercato di arrivare a sedere alla destra e alla sinistra di Gesù nel suo regno scavalcando gli altri discepoli.

Tra umiltà e obbedienza

Forse vicende di questo genere non sono evitabili, dal momento che sono imputabili non solo a scelte peccaminose dei singoli, ma anche ai limiti delle loro personalità, che non sempre si riescono a controllare con i tradizionali mezzi spirituali.

Se si ha un forte bisogno di ammirazione e di potere per sentirsi bene, e magari non si è neppure del tutto consapevoli di questa esigenza patologica, probabilmente si finirà per imitare i due apostoli carrieristi, e per cercare in ogni modo di diventare persone sempre più importanti, fuori e dentro le comunità cristiane.

Non di rado, però, si pone anche il problema contrario, quello cioè di individui che sono ritenuti adatti a svolgere un determinato compito di leadership, ma che si tirano indietro e non accettano di assumerlo perché non si sentono all’altezza. In casi del genere, la soluzione più ovvia sembra essere quella di cercare di convincere l’interessato a non abbattersi, a mettere da parte il suo senso di inferiorità, e a riscoprirsi come pienamente adeguato al compito che gli è stato proposto.

Ancora una volta Gregorio Magno ci offre una lettura originale del modo di gestire il rifiuto di assumersi incarichi di responsabilità. Nella Regola Pastorale scrive: «Ci sono poi alcuni che rifiutano [il ministero] solo per umiltà, cioè per non essere preferiti a coloro ai quali si stimano inferiori. La loro umiltà, se si circonda anche delle altre virtù, è certamente vera agli occhi di Dio, se essa non si ostina a respingere ciò cui le viene ordinato di sottomettersi come cosa utile. Non è veramente umile, cioè, colui che capisce di dovere stare alla guida degli altri per decreto della volontà divina e tuttavia disprezza questa preminenza. Se invece è sottomesso alle divine disposizioni e alieno dal vizio dell’ostinazione ed è già prevenuto con quei doni coi quali può giovare agli altri, quando gli viene imposta la massima dignità del governo delle anime, egli deve rifuggire da essa col cuore, ma pur contro voglia deve obbedire» (n. 6).

Dunque, secondo Gregorio, il pensare di rifiutare un servizio di leadership perché ci si ritiene inferiori ad altre persone non è un atteggiamento sbagliato o peccaminoso, ma è virtuoso in quanto espressione di vera umiltà. Tuttavia, questa umiltà è insufficiente in sé stessa, cioè deve essere integratada altre virtù, in particolare dalla sottomissione alla volontà divina.

Se il discernimento fa comprendere che la richiesta di assumere un determinato ruolo di responsabilità viene da Dio, allora occorre obbedire, ovvero completare la virtù dell’umiltà con quella dell’obbedienza.

Il criterio indicato da Gregorio per svolgere questo discernimento è molto semplice: occorre capire se si hanno dei doni con cui si può giovare agli altri nell’incarico che si è richiesti di assumere.

Non si tratta, quindi, di valutare il proprio possibile benessere nel nuovo ruolo – aspetto comunque importante –, ma occorre guardare al bene delle altre persone, se cioè ci si potrà mettere efficacemente al loro servizio. Un servitore, come un ministro della Chiesa deve essere, ragiona in questi termini.

Un sano senso di inferiorità

L’accettazione di un incarico, però, non è alternativa all’umiltà che spingerebbe a rifiutarlo. Infatti – rileva Gregorio – occorre fuggire questo incarico col cuore, ma accoglierlo controvoglia per obbedienza.

Questa frase può sembrare un po’ strana, dal momento che sembra suggerire una decisione non piena, un’assunzione non integrale delle proprie responsabilità. In realtà, una lettura di questo genere del passaggio citato non è giustificata a partire dalla vita stessa di Gregorio, un uomo che è rimasto al suo posto di vescovo di Roma in un periodo assolutamente drammatico, ben più del nostro.

Mi pare quindi che l’idea di rifuggire dal ministero col cuore non indichi indecisione o instabilità, ma semplicemente il custodire nel proprio cuore quell’umiltà che di per sé avrebbe spinto a rifiutarlo, e che non è affatto alternativa, ma complementare, all’obbedienza che ha spinto ad assumerlo.

Dunque, per vivere in modo maturo un servizio di leadership occorre continuare a coltivare un sano senso di inferiorità rispetto al compito che si è stati richiesti di svolgere, il che consiste nel ritenere che altre persone potrebbero svolgerlo in modo migliore. Questa umiltà, che se assolutizzata porterebbe alla paralisi, se unita al coraggio dell’obbedienza a Dio, diventa un farmaco prezioso per immunizzarsi dal potere.

Il potere, in effetti, è un vero e proprio veleno che danneggia – magari inconsapevolmente – tutti coloro che lo esercitano, anche se legittimamente nella forma dell’autorità ecclesiale.

Un leader non deve necessariamente avere gravi immaturità spirituali o psicologiche per rischiare continuamente di precipitare in una vita vissuta unicamente per affermare sé stesso sugli altri. È possibile iniziare il proprio servizio mossi dalle migliori intenzioni, ma poi, non avendo la consapevolezza di doversi continuamente purificare dall’avvelenamento del potere o non disponendo degli strumenti per farlo, finire per diventare un cristiano peggiore di quello che si era all’inizio del proprio compito.

Il consiglio di Gregorio di custodire un sano senso di inferiorità rappresenta un aiuto prezioso per chi deve vigilare quotidianamente su sé stesso affinché la sua leadership non sia mai distruttiva ma resti funzionale al bene delle persone.

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