Ph. Müller: Quando una predica è buona?

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È stato chiesto in un’intervista al sacerdote e professore di teologia pastorale presso l’Università di Magonza, Philipp Müller, come giudicare se una predica sia buona oppure no. L’intervista è stata effettuata da Tobias Glenz ed è stata pubblicata sulla pagina web della Chiesa cattolica tedesca, il 18 luglio scorso.

– Prof. Müller, mano sul cuore: capita anche a lei di sentirsi venir sonno ascoltando una predica?

Qualche volta sì. Quando, ascoltando, sento dentro di me una ribellione, allora so che qualcosa va terribilmente male. Quando, per esempio, ho l’impressione che un predicatore sia incongruente. O quando il Vangelo viene banalizzato. Oppure se è usato solo in maniera moraleggiante. Queste sono per me cattive prediche. Un buon segno invece è quando ascolto volentieri una predica e non mi viene da pensare: speriamo che finisca presto.

– Pensa che le cattive prediche siano anche una delle ragioni per cui in molti luoghi i banchi delle chiese rimangono vuoti?

Ciò può in ogni caso contribuire. Io credo che la ragione più profonda stia nel processo di estraniamento dalla Chiesa. Ma giocano un ruolo anche altri fattori come la diversificazione e l’individualizzazione. Le cattive prediche non costituiscono mai l’unica causa. Cattiva del resto è una predica anche quando ho l’impressione che il predicatore legga un testo che forse ha scaricato da internet e che vende come proprio. Ciò avviene abbastanza di frequente e la gente ne se accorge.

– Allora che cosa rende sostanzialmente buona una predica?

La predica deve annunciare il Vangelo, rendere comprensibile la Buona Notizia. Ma in modo tale che gli ascoltatori, a partire dal Vangelo, possano riflettere sulla propria vita. Devo sentire che il Vangelo ha qualcosa a che fare con me e con la mia vita, che mi ha detto qualcosa. Una buona predica deve suscitare la fede negli uditori, fortificarli in modo che possano far fronte ai loro problemi quotidiani. Trovo molto suggestivo che la gente riprenda nuovamente in mano il filo che il predicatore ha loro suggerito. Il miglior segno è quando una predica induce a riflettere, suscita lo scambio e la discussione.

– Quale ruolo ha il linguaggio che viene scelto?

È del tutto centrale. Predicare è un atto comunicativo, compiuto in maniera verbale. La predica è un discorso e mai una lezione. Perciò il foglietto degli appunti o la predica a braccio costituiscono propriamente il mezzo più adatto. Importante è anche la retorica e qui ho molto da imparare: per esempio, come parlare in modo chiaro, così che la gente possa seguirmi o come strutturare la predica in maniera coerente. Importante è che non degeneri in una unità didattica e si esaurisca in una vuota retorica.

– Alla Chiesa viene a volte rimproverato di avere un problema di linguaggio. Posso usare concetti teologici per specialisti o delle metafore tipiche della Chiesa come il celebre “lievito”?

Perlomeno non bisognerebbe usarli troppo. Qualcosa del genere si può utilizzare: per esempio il concetto di “grazia”. Coloro che frequentano regolarmente la chiesa lo capiscono. Ma bisogna essere cauti, stare attenti e spiegare l’uso di questi concetti.

– Quale ruolo hanno i gesti, la mimica, il volume della voce, la comprensibilità del prete?

La miglior predica non serve a niente, se non vengo capito. Ciò significa che devo parlare in maniera forte e chiara e non farfugliando. È importante a questo scopo un addestramento al parlare durante il periodo della formazione. I gesti e la mimica sono importanti ma non devo studiarli davanti allo specchio. Se mi comportassi in maniera artificiale, la gente rimarrebbe piuttosto fredda. Una mimica e una gestualità appropriate risulteranno solo se rimango me stesso.

– La credibilità rimane quindi un punto centrale?

L’autenticità sta al vertice. La cosa peggiore è quando un prete beve vino e predica acqua. È una cosa nefasta. Altrettanto grave è anche quando uno predica in maniera brillante, ma come pastore della comunità ha poi difficoltà nei rapporti umani. In questo caso gli ascoltatori non ricavano un granché, anche se il discorso è di livello.

Un fatto del genere suscita piuttosto delle reazioni negative. Non credo che gli ascoltatori si attendano un predicatore o un uomo perfetto. Importante è essere coscienti dei propri limiti e di affidarsi sempre alla grazia e misericordia di Dio. Se uno riesce a trasmettere questo ai suoi uditori, allora vuol dire che la sua predica è buona.

– Quanto deve durare la predica. È necessario fissarsi un tempo di massima?

In linea di principio, posso predicare fintanto che riesco ad attirare l’attenzione degli ascoltatori, senza che si distraggano. Se volessi parlare di minuti, allora potrei dire circa sette/otto, la domenica. Ma naturalmente ci sono delle prediche particolari come quelle della quaresima o delle feste che possono durare più a lungo. Dipende sempre dalle circostanze. Personalmente mi rifiuto di regolare il tempo.

– Nelle prediche quanto devo sentirmi coinvolto nella vita della gente?

Credo che la vicinanza alla vita del mondo sia indispensabile per il predicatore. Infatti solo se mi sento coinvolto nella vita della gente, allora conosco anche le loro preoccupazioni, le ansie e le gioie che nella predica posso poi mettere in relazione con il Vangelo. Devo anche coltivare un buon rapporto con la gente e coltivare lo scambio.

– E come metterla con gli avvenimenti quotidiani, per esempio quelli della politica?

Sostanzialmente è una cosa buona e giusta. Tuttavia devo fare attenzione a non dare delle risposte maldestre e a non fare del moralismo. Devo sempre tener presente che gli avvenimenti politici sono complessi e pertanto devo guardarmi dalle accuse unilaterali. Per esempio, il caos scoppiato ad Amburgo in occasione del G20, è un fatto che interessa la gente e perciò può trovare eco anche in una predica.

– I preti vengono preparati sufficientemente a predicare bene?

Durante gli anni di studio ci sono delle unità di retorica e unità omiletiche, si utilizza la videocamera, ci sono celebrazioni liturgiche della Parola, in cui esercitarsi a parlare nella comunità e ricevere un feedback, un riscontro. Si fa anche molto. Ma per acquisire una personalità da predicatore è necessario un processo. È qualcosa che non avviene automaticamente con l’ordinazione. Bisogna lavorarci sopra nel corso degli anni e sviluppare un mio stile di predicazione che sia adatto anche alla mia persona.

– Cosa si potrebbe ancora migliorare in futuro?

La formazione di base è buona. Ma cosa avviene dopo 20 o 30 anni? L’omiletica non compare quasi più nella formazione successiva. Qui ci sarebbe certamente qualcosa da fare. Potrei anche immaginare che si faccia qualcosa in maniera collegiale. Il fatto, per esempio, che un confratello si rechi a una celebrazione liturgica di un altro e poi gli dia un riscontro di come celebra e come predica. Forse sono scivolate dentro delle stranezze di cui la persona non s’accorge e che nessuno gli fa notare.

Trovo interessante che papa Francesco in Evangelii gaudium, al n. 145, accenni all’urgenza di una buona preparazione alla predicazione. Non conosco altro scritto papale di questo livello che sottolinei così decisamente il valore della predica. E il papa è anche lui stesso un appassionato predicatore – come dimostra ogni mattina a Casa Santa Marta.

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