Uscire dalla pandemia: narrazione e comunità

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Foto di Engin Akyurt su Unsplash

Sembra che stiamo uscendo dall’emergenza Covid. Se è così, è giunto il momento di guardare con oggettività a quel che è accaduto.

La pandemia ha mietuto vittime e ha segnato profondamente l’economia, il lavoro, la vita sociale. E, come avviene per ogni crisi grave e prolungata, ha fatto emergere contraddizioni e problematiche, come anche risorse, personali e collettive, che c’erano già prima del Covid-19 in tutti gli ambiti.

Difficile immaginare che ciò non sia avvenuto anche nella vita delle comunità ecclesiali, che sono anch’esse organismi sociali, aggregazioni di persone.

Alla ripresa di una quasi normalità, contraddizioni e problemi presentano il conto, e sarebbe troppo facile e molto incauto limitarsi a dire che “è tutta colpa del Covid”.

La pandemia, crogiuolo e reagente

Colpa è un concetto morale, e i fenomeni della natura non hanno consapevolezza morale. Causano effetti devastanti, ma esercitano anche il ruolo del crogiuolo dell’orafo o del reagente delle analisi chimiche.

Quali situazioni nella vita delle comunità ecclesiali sono state messe in luce dal crogiuolo e dal reagente?

È altamente probabile che, in alcuni casi, siano emerse criticità che, nella normalità, potevano anche rimanere sottotraccia, ma che le circostanze pandemiche hanno reso visibili e si sono aggiunte all’impatto diretto della malattia: fragilità personali che si sono acutizzate; precarietà e debolezze della compagine comunitaria, che preesistevano in un equilibrio instabile, equilibrio che con la pandemia è venuto meno; certe posizioni ideologiche, già di per sé divisive, che si sono radicalizzate; ambiti pastorali, che prima in qualche modo tiravano avanti e che, fermati dai lock-down, sono rimasti fermi e ora stentano a ripartire.

C’è sicuramente anche il lato opposto della medaglia: energie e forze personali, che dalla dura prova della pandemia escono addirittura potenziate; comunità dinamiche e coese che hanno retto bene, la cui vita, pur con i condizionamenti e le costrizioni della situazione, non si è fermata, dove fantasia e tecnologia sono state poste al servizio della continuità possibile, e mentre alcune attività non virtualizzabili erano forzatamente interrotte, ci si è dedicati a progettare il dopo, in modo da essere pronti a ripartire a pieno regime.

Il rischio del dopo-emergenza

Insomma, è facile immaginare che anche in campo ecclesiale, come in ogni altra dimensione sociale, le persone e le comunità siano state rivelate a sé stesse dalla pandemia.

Ma nel corso di una crisi queste “rivelazioni” sono spesso traumatiche e shockanti se negative, o insidiosamente lusinghiere ed esaltanti se positive.

Sarebbe un grave errore, quindi, archiviare la pratica addossando tutte le negatività al Covid o compiacendosi per avergli resistito.

Scrive Andrea Notarnicola nel suo libro L’impresa spezzata;1 «Qualsiasi emergenza produce una fase di disfunzionalità scombussolando le routine, gli equilibri e gli automatismi organizzativi», e aggiunge che, «in mancanza di un programma di recovery», si rischia di cadere «in una persistente disfunzionalità, cioè in uno stato vulnerabile permanente sul piano della cultura e degli atteggiamenti mentali».

Il libro ha per sottotitolo Motivare le persone dopo l’emergenza: la forza dell’unità e della fiducia. Scritto e pubblicato prima della pandemia, è dedicato alle situazioni di grave crisi aziendale, e le analisi e le proposte di recovery che formula sono, ovviamente, rivolte alle imprese. Ma, mutatis mutandis, anche una comunità ecclesiale, come un’azienda, è un’organizzazione sociale complessa, che coinvolge in misura significativa la vita delle persone che ne fanno parte.

Non solo: l’appartenenza alla comunità ecclesiale è di per sé un elemento denotativo dell’esistenza, assai più rilevante, per chi lo vive, di una pur coinvolgente appartenenza a un’azienda.

Naturalmente mi riferisco in particolare a coloro che compongono il nucleo centrale della comunità: chi è stato inviato a servirla nel ruolo di guida e responsabile o collaboratore pastorale e quelli che in essa sono cresciuti e vi ritrovano una tradizione di presenza familiare, o che l’hanno incontrata in un momento particolare della vita, magari in occasione della preparazione a un sacramento per sé o per i figli, e hanno provato il desiderio di andare oltre la fruizione di “servizi ecclesiali”.

Questa, che è la componente core della comunità, quanto più le è legata, tanto più rischia di smarrirsi, se le condizioni di crisi successive a un’emergenza non vengono affrontate e comprese senza reticenze e senza fare dell’emergenza in sé il capro espiatorio di tutti i disagi.

Questa è una tentazione forte, perché cederle consente di eludere il tema della responsabilità personale e comunitaria. Ma le conseguenze sarebbero gravi e strutturali: le ferite e le fragilità non si rimarginano da sole: devono essere colte nella loro verità e nelle loro reali origini, pena il rischio di non riprendersi più. Gli stessi esiti positivi, per poter essere capitalizzati, devono venire letti per ciò che sono e per le fondamenta che hanno.

Raccontarsi la crisi per superarla

Superare realmente la crisi esige, dunque, di metabolizzare l’esperienza.

Come farlo? Ricordando che «un’emergenza è una storia collettiva che si intreccia con la storia personale di ciascuno»2 e perciò affrontando questo intrecciarsi di storie con una coraggiosa e trasparente rilettura comunitaria.

Questa rilettura può essere fatta efficacemente nella modalità della narrazione a più voci, che aiuti i singoli e la comunità a prendere piena coscienza di ciò che hanno vissuto e delle sue radici pre- ed extra-pandemiche, per saper distinguere ciò che è effetto diretto della crisi Covid e ciò che questa ha “solo” portato alla superficie e spinto all’estremo.

In questo modo si comporrà un quadro complessivo veritiero e dettagliato, che diventerà la road map per recuperare, ricomporre, ricostruire, rilanciare, come anche per prendere piena coscienza delle proprie positività e risorse. Per ripartire, insomma, su basi nuove e su fondamenta risanate, in un rinnovato spirito di comunione.

È un processo che non si attiva da solo: ha vitale necessità del sostegno dello Spirito. Ma questo sostegno non basta invocarlo: deve essere accolto su un’adeguata “pista di atterraggio”, e questa pista è una buona comunicazione infra-comunitaria. «Comunicazione e comunione non possono esistere l’una senza l’altra, e per arrivare alla comunione è sempre necessaria la comunicazione. Possibilmente una buona comunicazione, una comunicazione efficace».3

Atteggiamenti e metodo

La narrazione comunitaria dell’esperienza pandemica e, soprattutto, di ciò che la pandemia ha portato alla luce, non va intesa come un “tribunale post-bellico” né come un evento auto-celebrativo. Per dare frutto, dev’essere affrontata con convinzione e con quattro atteggiamenti di fondo: trasparenza, carità, parresìa e umiltà.

Convinzione: crederci e voler andare fino in fondo.

Trasparenza: proprio perché non è un tribunale né un’auto-celebrazione, tutti gli elementi da analizzare devono essere affrontati senza timore.

Carità: mai darla per scontata solo perché si è una comunità cristiana, è dono da invocare e praticare, tanto più in una fase delicata della vita comunitaria.

Parresìa: coniugata con la carità, è la virtù di chiamare le cose con il loro nome senza che quel nome divenga una pietra scagliata.

Umiltà: la narrazione comunitaria non annulla i ruoli e le diverse responsabilità, ma non consente che divengano scudi, paraventi o corazze, la condivisione del raccontarsi esige che tutti si mettano in gioco.

È un’operazione che può rivelarsi faticosa, e che in certi casi potrebbe meglio essere vissuta con l’aiuto di facilitatori esterni alle dinamiche da analizzare e da elaborare, che non si pongano come “terapeuti”, ma abbiano e mettano a disposizione le competenze per supportare una comunicazione efficace e costruttiva.

Infatti, l’adozione di un adeguato metodo di lavoro è altrettanto rilevante per il successo di quanto lo sono la convinzione e gli atteggiamenti sopra richiamati. Nulla di esoterico o di iper-specialistico: si tratta, però, di fare bene e con piena consapevolezza qualcosa che è di per sé connaturato alla vita pastorale ordinaria di una comunità.

Qui si annida un rischio: lavorare in gruppi, incontrarsi e parlare, tenere riunioni sono attività talmente consuete, che raramente si prende in considerazione la qualità e l’accuratezza delle metodologie in quanto tali. In questa occasione, invece, la questione della consapevolezza del metodo è di primaria importanza.4

Un percorso sinodale

Là dove si riscontri l’opportunità o la necessità di attivare questo percorso di metabolizzazione della crisi attraverso la narrazione, si può affermare che il “clima sinodale” di questo tempo della Chiesa giunge veramente come un segno e un aiuto provvidenziale.

Anche se il Sinodo ha un diverso focus e obiettivi e orizzonti più ampi e articolati, il forte richiamo alla sinodalità come dimensione esistenziale della Chiesa è, infatti, proprio quello che viene richiesto a una comunità che si riconosca bisognosa di uno strutturato percorso di recovery dopo l’emergenza: un volgersi indietro per andare avanti, per continuare o riprendere a camminare insieme con quella nuova e più matura consapevolezza, che è forse l’unico effetto collaterale positivo che può essere tratto da una crisi come la pandemia.


(1) Andrea Notarnicola, L’impresa spezzata. Motivare le persone dopo l’emergenza: la forza dell’unità e della fiducia, ed. Franco Angeli, Milano 2019, pag, 165.

(2) Notarnicola, cit., pag. 108.

(3) Giorgio Agagliati, Poche chiacchiere! Come comunicare bene in parrocchia, ed. ElleDiCi, Torino, 2018, pagg. 13-14.

(4) Agagliati, Poche chiacchiere!, cit., Capitolo VI, “Riunioni e incontri: la bella fatica”, pagg. 74-95.

  • Giorgio Agagliati è diacono permanente della diocesi di Torino, membro del Consiglio nazionale della Comunità del Diaconato in Italia, giornalista pubblicista e specialista di comunicazione d’impresa, docente aggiunto di Internal Communication all’Università IULM di Milano
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