Pupi Avati: le parole del prete

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Nell’incontro de La bottega delle idee del 23 marzo scorso, promosso dell’Ufficio catechistico nazionale con la partecipazione dei responsabili diocesani della catechesi e di esperti invitati, significativa è stata la proposta/racconto di Pupi Avati. Un dialogo franco con richiami vivi, perché gli annunciatori – e in particolare i sacerdoti – lascino il pressapochismo e la retorica semplificatrice dell’annuncio.

La proposta del regista intreccia vita ed esperienza con il desiderio di comunicare un sogno, contiene frammenti di vangelo che ogni accompagnatore nella fede può raccogliere.

Gli stacchi presenti nel testo sono frutto di una nostra libera interpretazione per mettere meglio in luce i passaggi che il cineasta ha consegnato agli intervenuti.

Esigo credibilità

«Ho accolto volentieri questo invito, perché mi capita molto poco di parlare di fede, piuttosto sono invitato a parlare di Dante Alighieri al quale ho dedicato vent’anni della mia vita e di cui ho scritto un romanzo e ho fatto un film.

Ogni tanto avverto la necessità di confidarmi con qualcuno, e non lo so più fare con i sacerdoti direttamente, perché i sacerdoti ai miei occhi hanno perso un po’ di quella credibilità che io esigo.

Mi spiego meglio. Io penso che credere sia una delle imprese più difficili del mondo, ma anche la più necessaria. È difficile, perché è irragionevole che ci sia qualcosa che va oltre la vita, quando tutto ci spinge a mostrare che non c’è nulla oltre la morte. Tant’è vero che è stata sospesa dal nostro eloquio la locuzione avverbiale “per sempre”. Quand’ero ragazzo lo si usava in continuazione. Con tutte le ragazze con cui sono uscito ho ripetuto e creduto di voler stare con loro “per sempre”. Quando mi sono sposato ho risposto a un sacerdote che mi chiedeva “Vuoi tu, Avati Giuseppe, prendere la qui presente…?”, e ho detto sì. Nei testi delle canzoni era ricorrente il “per sempre”. Adesso non si ha più la percezione che esista qualcosa “per sempre”, se non legato alla morte. Questa è una delle cartine di tornasole che ti fanno pensare che non sia facilissimo credere a un “per sempre”.

Non mi confesso più come prima

Allora vado a confessarmi, o meglio andavo a confessarmi, non vado più a confessarmi. La confessione penso sia uno dei sacramenti meno frequentati della Chiesa recente. Ci sarà una ragione! Perché la confessione è diventato un incontro molto deludente.

Per me, la premessa è questa: chiedo a chi mi confessa se crede. Lei crede, lei crede in Dio, crede che ci sia una vita dopo la morte, che ci sia una risurrezione, crede nelle cose in cui siamo stati educati? Io vedo che, nella risposta, c’è un volermi persuadere che questo prete crede, ma non è convincente. Quanto sarebbe più credibile un sacerdote che ti dicesse: io voglio credere, ma stento, fatico, è difficilissimo anche per me.

E anche nelle omelie, che sono il punto punitivo della messa, il momento in cui siamo costretti a subire… Se i sacerdoti esordissero dicendo: io vi capisco, anche per me è molto difficile credere, tutto diverrebbe più credibile.

Se adesso ci dicessimo, guardandoci l’un l’altro, quanto è difficile credere, e tuttavia quanto è necessario perché l’ingiustizia del mondo trovi una via d’uscita, sarebbe tutto più accettabile.

C’è un risarcimento per chi ha solo patito

Sono sufficientemente anziano per poter dire che conosco persone che hanno solo patito e sofferto, e per queste persone non può non esserci un risarcimento, un Dio che le accolga e le abbracci. Con questa convinzione vado in chiesa e prego Dio di esserci, perché lo sento veramente necessario.

Tuttavia, con chi spartisco questo tipo di necessità, con chi ne parlo? Non solo nel mio ambiente, che è profondamente laico, ma anche nella vita quotidiana è difficilissimo trovare qualcuno che condivida questa cosa.

E allora quando, in modo un po’ provocatorio, dico: vado in chiesa tutti i giorni, mi sorridono, mi guardano con una sorta di diffidenza, per dirmi o che sono esageratamente ingenuo o che sto scherzando. Ma io non sto scherzando. Sto cercando, andando in chiesa nella stessa panca dove sedeva mia madre, di raggiungere quella che per mia madre era la gioia che viveva nella preghiera.

Per me è ancora un sacrificio e, dopo tanti anni, non sono ancora riuscito a trasformarlo in gioia. L’unica gioia che provo a tratti nella mia vicenda umana è la sensazione improvvisa, ingiustificata e immotivata di essere amato. A tratti, in metropolitana, in tempi e momenti che non hanno niente a che fare con la spiritualità, mi sento parte di un insieme straordinariamente armonico.

E allora condivido con le persone che non conosco, sento una sorta di misteriosa e commoventissima comunione. E sento che l’autenticità della mia fede la vivo in quei momenti, in quelle frazioni di secondo.

Occorre cercare il proprio talento

In questi anni recenti, ho sentito una divaricazione fortissima tra il mio fisico che è diventato sempre più recalcitrante e il mio io che è rimasto quel ragazzino di via Saragozza a Bologna, che si guardava attorno e aveva 360 gradi di possibilità di poter immaginare e sognare qualunque cosa.

Quando vado nelle scuole di recitazione, ai ragazzi di oggi cerco di insegnare loro a immaginarsi qualcosa di personale e di straordinario, a confidare nel loro futuro, cosa che viene totalmente a mancare nella cultura di oggi, perché chi sogna viene perennemente, quotidianamente, dissuaso dal farlo.

Addirittura, arrivano a parlarti di un piano “b”. Il piano “b” è la rinuncia ai propri sogni, ed è la cosa più grave che una persona possa fare. Uno deve cercare il proprio talento, la propria disposizione, la propria vocazione.

Poter dire chi si è

È successo anche a me. Ho dovuto lasciare la band musicale, perché Lucio Dalla era nettamente superiore alle mie capacità. Rinunciare a un sogno a metà dei tuoi vent’anni è tremendo.

Poi, fortunatamente, grazie alla visione del tutto casuale di un film –  di Federico Fellini – capii che il cinema avrebbe potuto sostituire la musica. Sarebbe stato lo strumento attraverso il quale io potevo dire chi ero. Perché la lezione che voglio lasciarvi è questa: dovete dire chi siete prima d’andarvene. Questo è il dovere di ogni essere umano, dire che fa.

La gran parte delle persone di questo paese, forse il 70%, svolge un’attività con cui non ha nulla da spartire, che odia certe volte, nella quale non si riconosce, in cui può essere sostituito da un altro. Vivere la vita così è un modo totalmente sbagliato.

Allora, nelle mie lezioni, cerco di trasferire l’idea che sia ancora possibile sognare. Con una sottolineatura: che più il sogno è grande, più è improbabile, e più è facile che si realizzi.

Io, per un certo periodo, vendevo surgelati. Ero uno degli 11 missionari Findus in Italia, ero campione di vendita di bastoncini di pesce. Ma vendere bastoncini non era una grande cosa.

Quando vidi questo film, essere venditore di bastoncini di pesce, vivere in una città provinciale come Bologna, lontanissima dal film, essere sposato, e improvvisamente immaginare di diventare regista cinematografico, non vi sembra un sogno un po’ impudico? Non c’è qualcosa di cui preoccuparsi di questo essere umano che ha la sfrontatezza di fare un sogno di questo genere?

Bene, io ho realizzato 54 film. Grazie al fatto che ho creduto di poter fare 54 film, e probabilmente ne farò 55 e, se voi non mi vorrete troppo male, ne farò 56.

La vita è fatta per aiutare gli altri a sognare, a crescere.

Quando, in queste scuole di recitazione, ci sono 40-50 ragazzi e dò loro un monologo o un testo da recitare, quelli che riescono meglio sono i più timidi, quelli che hanno più problemi, quelli che non vorrebbero mai venire.

La vulnerabilità, la fragilità, il senso di inadeguatezza sono tutti elementi che rendono l’essere umano migliore. Queste sono le qualità dell’essere umano, non sono l’autostima, il presentare il medagliere.

Credo ai miracoli

I primi due film sono stati un disastro. Ho fatto perdere 270 milioni a un imprenditore e ho dovuto lasciare Bologna.

A chi accadono i miracoli? A chi crede al miracolo. Ai preti che non credono nei miracoli non capitano miracoli, bisogna credere, avere questa fiducia. Nella cultura contadina, nella quale sono cresciuto, succedevano, perché si credeva.

Arrivo a Roma con due figli, ero in una situazione disperata, quando, del tutto casualmente, la moglie di Ugo Tognazzi, invece di mettere nella valigia di Ugo, in partenza per Parigi, il copione di Bevilacqua, vede sul tavolino un copione mio e, senza aprirlo, lo mette nella valigia. Tognazzi si trova a Parigi con questo copione, lo legge, gli piace e, dopo 15 giorni, vengo cercato da Tognazzi da Parigi. Si candida a fare il mio film, gratuitamente.

Torno a quell’esordio dell’omelia, dove, iniziando, si dovrebbe dire: com’è difficile credere, come è difficile anche per noi sacerdoti credere, anche per noi che abbiamo investito tutta la nostra vita!

Eppure, ci sono dei momenti in cui noi avvertiamo questa necessità. E sono i momenti più belli, quando mi trovo in una chiesa deserta a dire il nome dei miei amici, mi sento dentro un tempo che è più grande del tempo della mia vita. Mi sento, simultaneamente, quel bambino che sono stato e quello che non sarò più, mi sento di far parte di qualcosa di perfetto. E questa è un’esperienza alla quale si perviene se si è stati educati nella cultura contadina. Quel mondo è il mondo nel quale sono cresciuto, dal quale non ho preso mai le distanze.

Apprezziamo essere apprezzati

Un altro rimprovero che volevo rivolgervi. Non considerateci acquisiti. Faccio un esempio. Il card. Gianfranco Ravasi ha avuto l’idea di fare un incontro con gli stati generali del cinema. Hanno invitato nella Cappella Sistina tutti i cineasti. Ed è andata così: i cineasti considerati meno vicini alla Chiesa, quelli atei… tutti erano trattati con attenzione, riveriti, portati nelle prime file, e omaggiati. Io, Krzysztof Zanussi ed Ermanno Olmi, gli unici registi cattolici, abbandonati nelle ultime file.

Questo è vedere le cose in modo sbagliato, perché non deve essere dato per scontato il fatto che uno fa parte del giro. Apprezzeremmo essere anche un po’ apprezzati.

Per rendicontare il mio rapporto con la fede devo dire che, nelle mie letture serali, io leggo tutte le sere il discorso della montagna, e penso che il vangelo sia tutto lì. C’è già tutto quello che si può dire nel rapporto tra gli esseri umani. Il modo più alto e commovente, più pacificatorio, più giusto di quello che dovrebbe essere l’essere umano nei confronti del suo prossimo.

Non credo che serva leggere altro, è importante ripetersi quelle cose. Io penso che le beatitudini siano la cosa più alta che sia stata scritta sull’essere umano, che non ci sia niente di più. Non è possibile neppure immaginare qualcosa di più. Quindi, tornando alle omelie, cercare di parlare di sé stessi. Non illudersi di poter essere oggettivi. Perché l’oggettività non comunica niente.

Come funziona una proposta

Mi è stato chiesto di testimoniare quando un racconto funziona, quando un film funziona. Di recente, ho finito di montare un film che ha per titolo La XIV domenica del tempo ordinario. Questo titolo stupisce i più, perché tutti non sanno cos’è il tempo ordinario, pensano che sia un tempo qualunque, o un tempo in cui piove. Stranamente, il tempo ordinario è il tempo nel quale ci si sposa di più, perché è la primavera.

Ho raccontato la storia di due esseri umani che si rincontrano dopo 37 anni di separazione, lui ha 81 anni, lei 76. Sono 37 anni che non si vedono, anni in cui si sono combattuti con avvocati, e adesso si rincontrano.

Sono due persone che, come tante altre, non ce l’hanno fatta. Non tutte le persone del mondo ce la fanno. Alla fine, se sono oneste con sé stesse, devono dire: non ce l’ho fatta, non sono diventato quello che avrei voluto.

È un film sul matrimonio, sul tornare assieme di due persone dopo 37 anni di separazione. È la necessità uno dell’altro.

Mi sono sposato 56 anni fa e vivo con la stessa donna da allora, in uno stato di belligeranza continua, lei mi odia, lo dice ai nostri figli. Io non riesco a odiarla. Tuttavia non è facile. Abbiamo salvato la nostra unione. Ho vissuto questi anni con una persona che ha dentro di sé il mio hard disk, tutto quello che sono stato, da quando suonavo il clarinetto, da quando vendevo i bastoncini Findus, da quando ho fatto il primo film.

È importante parlare di sé, confidando in chi ti ascolta e che ci sia uno tra i presenti che è venuto qua oggi, al quale le cose che ho detto lo hanno particolarmente colpito.

Accadrà che io venga a sapere tra qualche tempo che, quanto ho detto, è risultato importante. Questa cosa dà un senso alla mia presenza qui, che intende essenzialmente incoraggiarvi, ad aspettarvi molto dalla vita, a sognare, a progettare delle cose grandi belle, straordinarie.

Provo a dirvi cos’è la vita

Credo di essere arrivato al momento in cui voglio dirvi che cos’è la vita, partendo dalla cultura contadina. Per la cultura contadina delle nostre terre, la vita è un percorso che l’essere umano fa salendo una collina, e l’essere umano, salendo la collina, si convince sempre di più che quando arriverà lassù in cima scollinerà e troverà dall’altra parte qualcosa di assolutamente straordinario, troverà chi lo capisce, chi lo risarcisce, chi lo ascolta, troverà chi si rende conto delle sue qualità, delle quali non si è ancora reso conto nessuno.

Da lì comincia una sensazione di rientro, accade qualcosa per cui si va a imporre la nostalgia, al futuro si impone il passato, il ricordo. Senti che assomigli sempre più a quel bambino che sei stato, che c’è qualcosa di misterioso. Ciò che fa sì che un vecchio e un bambino siano straordinariamente simili, è la vulnerabilità, che è la qualità superiore dell’essere umano. La vulnerabilità non ha quegli anticorpi, quella diffidenza, che ti protegge dal mondo, vedi Gesù.

La bellezza somma è nella vulnerabilità. Allora improvvisamente capisci che il tuo prossimo non è quello che mostra le sue medaglie, ma è quello che ti prende da parte e ti comunica la sua vulnerabilità.

Il prete nell’omelia dica la sua vulnerabilità, dica le sue paure e raccoglierà attorno a sé molti più consensi e non persone che guardano l’orologio augurandosi che l’omelia duri poco.

Tutto questo mi porta ad augurarmi che la fine del mio viaggio avvenga in via san Vitale 51 a Bologna, dove, nella cucina del secondo piano, mio padre e mia madre mi aspettano per la cena».

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3 Commenti

  1. Roberta Malagola 9 maggio 2023
  2. quinto regazzoni 6 maggio 2023
  3. Piras Romano 5 maggio 2023

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